di Bruno Steri, Direzione nazionale PRC, Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista
Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Gli ambienti più reazionari dell’Occidente capitalistico non hanno mancato di levare alte grida di protesta nei confronti della recente svalutazione dello yuan, senz’altro additata come una mossa scorretta: una “svalutazione competitiva” tendente a sostenere il valore delle merci cinesi sul mercato mondiale. Di contro, gli osservatori più attenti hanno rilevato che essa risponde all’intento di assicurare un margine di fluttuazione più aderente alle dinamiche del mercato, nel quadro di una maggiore internazionalizzazione della valuta cinese, così come richiesto peraltro dal Fondo monetario internazionale. Alcuni – tra essi i comunisti -hanno poi compiutamente ripristinato la verità dei fatti, ricordando che per la Cina il tasso di cambio è cresciuto del 45% negli ultimi dieci anni mentre il suo pur considerevole saldo commerciale è sceso dal 6% del Pil nel 2005 al 2% nel 2014.
Non è la Cina ad aver spinto sull’acceleratore del neomercantilismo (non è così, signora Merkel?), essendo il gruppo dirigente cinese consapevole del fatto che un’economia basata sull’export è intimamente fragile, come ha recentemente rilevato Alberto Bagnai: l’export dell’uno è infatti l’import di qualcun altro e chi esporta i propri beni è destinato a importare i problemi di chi importa, come sta accadendo ad esempio nello sbilanciato involvere dell’Unione Europea. Nel merito, non è vero – come molti pensano – che lo sviluppo cinese sia meramente trainato dalle esportazioni: una ricerca del 2012 di A. Rothman e J. Zhu, opportunamente citata da Vladimiro Giacchè, conferma che “la Cina è un’economia continentale trainata dagli investimenti domestici e dal consumo interno” e che “ la stragrande maggioranza dei beni prodotti in Cina resta in Cina”.
La “guerra delle valute” c’è stata, ma è stata generata dagli insanabili problemi suscitati dalla crisi capitalistica globale, precipitata a partire dal 2007 a coronamento di trent’anni di stentata crescita e stagnazione del modo di produzione vigente. Negli ultimi decenni dello scorso secolo – per rispondere ad una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla caduta tendenziale del saggio di profitto – l’Occidente capitalistico ha infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile” ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”) non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui, nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva: “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della società”.
Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente, per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione “keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro” (disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino, senza che – con ciò – si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto al dramma della disoccupazione.
Sul secondo fronte, le politiche monetarie espansive non hanno ottenuto l’esito auspicato, cioè una ripresa del credito e nuovo ossigeno per l’economia reale. Per un motivo assai semplice: a differenza della Cina, qui il sistema finanziario e bancario è nelle mani di privati e, dunque, certamente interessato al miglioramento della propria patrimonializzazione ma insofferente (o indifferente) nei confronti di strategie di lungo respiro e di richieste orientate al bene pubblico. Più indietro nel tempo, non mancano ulteriori clamorose conferme di un tale esito fallimentare: l’opzione espansiva adottata da Banche centrali e governi non ha risparmiato al Giappone, dal 1989 in poi, una cronica depressione e prima ancora agli Stati Uniti, precisamente all’indomani del 1929, una fortissima depressione – nonostante il New Deal – risoltasi solo attraverso la “distruzione creatrice” della Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, sul piano globale, le politiche monetarie espansive attuate da Usa, Ue e Giappone hanno fortemente penalizzato il resto del mondo, in particolare i Paesi emergenti, Cina su tutti: il deprezzamento di una valuta di riferimento internazionale quale è il dollaro pesa negativamente su quanti sono costretti a utilizzare dollari per gli scambi commerciali e su chi vede diminuire il tasso d’interesse dei titoli di Stato statunitensi posseduti nel proprio portafoglio. Non è un caso, dunque, che proprio la Cina abbia attivato accordi commerciali bilaterali sulla base dell’uso dello yuan e, più in generale, abbia posto il tema di un superamento dell’attuale ordine monetario basato sulla valuta statunitense.
All’opposto di quanto fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il 2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1 gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro. In proposito, annotiamo che a storcere il naso per le misure migliorative delle condizioni di lavoro varate dal governo cinese, sono state proprio le Camere di Commercio dei Paesi dell’Occidente. A marzo 2012, a ridosso dell’arrivo in Cina di una delegazione congiunta Pcdi-Prc, abbiamo letto sul Business China Daily che a preoccupare i businessmen statunitensi operanti in Cina sono “i costi operativi crescenti” e che, per il 40% degli intervistati, a mettere sotto pressione i margini di profitto delle loro aziende sono “l’inflazione salariale e le nuove misure per la sicurezza sociale”. In definitiva, il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Come detto, sul piano globale, la Cina ha cominciato a mettere in questione l’Ordine economico a egemonia Usa: consolidamento dei legami con i Brics e le periferie del mondo, proposta di un sistema finanziario alternativo a quello dominato da Fmi e Bm, dedollarizzazione degli scambi commerciali. Una sfida egemonica che il gruppo dirigente cinese conduce provando a sventare la cosiddetta “trappola di Tucidide”, il grande storico della Grecia antica secondo cui, quando una potenza globale vede insidiato il suo primato da nuovi competitors, in genere risponde con la guerra. Ma i popoli desiderano la pace.