Il grande abbaglio del crollo cinese

da il Sole 24 ore del 5 agosto 2013

cina-yuan-dollariLa punditocracy, ovvero la classe degli opinionisti, ha ancora una volta ceduto alla sindrome da “crollo cinese”, una malattia che sembra colpire ciclicamente i commentatori economici e politici. Poco contano i ripetuti falsi allarmi degli ultimi vent’anni, il coro degli scettici sostiene che stavolta è diverso.

L’economia cinese ha rallentato, questo è indubbio. Se l’Occidente può solo sognare di uguagliare un tasso di crescita annua del Pil come quello cinese – il 7,5% per il secondo trimestre del 2013 – di certo la crescita del Paese ha registrato un rallentamento sensibile rispetto ai livelli del 1980-2010, quando era al 10%.

Ma non è solo il rallentamento a fomentare gli scettici, bensì anche il debito eccessivo e la relativa fragilità del sistema bancario, il rischio di una bolla immobiliare e, più importante ancora, la presunta mancanza di progressi rilevanti in materia di riequilibrio economico – il tanto atteso passaggio da un modello di crescita sbilenco, basato sulle esportazioni e sugli investimenti, a un altro basato sui consumi privati interni.


Per quanto riguarda l’ultimo punto, i recenti cambiamenti nella composizione del Pil cinese appaiono a prima vista sconcertanti. Nel primo semestre di quest’anno, i consumi (sia privati che pubblici) hanno contribuito alla crescita economica solo per il 3,4% – che scende al 2,5 circa nel periodo aprile-giugno -, una decelerazione dei dati trimestrali del Pil su base sequenziale che evidenzia un indebolimento ciclico, o temporaneo, della domanda dei consumatori cinesi.

Allo stesso tempo, il contributo degli investimenti è salito da 2,3 punti percentuali di crescita del Pil nel primo trimestre 2013 a 5,9 punti nel secondo trimestre. In altri termini, invece di passare da una crescita basata sugli investimenti a una basata sui consumatori, la Cina sembra non aver cambiato strada.

Per un’economia squilibrata che ha puntato troppo sugli investimenti e troppo poco sui consumi per buona parte degli ultimi tre decenni, ciò è inquietante. Dopotutto, sono anni che la leadership cinese parla di riequilibrio economico, specialmente dopo il varo del dodicesimo piano quinquennale pro consumi nel marzo 2011. Per gli scettici, una cosa era l’impossibilità di attuare il riequilibrio quando l’economia era in rapida crescita, un’altra è ostacolare questo processo in un clima di “crescita lenta”.

Questo è un modo di pensare a dir poco superficiale. Il riequilibrio di un’economia difficilmente avviene da un giorno all’altro. Occorrono strategia, tempo e determinazione, tutte caratteristiche che la Cina possiede in abbondanza.

La composizione del Pil è probabilmente il peggior metro per valutare la fase iniziale del riequilibrio economico. Alla fine, ovviamente, sarà la composizione del Pil a confermare (o meno) il successo del Paese. Ma è presto per aspettarsi cambiamenti a livello delle principali fonti di domanda aggregata. Per ora, è più importante concentrarsi sull’evoluzione delle determinanti del consumo cinese.

Da questo punto di vista, ci sono buone ragioni per essere ottimisti, soprattutto vista la crescita accelerata del settore dei servizi, che è uno degli elementi chiave di un riequilibrio basato sui consumatori. Nella prima metà del 2013, la produzione di servizi (il settore terziario) è cresciuta dell’8,3% annuo, molto più rapidamente rispetto alla crescita combinata di manifatturiero ed edilizio (settore secondario), pari al 7,6%.

Il divario di crescita tra terziario e secondario è aumentato nei primi due trimestri del 2013 rispetto al 2012, quando gli introiti annuali per entrambi i settori ammontavano all’8,1%. Questi sviluppi – ora tesi a un’accelerazione nella crescita dei servizi – sono in decisa controtendenza rispetto al passato. Tutto ciò suggerisce che la struttura della crescita cinese inizia a orientarsi verso i servizi.

Perché i servizi sono così importanti per il riequilibrio della Cina? Essi richiedono un uso di manodopera molto più intensivo rispetto ai settori tradizionali. Nel 2011, i servizi cinesi hanno generato il 30% di posti di lavoro per unità di prodotto in più rispetto ai settori manifatturiero ed edilizio. Ciò significa che l’economia cinese può raggiungere i propri obiettivi di assorbimento del lavoro – occupazione, urbanizzazione e riduzione della povertà – con una crescita del Pil molto più lenta che in passato. In altre parole, con un’economia sempre più orientata ai servizi un ritmo di crescita del 7-8% permette di realizzare gli stessi obiettivi di assorbimento del lavoro che, in un modello economico passato, richiedevano un tasso di crescita del 10%.

Questa è una buona notizia per tre ragioni. In primo luogo, la crescita dei servizi sta attingendo a una nuova fonte di produzione di reddito da lavoro, il pilastro della domanda dei consumatori. In secondo luogo, un maggiore affidamento sui servizi consente alla Cina di attestarsi su un percorso di crescita più lento e sostenibile. In terzo luogo, la crescita del settore dei servizi, che oggi rappresenta solo il 43% del Pil del Paese, allarga la base economica della Cina, creando un’importante opportunità per ridurre le disuguaglianze di reddito.

Lungi dal crollo, dunque, l’economia cinese è a un punto cruciale, in cui la ruota del riequilibrio ha cominciato a girare. E se ciò non emerge in modo chiaro dalla composizione della domanda finale (almeno non ancora), il passaggio dai settori manifatturiero ed edilizio a quello dei servizi è, in questa fase di trasformazione, un indicatore molto più significativo.

Significativi sono anche i segnali di una ritrovata disciplina politica – come a esempio una banca centrale che sembra determinata a svezzare la Cina da un’eccessiva espansione del credito, e autorità fiscali che resistono alla trita tentazione di massicce iniziative di spesa per contrastare il rallentamento.

Lentamente, ma inesorabilmente, si sta delineando la Cina del futuro. Ancora una volta, però, gli scettici dell’Occidente hanno travisato i segni vitali dell’economia del Paese.