di Felice Roberto Pizzuti
La politica economica comunitaria si sta caratterizzando per aspetti sempre più paradossali; due recenti esempi lo confermano. Il 21 dicembre, le banche europee hanno aderito ben oltre le pur ampie aspettative all’eccezionale offerta da parte della Bce di prestiti illimitati concessi al conveniente tasso dell’1%, con durata fino a tre anni; complessivamente sono stati richiesti quasi 500 miliardi di euro, di cui 116 (rispetto ai circa 70 attesi) da parte delle banche italiane. Le banche potranno utilizzare come vogliono i prestiti ricevuti, ma tra gli obiettivi dell’operazione c’è anche che acquistino (e sostengano) titoli di stato il cui rendimento, in Italia, è di circa il 6%. Le banche, per avere il prestito dalla Bce, dovranno dare in garanzia dei titoli, tra cui quelli stessi dei debiti sovrani. In definitiva, gli stati faranno da garanti presso la Bce (che per quanto la si concepisca “autonoma” dai governi rappresenta comunque un’istituzione pubblica comune) affinché conceda prestiti illimitati alle banche private le quali, acquistando con soldi pubblici europei titoli pubblici italiani, lucreranno un’intermediazione di circa il 5% lordo a carico del nostro bilancio statale; questo perché, nella visione tanto “rigorosa” quanto autolesionista che domina le decisioni delle istituzioni comunitarie, i titoli di stato non possono essere acquistati direttamente dalla Bce (il ché farebbe risparmiare a ciascun Paese, ovvero ai suoi cittadini, l’ingente onere dell’intermediazione bancaria che essi stessi garantiscono). Circa due settimane prima, la visione “rigorosa” della politica economica comunitaria è stata ribadita e accentuata nella tanto attesa riunione dei Capi di stato che hanno raggiunto l’accordo a 26 (tutti tranne la Gran Bretagna) per il patto intergovernativo di stabilità fiscale (che dovrebbe diventare definitivo entro il prossimo marzo). Pur trovandoci nella fase recessiva di quella che si avvia ad essere la più grave crisi dell’economia capitalistica in tempi di pace, si è deciso di porre un vincolo più restrittivo alle politiche fiscali, stabilendo addirittura che la Costituzione di ciascun paese dovrà impedire che il disavanzo strutturale di bilancio superi lo 0,5% del Pil, pena ingenti sanzioni comunitarie che scatterebbero automaticamente. Dalla combinazione di queste due decisioni – quella della Bce di concedere prestiti illimitati alle banche private che potranno utilizzarli acquistando lucrosamente titoli di stato e quella del nuovo e più depressivo Patto di stabilità fiscale – emerge un ulteriore aspetto paradossale che riguarda l’intera impostazione della politica economica comunitaria. Il principio dell’autonomia delle banche centrali rispetto ai corrispondenti governi – affermatosi negli ultimi decenni nella generalità dei paesi occidentali e con particolare forza nell’Unione europea – implica che non sia possibile un disegno unitario della politica economica e che le scelte delle autorità economiche democraticamente rappresentative siano condizionate da quelle delle autorità non rappresentative. Dunque non è previsto un utilizzo simultaneo, o anche solo coordinato, dei diversi strumenti della politica economica quali la politica fiscale (decisa dai governi) e la politica monetaria (decisa dalle banche centrali). Peraltro si ritiene (principio di Mundell), che se il decentramento della politica economica sia effettuato tenendo conto della maggiore efficacia relativa di ciascun strumento rispetto agli obiettivi (ovvero, che la politica monetaria sia rivolta in primo luogo a salvaguardare la stabilità interna ed esterna della moneta mentre la politica fiscale assuma come obiettivo prioritario la crescita), si possa comunque raggiungere l’insieme degli obiettivi autonomamente fissati; anche se come risultato di una convergenza progressiva di scelte indipendenti e non di una più rapida soluzione unitaria (c’è sempre l’idea che esista una “mano invisibile” che porti a coerenza collettiva le scelte individuali con un esito più efficace rispetto a decisioni coordinate). Tuttavia, nell’ambito del decentramento degli strumenti della politica economica comunitaria (la politica monetaria affidata alla banca centrale unica e la politica