di Donato Masciandaro | da il Sole 24 Ore del 9 marzo 2012
I vantaggi che alcune imprese multinazionali con attività bancarie stanno traendo grazie alla liquidità messa a disposizione dalla Bce sono solo l’ultimo esempio delle distorsioni che possono essere causate dall’attuale sistema delle regole finanziarie.
Ma l’abbondante liquidità può essere sfruttata anche dalle banche anglossassoni internazionali nazionalizzate. Alla fine ad essere penalizzati rischiano di essere come al solito le imprese e le banche dei sistemi nazionali meno esposti ai rischi finanziari e meno nazionalizzati, come il nostro. Mentre l’Europa finge di non vedere, con la felicità dei grossi conglomerati.
Il dibattito sul rapporto tra liquidità ed erogazione del credito, che è condizione necessaria per una credibile ripresa economica (e proprio quando lo swap greco è andato a buon fine), è stato arricchito dalla notizia che talune imprese multinazionali, giovandosi di essere nei fatti parte integrante di un conglomerato dotato anche di accesso diretto al credito, stiano traendo massimo profitto dalle iniezioni di liquidità che la Banca centrale europea sta attuando al fine di tutelare la stabilità finanziaria dell’Unione. Qual è la novità? Nessuna, se non quello di vedere l’ennesimo macroscopico esempio di distorsione nella allocazione dei flussi finanziari, causato da regole del gioco sbagliate. Distorsione che però – come altre – viene ignorato nelle cosiddette riforme post-crisi della regolamentazione. Le potenziali esternalità che nascono dalla presenza di conglomerati finanziari che possono operare arbitraggi tra regolamentazioni nazionali eterogenee e solo parzialmente armonizzate sono note da almeno due decenni. La loro tossicità sistemica è intanto progressivamente aggravata.
Gli ingredienti sono semplici. In primo luogo, occorre un soggetto imprenditoriale che opera in più mercati e in più settori, possibilmente sia nella parte reale che in quella finanziaria dell’economia. In secondo luogo tale oggetto deve essere nella condizione di fare arbitraggio tra regolamentazioni diverse, in modo da utilizzare al meglio le opzioni più convenienti, qualunque sia il tipo di regolamentazione: industriale e commerciale, fiscale, bancaria e finanziaria. Dal punto di vista specifico dei flussi finanziari, il conglomerato finisce per costruire e sviluppare una sorta di suo ‘mercato interno’, che ottimizza di volta in volta le sue scelte aziendali. Niente di male, se l’attività di arbitraggio dei conglomerati non fosse anche foriera di esternalità sistemiche. Infatti l’arbitraggio regolamentare consente al conglomerato di assumersi rischi che magari sono coerenti con l’obiettivo di massimizzare i rendimenti dei suoi manager, e forse anche dei suoi azionisti, ma certo non di tutti i soggetti che dall’attività del conglomerato possono essere toccati, in positivo e in negativo.
I conglomerati possono provocare almeno quattro tipi diversi di esternalità. Ci sono gli arbitraggi finanziari, che possono aumentare l’instabilità sistematica. Poi ci sono gli arbitraggi fiscali, che possono danneggiare l’efficienza e l’equità della politica fiscale. Aggiungiamo gli arbitraggi societari, che possono incidere sulla trasparenza e correttezza. Infine – e in generale – le distorsioni alla condizioni della concorrenza. Insomma il conglomerato non può che essere un soggetto sottoposto a una vigilanza rafforzata, nel comune interesse. Altrimenti i rischi sono alti.
Prendiamo un caso emblematico, rappresentato dal conglomerato finanziario Aig, salvato dal Governo americano durante la crisi. Definito istituzionalmente un’impresa assicurativa, Aig operava in più mercati – statunitensi e no – e in più settori finanziari. La sua profonda e inaspettata crisi viene di solito utilizzata proprio come esempio dei danni che può fare un soggetto economico quando opera trasversalmente in più mercati, senza essere sottoposto ad adeguata sorveglianza, ed è diventato uno dei simboli di come l’eccesso di rischio individuale – permesso da cattivi controlli – danneggia la collettività.
Purtroppo la crisi non ha insegnato nulla. Anzi, se possibile, ha peggiorato la situazione. Negli Stati Uniti, nel momento della massima emergenza finanziaria, è stata concessa dal Governo e Fed la licenza bancaria a tutta una serie di soggetti non bancari, impegnati trasversalmente sia in comparti regolati che deregolamentati. La possibilità di accedere al credito della banca centrale poteva essere giustificato dall’emergenza economica, ma doveva essere fortemente bilanciato da vincoli strutturali alla capacità di questi soggetti di creare nuovamente rischio sistemico. Purtroppo la riforma americana non ha dato alcuna risposta credibile al problema dei rischi di esternalità che i conglomerati possono creare al regolare e equo sviluppo dei mercati. Se poi i conglomerati continuano ad operare anche in mercati ancora deregolamentati, e in più hanno potuto giovarsi di aiuti pubblici, la beffa sembra unirsi ai danni potenziali.
Anche l’Europa dovrebbe fare i conti con questa tematica, diventando motore della regolamentazione internazionale. Invece continua a baloccarsi con giocattoli rotti, quali gli stress test, i coefficienti di capitali ponderati per il rischio, l’inutile regolamentazione delle agenzie di rating. Facendo finta di non vedere che con regole sbagliate vincono sempre i più forti.