Dieci considerazioni sulla crisi economica

di Gordon M. Poole per Marx21.it

crisi economica grungePremessa

In un lungo articolo, Crisi finanziaria o… di sovrapproduzione? (link), Paulo Nakatani e Remy Herrera fanno una analisi delle cause dello scoppio della bolla finanziaria e dei tentativi degli economisti, anche quelli “di sinistra”, di risolverla con palliativi. Individuano precisamente i passi marxiani sulla finanziarizzazione delle crisi capitalistiche e sul perché alla lunga essa non può salvare il sistema. Un passo perlomeno voglio citare:

Immanuel Wallerstein, che studia le tendenze a lungo termine del capitalismo da una teoria del ‘sistema-mondo’, ha recentemente dichiarato: «Penso che abbiamo ottenuto in 30 anni la fase terminale del sistema capitalista. La situazione è diventata caotica e incontrollabile per le forze che hanno dominato fino ad oggi, e si costituirà una lotta, non tra i sostenitori e gli oppositori del sistema, ma tra tutti gli attori nel determinare cosa lo sostituirà. Mi riservo l’uso della parola “crisi” di tale periodo. Bene, siamo in crisi. Il capitalismo sta volgendo al termine». E aggiunge altrove: «Possiamo essere sicuri che tra 30 anni, non vivremo più nel sistema-mondo capitalistico». Queste interpretazioni sono coerenti con quelle di alcuni analisti nell’economia globale del capitalismo, tra cui il team del Global Europe Anticipation Bulletin (GEAB – LEAP), le cui previsioni sull’evoluzione della crisi sono sempre più pessimiste.


Interessante anche il libro Why Marx was Right dell’intellettuale Terry Eagleton (Yale University Press, New Haven, 2011).

Dieci considerazioni

In una crisi come l’attuale, che sembra non conoscere frontiere, fatta di immiserimento, perdita dei beni immobiliari, disoccupazione, mala sanità, abbassamento dell’aspettativa di vita, depressione psicologica, suicidi di senza lavoro, veterani traumatizzati, detenuti, ragazzi con poche prospettive, stragi, guerre sia “umanitarie” che “civili”, per non parlare di preoccupanti alterazioni climatiche, tifoni, siccità, inondazioni, tsunami, terremoti, epidemie, forse non sorprende che i fondamentalisti religiosi, compresi i nostri di Radio Maria, adottino toni apocalittici, invitando tutti alla preghiera, mentre i politici con responsabilità di governo facciano timide previsioni di un miglioramento economico sempre più posposto nel futuro, e mentre quello che rimane della Sinistra, una volta così sicura delle sorti rosee di una futura umanità, cerchi senza successo di escogitare un programma propositivo anche minimale.

Propedeutica a qualsiasi tentativo di affrontare l’argomento, c’è la necessità di rispondere a una domanda fondamentale, semplice da formularsi: è forse impossibile, per ragioni scientificamente dimostrabili, che tutti gli esseri umani sul pianeta abbiano il necessario per vivere bene? Se lo è, allora bisogna rassegnarsi alla prospettiva apocalittica di una lotta intestina per decidere chi saranno i fortunati. 

Se questa possibilità esiste, il problema è quello di trovare un sistema di gestione delle risorse e della produzione e distribuzione dei beni che garantisca il benessere di tutti. Il discorso che svolgo parte dall’assunto che non siamo sul Titanic con un’insufficienza di posti nelle lance da salvataggio. Quello che sembra ormai assordato, tuttavia, è che la salvezza dell’umanità non è un compito che si possa chiedere al capitalismo. Infatti la soddisfazione dei beni umani non fu mai il fine di quel sistema ma sempre e soltanto un mezzo per il raggiungimento del proprio fine, cioè il profitto.