fiscale ai singoli governi vincolati dal Patto di stabilità), essendo di fatto eliminata ogni possibilità di favorire la crescita da parte dei governi (anzi costretti a scelte sempre più depressive), in una situazione di recessione come quella attuale gli stimoli espansivi possono venire, come sta avvenendo, solo dalla politica monetaria la quale, tuttavia, non solo è lo strumento riconosciuto come meno efficace a questo scopo, ma in Europa è amministrata da una banca centrale, la Bce, costituzionalmente preposta solo al contrasto all’inflazione (diversamente dalla banca centrale Usa che deve preoccuparsi anche della crescita e di quella cinese che ha anche il terzo obiettivo dell’occupazione). Si aggiunga che a fronte di una politica monetaria comune, la politica fiscale, per quanto vincolata dal patto di stabilità, ma in senso restrittivo cioè contrario alle necessità, è resa ancora meno efficace dalla sua articolazione in scelte nazionali disgiunte. Dunque, sia l’organizzazione istituzionale della politica economica sia le scelte applicative – entrambe in linea con l’intonazione “rigorosa” della visione neoliberista che continua a caratterizzare l’Unione europea (da questo punto di vista negli Usa sono meno “stupidi”) – inducono comprensibilmente al pessimismo sulla possibilità che la politica possa dare l’indispensabile contributo alla fuoriuscita dalla crisi economica epocale generata in larga misura dalla progressiva autonomizzazione dei mercati rispetto alle istituzioni verificatasi nell’ultimo trentennio. Ma per quanto si possa essere motivatamente critici nei confronti delle politiche comunitarie e dei vincoli che essa impone alle politiche dei singoli stati, occorre essere consapevoli che nessun paese europeo, nemmeno il più grande e solido, ha le dimensioni sufficienti per perseguire obiettivi nazionali che fossero incoerenti con l’impostazione dominante nel resto del continente e dell’economia globale. Il passaggio da tante economie medio piccole – che necessariamente sono più aperte e vincolate rispetto alle relazioni economiche internazionali – a un sistema economico (e politico) unitario, che sarebbe il più grande del mondo, offrirebbe margini molto più ampi per operare politiche maggiormente autonome (ad esempio socialmente ed ecologicamente compatibili) cioè molto meno vincolate dai mercati globali e dalle sue correnti speculative. La globalizzazione ha reso indifendibili gli equilibri economici e sociali (e politici) di paesi relativamente piccoli rispetto all’instabilità congenita dei mercati internazionali e alle sue degenerazioni speculative. Per poter efficacemente interagire con i mercati globali è necessario che anche le istituzioni collettive – regolate da scelte democratiche – assumano dimensioni e sfera d’azione adeguate. In Europa non esiste un alternativa all’Unione che abbia una prospettiva ragionevolmente accettabile, cioè che sappia difendere i suoi abitanti dalla sottomissione dei propri equilibri economici, sociali e civili a scelte prese altrove, dalle scorribande della speculazione, dal serio rischio di innescare al proprio interno protezionismi e nazionalismi conflittuali che già nel recente passato hanno avuto per ben due volte, a distanza di soli due decenni, disastrosi esiti bellici. Per quanto si possano e doverosamente si debbano criticare sia le modalità finora seguite dal processo unitario europeo sia la controproducente visione ancora dominante, pensare ad ipotetici piani “B” significa solo rafforzare la possibilità di esiti pericolosamente irrazionali e molto più drammatici della crisi. L’unica strada razionalmente percorribile per un esito progressista della crisi è impegnarsi per l’affermazione nel proprio paese e in Europa di un riequilibrio della situazione sociale, economica e ambientale (i tre livelli sono interconnessi), nella consapevolezza che l’Unione europea è un passaggio ineludibile. In Italia, la tanto attesa caduta del governo Berlusconi rischia di generare fraintendimenti e disorientamento, anche tra le forze progressiste. Cambiamento di stile a parte (certamente apprezzabile, ma da dove eravamo non ci voleva molto), la manovra del nuovo governo non va affatto nella direzione necessaria; ma su questo occorrerà ritornare.