E se fosse la Cina lo scudo dell’Italia

di Pasquale Cicalese per Marx21.it

cina-141015081732 big“Continuiamo a comprare partecipazioni in società italiane, ma ora siamo attenti a rimanere al di sotto della soglia del 2% in modo che non siamo obbligati a comunicarlo; deteniamo asset italiani, tra azioni e titoli di stato, pari a 100 miliardi di euro e continueremo”. Zhou Xiaochuan, Governatore Banca Centrale Cinese, Davos 22 gennaio. Fonte: Milanofinanza  on line, 22 gennaio.

Lo stesso giorno della dichiarazione del Governatore della Banca Centrale Cinese partiva l’operazione QE di Draghi che sanciva la definitiva annessione alla Germania e il commissariamento dell’Italia da parte della Trojka, con il fine ultimo tedesco di abbattere del tutto l’economia produttiva italiana, concorrente a quella tedesca, e prendersi l’oro di Bankitalia una volta che gli spread schizzeranno in alto provocando la crisi e la disgregazione dell’euro, con la probabile uscita tedesca, una volta completata la strategia di distruzione dell’Europa  iniziata con il Piano Werner del 1972.

Il lato debole di tale strategia è però la sua domanda interna e i troppi fronti imperialisti aperti per far piacere gli Usa, dai Balcani alla Russia. Le mire egemoniche e di grandezza dei tedeschi, per la terza volta, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, si scontrano con i troppi fronti aperti. E non considera che ci possono essere altri soggetti in campo. Tre anni fa la cinese Cosco acquisiva il porto ateniese del Pireo. A dicembre di quest’anno, Li Keqiang, visitando i Balcani, offriva un finanziamento per la costruzione di una ferrovia ad alta velocità Pireo-Belgrado-Budapest ed inoltre informava della volontà cinese ad investire in quest’area massicciamente offrendo sbocchi di mercato alle loro imprese. Il 24 gennaio MilanoFinanza informava che la Cina aveva aumentato l’import di petrolio russo da 36 a 50 milioni di tonnellate nel 2014. A Davos la delegazione cinese informava che con il crollo del prezzo del petrolio nel 2015 risparmieranno 100 miliardi di dollari, che saranno utilizzati nel commercio di materie prime con la Russia. Il 22 gennaio il sito del Quotidiano del Popolo dava la notizia che era stato approvato il progetto di linea ad alta velocità di 7 mila kilometri Pechino-Mosca, passando per il Kazachstan, un investimento del valore di circa 242 miliardi di dollari. Nel giro di 7 mesi tra Mosca e Pechino sono stati siglati accordi per complessivi 1400 miliardi di dollari, tra gas, petrolio, partecipazioni azionarie, armamenti e investimenti infrastrutturali. Tutto trading in rubli e yuan. La potenza eurasiatica è nata. Essa si incontrerà nei prossimi decenni con la potenza talassocratica mediterranea, di cui Grecia e Italia sono centri nevralgici, non a caso affossati dai tedeschi. Per capirlo è meglio tornare indietro. Da dove viene questa potenza finanziaria cinese? Dal 1979 al 2008 con le riforme di Deng in Cina viene attuato una fase di ”accumulazione primaria” che costringe l’immenso serbatoio della forza lavoro di quel Paese a risparmiare il 40% del proprio reddito per far fronte ad ogni evenienza, dalla sanità alla previdenza. Non solo: l’entrata nel Wto fa esplodere il surplus commerciale e le riserve valutarie, fino a 3880 miliardi di dollari.  Nel 2008, in piena crisi atlantica, avviene la svolta. Con la riforma del lavoro si passa dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, si dà diritti di cittadinanza ai migranti, si inaugura la politica di reflazione salariale, si costruisce un primo sistema di Welfare, si investe massicciamente sull’infrastrutturazione del Paese, in particolare dell’Ovest. Nel 2014 avviene un’altra svolta, la  “Nuova normalità”. Si decide di rinunciare ad una crescita inarrestabile per ammodernare la struttura economica. Nell’autunno del 2014 si decide la fusione delle principali aziende di Stato con conseguente Offerta Pubblica di Vendita e quotazioni azionarie. Da 120 passeranno a 50,  saranno tutte quotate a Shanghai con programmi di acquisizioni di imprese all’estero. Le aziende miste e quelle private vengono invitate a quotarsi, si crea la connessione con la borsa di Hong Kong  e l’apertura finanziaria. Da qui a due anni non meno di mille società cinesi verranno quotate. Questa misura, così come la concentrazione delle imprese, costituiscono controtendenze alla caduta del saggio di profitto. Giocano cioè sia sulla massa di profitto che sul saggio di profitto, il tutto indirizzato a costruire un solido mercato finanziario, in modo che l’enorme risparmio privato si indirizzi su Shanghai e non su piazze estere, magari Wall Street e le borse europee, di un caro pazzesco e con evidenti sintomi di bolla. Così come il “Go Global” lanciato tre anni fa dal governatore della banca centrale cinese è anch’esso una controtendenza primordiale. Con queste premesse la potenza finanziaria cinese, prima timidamente, poi con più forza entra nel mercato mondiale. 