Per discutere sul che fare nella situazione politica attuale – difendere il difendibile? lottare per ottenere dei miglioramenti? fare la rivoluzione? – bisognerebbe disporre di un modello sociologico aggiornato che ci restituisse un’immagine del mondo che sia completa delle dinamiche che ne indirizzano la evoluzione. Capire la situazione politica in cui ci troviamo richiederebbe un’analisi ponderata dell’attuale crisi economica in tutta la sua portata globale, senza la quale ogni tentativo di decidere sul da farsi è condannato a priori all’insuccesso. Infatti, il senso di impotenza pratica, che si ha – credo – in tutte le sinistre nazionali, è innanzitutto un’impotenza teorica che dipende appunto da un difetto di comprensione dell’attuale realtà del capitalismo mondializzato. Per agire localmente bisogna pensare globalmente. La mondializzazione economica non si configura soltanto come un movimento di allargamento: già diciannove anni fa scrivemmo che ormai “i problemi locali, perfino quelli del singolo, possono essere posti soltanto tenendo conto dei macro-processi. C’è una penetrazione in verticale, oltre che in orizzontale, delle spinte economiche e politiche cui non sfugge quasi nessun angolo del pianeta” (Mondializziamo la resistenza. Dossier per conoscere il G7, a c. di G. Poole, Il Cerchio dei popoli, 1994). Senza disconoscere la importanza di altri apporti teorici, anche i più disparati, crediamo che una riflessione analitica sull’attuale crisi richieda una attenta rilettura del Capitale e di altri testi di Marx – lettura mondata di alcune incrostazioni del “marxismo reale”, p. es. socialdemocratiche e staliniste, dovute alla percepita opportunità di coniugare frettolosamente il marxismo di Marx con esigenze politiche contingenti. Le dieci considerazioni che seguono sono formulate, per stringatezza, con un tono troppo perentorio di cui ci scusiamo in partenza e che comunque non rispecchia la situazione intellettuale di chi scrive. Definiscono semplicemente a che punto sono arrivato nel mio sforzo di capire l’attualità. Più che “considerazioni” si tratta di dubbi, o comunque di domande, di punti che si propongono alla discussione. Mai come in questo momento mi sento privo di sicurezze politiche e bisognoso del confronto con altri.

1. L’attuale crisi economica mondiale non riguarda principalmente la finanza (le bolle finanziarie), che è soltanto il suo aspetto più visibile, ma ha la sua origine nella produzione capitalista, cioè nei luoghi di lavoro dove si produce il plusvalore. Su questo punto sono utili certe analisi di Marx (futurologo, non profeta) – analisi sincroniche ricche di implicazioni diacroniche.

2. La polarizzazione della società, con una stretta minoranza di ricchi da una parte e una massa crescente di poveri e di miseri dall’altra, e con una classe media le cui frangi inferiori cadono progressivamente nella povertà, è il risultato di una crisi sistemica del capitalismo, le cui cause furono teorizzate già nell’Ottocento da Marx. 

3. Il capitalismo, per ragioni strutturali interne, che mi sembra di poter definire marxianamente come un’inevitabile spinta alla sovrapproduzione, è un sistema di organizzazione economica che va a esaurirsi. La produzione di plusvalore, che è il motore propulsivo del sistema capitalista, richiede che il prodotto in più sia consumato (nel senso di comprato), altrimenti, secondo Marx non è propriamente un prodotto, perché il prodotto diviene prodotto soltanto se il suo potenziale valore economico viene realizzato all’atto dell’acquisto, cioè se diviene merce. Ma i consumatori ormai sono sempre meno e sono già insufficienti per assorbire il plusvalore delle economie capitaliste. 

4. Oltre al limite economico all’espansione capitalista, per quanto sostenuta da oltre 900 basi militari Usa, ben equipaggiate, sparse per il pianeta con geopolitica precisione e anche negli spazi sovrastanti, c’è un altro limite, quello ecologico, individuato da Engels e Marx ma poco sviluppato dal marxismo. In sostanza, secondo una parte ormai preponderante degli scienziati che si occupano del futuro del pianeta, si sta arrivando anche ecologicamente a capolinea, a meno di non trasformare radicalmente il rapporto uomo-natura.

