Europa, il sistema finanziario è ormai balcanizzato

di Vladimiro Giacché | da Pubblico

domino europaIn questi ultimi anni, il rapporto tra i mercati finanziari e le autorità politiche in Europa è stato piuttosto schizofrenico. I mercati sono venerati e seguiti quando si tratta di far passare misure antipopolari “per riconquistare la fiducia dei mercati”, ma vengono ignorati quando dicono verità sgradevoli. Si spiega anche così la poca attenzione che è stata prestata ai report pubblicati nelle ultime settimane da diverse banche d’affari sulla situazione del sistema finanziario europeo. Una situazione che si può riassumere con la formula coniata qualche mese fa dagli analisti di Morgan Stanley: è in atto la balcanizzazione finanziaria dell’Europa. Continua cioè quel processo di frammentazione del sistema finanziario europeo che rappresenta oggi una delle maggiori minacce per il finanziamento degli stati “periferici” (e delle loro banche e imprese), ma anche uno dei principali rischi per la tenuta della moneta unica. Si tratta di questo: il sistema finanziario dell’eurozona, che sino al 2008 era così strettamente integrato da rendere concettualmente impossibile la fine della moneta unica, si sta ridisegnando lungo linee che corrispondono grosso modo ai confini nazionali.

Questo significa in primo luogo che le banche tedesche e francesi stanno ritirandosi dai paesi della periferia, riducendo drasticamente la loro esposizione verso quei paesi. Questo processo è una delle cause principali della crisi del debito pubblico in diversi Stati europei: siccome la domanda di determinati titoli di Stato si riduce, crescono gli interessi che si devono pagare a chi li acquista. 

Il successo o meno delle politiche europee di contrasto alla crisi deve essere giudicato in base alla loro capacità di arrestare e invertire quel processo di balcanizzazione. Sinora questo non è avvenuto. Le banche tedesche, dal 2008 a oggi, hanno ridotto di 300 miliardi di euro, praticamente dimezzandola, la loro esposizione su Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Lo stesso hanno fatto le banche francesi. E questo processo continua. Neppure l’annunciato riacquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea ha sinora potuto invertire la tendenza. E questo per un motivo molto semplice: perché l’intervento effettivo della BCE è condizionato a una richiesta di aiuto degli Stati interessati, che comporterebbe ulteriori misure di austerity depressive dell’economia. E quindi anche gli Stati più in difficoltà, come la Spagna, stanno tentando disperatamente di evitare quella richiesta. 

Morgan Stanley, in una sua analisi delle prospettive per le banche europee nel 2013, resa pubblica il 20 novembre, vede particolarmente a rischio quelle spagnole e italiane. Per le quali ai problemi di finanziamento sul mercato interbancario si aggiunge anche il peso crescente dei crediti inesigibili, dovuti alla crisi e al conseguente aumento dei fallimenti di imprese. Ma siccome la severità della crisi è dovuta in gran parte proprio alle manovre di austerity che avrebbero dovuto ripristinare la fiducia dei mercati, la situazione che ne risulta è paradossale. 

Da un lato, in assenza di interventi risolutivi sul piano europeo, la balcanizzazione prosegue; e a questo proposito Morgan Stanley reputa le stesse proposte di un’unione bancaria europea “troppo deboli per conseguire lo scopo di bloccare la balcanizzazione e re-integrare il mercato bancario europeo”. Dall’altro, le condizioni delle banche peggiorano a causa degli interventi anticrisi intrapresi a livello nazionale sotto la pressione delle autorità europee. 

I dati non sono confortanti. La banca giapponese Nomura, in una ricerca del del 26 novembre, scrive che le banche italiane avranno bisogno di rafforzare il capitale per 32 miliardi di euro per far fronte alle nuove sofferenze in arrivo. Secondo Mediobanca, che ha pubblicato un suo report il 15 ottobre scorso, le cose stanno ancora peggio: i crediti dubbi già a fine 2011 erano pari all’85% del capitale delle banche italiane, e continuano ad aumentare. Conclusione: in uno scenario non pessimistico le banche italiane avranno bisogno di 70 miliardi aggiuntivi per coprire le perdite sui crediti, in uno scenario pessimistico addirittura di 140 miliardi (e in quest’ultimo caso le perdite sarebbero tali da azzerare il capitale di molte banche). 

In casi come questo, per rafforzare il capitale ci sono solo tre modi: chiedere ai soci aumenti di capitale, vendere assets (partecipazioni, sportelli, ecc.) e ridurre i crediti alle imprese. La prima via può essere dolorosa (soprattutto per il management), la seconda con i tempi che corrono può tradursi in una svendita, e quindi spesso si preferisce la strada della riduzione dei crediti alle imprese: che in effetti è chiaramente in atto. Ma questo aggrava i problemi economici italiani, in una situazione in cui – come si osserva nel report di Morgan Stanley – la caduta dell’attività economica ha già distrutto capacità produttiva in misura tale da ridurre anche la crescita potenziale (proprio ieri un’altra banca, Unicredit, ha rivisto al ribasso le sue previsioni sul 2013: -0,7%). 

Infine, Goldman Sachs in un suo report del 28 novembre fa presente un altro pericolo legato alla grave recessione che è in atto: “le economie periferiche restano molto depresse ed è molto improbabile che conseguano gli obiettivi di finanza pubblica in cui si sono impegnate, deludendo i politici dei paesi centrali” dell’eurozona. Sono parole molto significative. Non soltanto perché denunciano il fallimento delle politiche di austerity, ma perché ci ricordano chi ha in mano i cordoni della borsa in Europa. Ovviamente, tra le conseguenze di questa “delusione” vi sarà un’ulteriore frammentazione dei mercati finanziari in Europa. 

Così si chiude il cerchio: o meglio, il circolo vizioso in cui è intrappolata la nostra economia. È questo che si apprende, se oggi – al di là degli alti e bassi dello spread – si ascolta davvero quello che ci dicono i mercati.