Ecco la nemesi economica greca su banche e vascelli tedeschi

da il Foglio del 26 gennaio 2013

Cargo-shipAtene. I derivati che spaventano la Germania stanno in mare, nelle stive delle navi da carico che per anni hanno rappresentato uno dei business più proficui della “azienda Germania”. I primi dieci istituti di credito tedeschi hanno in pancia, infatti, qualcosa come 98 miliardi di euro di sofferenze verso società di shipping. Una cifra più che doppia rispetto all’esposizione ai debiti di Italia, Irlanda, Spagna e Portogallo. L’allarme dal mare è suonato da diversi mesi, fin dall’inizio della crisi economica. Moody’s la settimana scorsa ha tagliato il rating sulle obbligazioni di Hsh Nordbank, una delle banche più attive nel settore marittimo. L’istituto ha ottenuto negli ultimi anni 1,3 miliardi di garanzie pubbliche da parte del comune di Amburgo, e ha cambiato tre amministratori delegati. Quello attuale, Constantin von Oesterreich, ha detto al quotidiano tedesco Hamburger Handel-sblatt che la banca “riconosce i gravi errori compiuti prima del 2009” e cioè finanziamenti troppo allegri dati alle compagnie di spedizioni marittime in base a un boom che sembrava infinito.

Da parte sua Com-merzbank, una delle prime cinque banche tedesche, già seminazionalizzata con aiuti pubblici, ha chiuso la sua divisione marittima l’estate scorsa. A novembre Moody’s ha confermato il suo outlook negativo sul settore bancario teutonico a causa dell’esposizione al trasporto marittimo, che, motiva l’agenzia, “affronta una domanda indebolita e un’offerta strutturale di sovracapacità”. So-vracapacità è la parola chiave per capire la’ crisi che colpisce il comparto. Nel 2008 le compagnie marittime tedesche hanno ordinato 1.550 nuove navi da trasporto, ma la maggior parte di questi ordinativi è stata poi cancellata. I traffici mondiali si sono ridotti pesantemente, perché l’occidente ha tagliato i consumi (meno 7 per cento di importazioni dal nord America e meno 9 per cento dall’Asia nel 2012) e il ClarkSea Index, una specie di Dow Jones dei traffici via mare, ha perso l’80 per cento dal 2008. C’è però chi beneficia di questa situazione: sono le compagnie greche. Il gruppo ateniese Costamare ha speso 1 miliardo di dollari dal 2011 per espandere la sua flotta, e l’estate scorsa ha acquistato per solo 10 milioni di euro la nave da carico Stadt Lu-beck, da 30 mila tonnellate, da un gruppo tedesco in fallimento. I greci non hanno solo un know how millenario nel settore, che permette loro maggior flessibilità nell’apri-re e chiudere nuovi contratti e nel tagliare i costi. Hanno messo à segno negli ùltiinT anni diverse strategie per tenere a galla l’intero comparto: si sono assicurati la leadership nelle petroliere (con una quota del 25 per cento dei traffici mondiali in un business che non va mai in crisi); e Atene ha scelto di blindare questo suo core business tramite una politica economica mirata. Per esempio detassando l’industria navale, con uno scudo fiscale tombale (solo 140 milioni di euro pagati dall’intera industria navale) finalizzato a far rientrare in patria molte società che avevano spostato le sedi legali all’estero. La leva fiscale è stata utilizzata anche nei confronti della Germania: acquistando i pericolanti business tedeschi, Atene ha beneficiato infatti di operazioni tax free, perché Berlino tradizionalmente ha sempre defiscalizzato i prestiti verso le società marittime; che adesso però battono sempre più bandiera greca. La flessibilità grecajsi è vista anche su un altro scacchiere, quello cinese: Atene ha infatti cavalcato il boom recente delle materie prime, col risultato che oggi il 60 per cento delle com-modity da e verso Pechino viaggiano su navi greche. E questa relazione speciale ha visto anche l’acquisto di navi costruite in Cina e finanziate con prestiti agevolati da parte di Pechino. Il risultato è che oggi, pur nel momento di massima crisi economica, per la Grecia il settore marittimo continua a tirare, impiegando 200 mila persone e una quota del 16 per cento del pii nazionale.