5. Le politiche repressive d’austerità attualmente imposte dai governi italiano e di altri paesi colpiscono i lavoratori e in genere le classi basse e le categorie deboli (disoccupati, donne, giovani, studenti, disabili, malati, pensionati, detenuti), mentre si elargiscono contributi di salvataggio e agevolazioni fiscali alle banche e alle grandi imprese. Da una parte si attuano vigorose politiche sacrificali di riduzione del costo del lavoro, tagliando i salari e gli stipendi dei lavoratori o licenziandoli, dall’altra si cerca di incrementare i consumi della produzione, la quale è ormai in eccesso rispetto alle possibilità dei mercati di assorbirla – mercati costituiti dagli stessi lavoratori e da altri cittadini sempre meno capaci di consumare.

6. La disoccupazione giovanile in Italia è oltre il 50%, con cifre analoghe nel resto dell’Occidente. Non è pensabile che una situazione simile si regga alla lunga senza provocare “proteste estreme”, come già vengono qualificate con toni ansiosi da esponenti governativi, preoccupati per l’ordine pubblico più che per le condizioni sociali delle masse. Tali preoccupazioni, tra l’altro non infondate, determinano misure di erosione sistematica dei diritti civili e di riduzione dei reali spazi di democrazia non solo in Italia ma generalmente in tutti i paesi di capitalismo avanzato, a partire dagli Stati Uniti.

7. Per affrontare tali “proteste estreme” gli stati dispongono di vari mezzi repressivi. Oltre agli eserciti e alle altre forze dell’ordine, comprese le Guardie nazionali, ci sono i moltissimi corpi di guardie private, come quelle in servizio davanti alle banche, negli aeroporti e nei grandi magazzini e in altri esercizi pubblici, come in alcune penitenziarie statunitensi dove prendono il posto della polizia di stato. Oltre a queste forze, ci sono altre potenzialmente disponibili per i lavori “sporchi”, come le “forze speciali” o i contractor di alcuni paesi, alle quali si aggiungono gruppi “informali”, come le “milizie” negli Stati Uniti, i neo-fascisti e neo-nazisti e i gruppi di criminalità organizzata.

8. Il capitalismo quindi si organizza a livello mondiale, mentre il proletariato (inteso marxianamente come la classe dei salariati), avendo smarrito il senso delle dimensioni della crisi, ha smarrito anche l’idea dell’importanza di quello che un tempo si chiamava internazionalismo proletario e che ora andrebbe concepito come mondializzazione proletaria.

9. Si va verso uno scontro di dimensioni mondiali, del quale si sono già visti i prodromi in alcuni paesi, che potrebbe verificarsi secondo vari scenari, chiaramente difficilmente prevedibili nello specifico. Potrebbero continuare a scoppiare movimenti e insurrezioni in singoli paesi, con più o meno successo. Oppure si potrebbe immaginare un salto di qualità organizzativa proletaria a livello mondiale, per cui l’opposizione al capitalismo mondializzato si manifesterebbe anch’essa mondializzata. Chiaramente internet è uno strumento importante in questi scenari, come già si è visto in Grecia e nel Medio Oriente.

10. Lo scontro verso il quale si va non ha nessuno esito predefinito, come invece qualche lettura deterministica del marxismo, non di Marx, vorrebbe. Anzi, Marx racconta come, nel nord d’Italia, fra il ‘200-‘300, si sviluppò un proto-capitalismo che era capitalista a tutti gli effetti, tranne per il fatto di essersi sviluppato su un territorio troppo limitato, insufficiente per avere una forza militare tale da proteggere i propri investimenti e soprattutto i propri prestiti. Così, quando l’Inghilterra non pagò i propri debiti verso le banche italiane, queste ultime fallirono a partire dal 1339, e le città-stato capitaliste si ri-feudalizzarono in “signorie” e poi in “principati”. Oltre a Marx (e Gramsci), anche il buon senso ci fa capire che il proletariato, come la borghesia nord-italiana nel ‘300, potrebbe non essere pronto per il proprio appuntamento con la storia. “Socialismo o barbarie” non è soltanto uno slogan, per quanto incoraggiante e incitante, ma anche un monito.