E veniamo a noi. 23 gennaio: lo yuan, senza che nessun media italiano lo dica, raggiunge il record storico sull’euro a 6,98, da 11,5 che era 4 anni fa. Una rivalutazione monetaria pari al 42%. I cinesi non si preoccupano e fanno sapere che l’aumento della domanda estera europea, conseguente alla caduta sul dollaro, fa aumentare l’export cinese nell’eurozona visto che molte imprese cinesi sono legate a rapporti di fornitura con le imprese europee. Non dicono altro. Ma chi vuole intendere, intenda. Tradotto: fate pure, è l’ora del Go Global in Europa. La dichiarazione del governatore della banca centrale cinese Zhou Xiachouan è come se fosse una chiamata alle armi al sistema industriale e finanziario cinese. Solo nel 2014, quando l’euro era sul dollaro a 1,38, la People’s Bank of China acquisiva partecipazioni superiori al 2%, tale per cui è obbligata a comunicarla alla Consob, in Telecom, Fiat, Saipem, Eni, Enel, Generali, Mediobanca e Prysmian. Il valore delle azioni è pari a 6,5 miliardi di euro. Ipotizzando acquisti di obbligazioni private pari a 10 miliardi di euro, il valore dei titoli di stato italiani detenuti dalla sola banca centrale cinese è pari a più di 80 miliardi di euro. Dal Bollettino Economico di Bankitalia di questo mese, sappiamo che il totale del debito pubblico italiano detenuto da operatori esteri è circa 680 miliardi di euro. I cinesi, come si dice dalle mie parti, “su comu ‘na pigna”, si muovono cioè all’unisono. Quindi, considerando anche i colossi bancari pubblici, le assicurazioni e il fondo sovrano cinese, è probabile che circa il 20% del debito pubblico italiano detenuto da operatori esteri sia in mano della Cina. Folli? Intanto ci sono da fare alcune considerazioni. I tedeschi, per innescare la crisi del debito sovrano italiano, hanno smobilizzato titoli del nostro paese nel 2011 pari a circa 110 miliardi di euro. I cinesi, al contrario, in questo stesso periodo acquisivano, diventando attori pieni della stabilizzazione dei debito pubblico italiano e contribuendo a far scendere lo spread. Mentre altri provocavano la crisi, e sarebbero i nostri “fratelli europei”, per la qual cosa abbiamo fatto prima l’Ue e poi l’Unione Monetaria, i cinesi contribuivano a non renderla definitivamente tragica. Hanno cioè mantenuto la solvibilità del debito  pubblico italiano e continueranno a farlo nei prossimi anni, viste le dichiarazioni di Zhou Xiaochuan a Davos. Ma questo i media italiani non lo dicono, dando un’immagine della Cina come minaccia e non come, realmente avvenuto, un partner affidabile, salvo cambiare idea quando i governanti italiani si precipitano a Pechino chiedendo aiuto. Il 2015 potrebbe significare la svolta cinese in Italia: dai toni allarmati dei media italiani si ricava che tanti investitori, pubblici e privati, bancari e industriali, viaggiano nella rotta Pechino-Malpensa ad acquisire aziende, partecipazioni e quote azionarie di aziende italiane o direttamente ad investire in Italia. Non diranno mai, al momento, lo scopo, si rivelano dopo tanti anni, ma per capirlo è il caso di ritornare a quanto detto prima: la potenza eurasiatica si incontra con la potenza talassocratica mediterranea, lungo la Via della Seta marittima, annunciata ad ottobre del 2014 da Xi Jinping, e l’Italia è il terminale di questo percorso, assieme alla Grecia. Un solo dato: il 16 gennaio Milano Finanza informava che attualmente il percorso marittimo Asia-Europa coinvolge 14,5 milioni di teu (contenitori) contro 6,2 milioni del percorso inverso. Ma si calcola che nel giro di soli 5 anni il percorso Europa-Asia passerà da 6,2 a 15 milioni di teu, raddoppia cioè. E cosa raddoppia, allora? L’export europeo verso l’Asia. I tedeschi si vogliono prendere l’intera torta distruggendo definitivamente l’apparato produttivo italiano, con la benedizione dei governanti di Roma e del loro sodale a Francoforte, Mario Draghi, veri e propri collaborazionisti dell’imperialismo tedesco e della sua logica di sterminio. Ma, ripeto, i fronti aperti dai tedeschi, sono ormai troppi. La chiave di volta sarà, se succederà, il raffreddamento dei rapporti tra Pechino e Berlino. E succederà solo quando la dirigenza cinese capirà che i tedeschi sono l’avamposto degli americani in Europa e nell’Eurasia. Il fronte ucraino è probabile che stia facendo aprire gli occhi. La volontà di Zhou Xiaochuan  di continuare ad investire in Italia vuole dire che nella partita entra un terzo soggetto, dopo americani e tedeschi. Si farà vivo solo con lo scoppio dell’asset inflation a Wall Street. Non ci vuole tantissimo tempo. E, comunque, loro decidono per i decenni futuri, mica per il prossimo meeting dell’Eurogruppo o per la convention della Leopolda. Continuiamo, dunque, a leggere fango sulla Repubblica Popolare dagli stessi che incensano il banchiere che sta a Francoforte. Assorbiamoci l’elogio del Job Act e della deflazione competitiva nel mentre perdiamo sempre più capacità produttiva e non si fanno investimenti da decenni, contando magari che i cinesi producano sempre le stesse cose di trent’anni fa. Sognano. Nel frattempo osserviamo le mosse degli altri, di chi investe veramente  e che ti fanno capire che in Europa c’è una guerra di capitali e l’Italia, grazie ai nostri collaborazionisti, l’ha persa, ma che purtuttavia questo è un posto strategico. Il volo Pechino-Malpensa ti induce comunque a pensare che una resistenza sia possibile. E magari ad esso si aggiungerà, chissà quando, il volo Mosca-Roma, sempre che da quelle parti inizino a costruire un solido apparato industriale, distrutto nel decennio infame novanta. Pare che l’abbiano capito, per questo gli fanno la guerra.