di Vladimiro Giacché
Pubblichiamo in anteprima, con l’autorizzazione dell’autore, il contributo di Vladimiro Giacché, Vice Presidente dell’Associazione Marx XXI, che uscirà nel prossimo numero della rivista “Essere comunisti”
1. La crisi attuale non è altra cosa rispetto a quella iniziata nel 2007-2008. La crisi è la stessa: semplicemente, non ne siamo mai usciti. Il modello che allora è andato in frantumi, quello della crescita a debito, dell’espansione economica drogata dal credito e dalla finanza, è ancora in pezzi. In questi anni si è tentato di farlo ripartire, ma inutilmente. Per capire la fase della crisi che stiamo vivendo oggi, è necessario ricapitolarne le tappe precedenti.
2. La violenza della crisi manifestatasi a partire dal 2007 nasce dalla profondità delle sue radici. Essa infatti
– nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni), ma
– nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.
– nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971 non è legata ad alcun sottostante).
3. La crisi scoppia a causa del collasso del modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni.
4. Viene alla luce un “sistema bancario ombra”, che consentiva di occultare una leva finanziaria elevatissima (rapporto debiti/mezzi propri pari o superiore a 30). In tal modo le perdite maturate in alcuni settori (mutui subprime e obbligazioni basate su di essi) si estendono a macchia d’olio agli altri, nel momento in cui le banche e le società finanziarie coinvolte sono costrette a vendere in perdita gli assets finanziati a leva. Il sistema finanziario è sconvolto dalla crisi e ne amplifica gli effetti. Quando nel settembre 2008 la banca d’investimento Lehman Brothers fallisce, la circolazione del capitale sembra per qualche tempo interrompersi su scala mondiale, si verificano corse agli sportelli e fenomeni di tesaurizzazione. Crollano produzione e commercio internazionale.
5. Le banche e molte imprese private vengono salvate con enormi iniezioni di denaro pubblico, tra ricapitalizzazioni, acquisto di titoli non negoziabili e garanzie prestate: Bank of England nel marzo 2009 ha stimato l’entità di questi interventi in qualcosa come 14.000 miliardi di dollari. In questo modo i debiti vengono trasferiti sui bilanci pubblici.
6. La seconda fase della crisi investe quindi il debito pubblico. Era prevedibile. Come scrissi nell’estate 2009, “la gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un’ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato… sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private… Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco” (introd. a K. Marx, Il capitalismo e la crisi, DeriveApprodi, 2009, rist. 2010, pp. 49-50).
7. Se la crisi del debito privato era nata negli Stati Uniti, la crisi del debito pubblico scoppia dapprima in Europa. Anche in questo caso, la causa immediata, deficit e debito pubblico fuori controllo in Grecia, affonda le sue radici in un processo ben più profondo: la divergenza tra le economie della zona euro.
8. Questa divergenza tra le economie ha due aspetti. Entrambi sono legati all’introduzione dell’euro:
– la fine dei rischi legati al tasso di cambio ha fatto esplodere i rischi legati al debito sovrano di alcuni Paesi;
– la convergenza dei tassi ha accentuato la divergenza delle politiche fiscali e delle economie.
In nessuno dei due casi il rapporto di causa/effetto è immediato. In entrambi può pero’ essere stabilito senz’ombra di dubbio. Vediamo i passaggi nei due casi.
9. Un effetto fondamentale della moneta unica europea è stato l’eliminazione dei rischi legati al tasso di cambio tra le diverse monete europee preesistenti (e – ma in fondo si tratta di un altro modo per dire la stessa cosa – l’eliminazione della possibilità di svalutazioni competitive). Questo ha tra l’altro accentuato la specializzazione produttiva dei diversi Paesi in linea con i rispettivi vantaggi comparati:
– industria manifatturiera in Germania
– servizi domestici (cioè non rivolti all’esportazione) in altri paesi europei (ad es. edilizia, commercio al dettaglio, trasporti, lusso, servizi finanziari).
Si è per conseguenza prodotto un accentuato processo di deindustrializzazione in diversi paesi europei, e un allargamento del deficit della bilancia commerciale in questi paesi.
10. La moneta unica ha inoltre reso omogenei i tassi d’interesse dell’eurozona, livellandoli verso il basso, cioè verso i livelli della Germania. Questo ha consentito di ridurre in misura notevole il servizio del debito sul debito pubblico di numerosi paesi europei. Ma al tempo stesso ha rappresentato una politica monetaria eccessivamente espansiva per i paesi del Sud Europa, che ha portato ad un elevato indebitamento privato e al prodursi di bolle immobiliari.
11. La crisi che nel 2008 si è estesa all’Europa ha evidenziato l’insostenibilità del deficit della bilancia commerciale e ha provocato un crollo dell’attività in questi paesi, e quindi una crisi fiscale: di qui anche la crisi del debito sovrano. In ultima analisi l’aumento dei rischi sovrani in Europa può quindi essere considerato una conseguenza della fine del rischio del tasso di cambio.
12. Da tutto questo emerge con chiarezza che quella che si presenta come una crisi del debito pubblico non è soltanto né principalmente questo: è una crisi di crescita e di competitività (di spiazzamento competitivo). La crisi fiscale è una derivata necessaria di questa crisi.
13. Quello che stiamo vivendo oggi è il tentativo di risolvere la crisi fiscale dello Stato attraverso la distruzione su larga scala dei sistemi di welfare. Con l’intento di conseguire due risultati:
– scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti, riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui;
– aprire al capitale (o, come si preferisce dire, al “mercato”) nuovi ambiti di valorizzazione. Di fatto, si tratta della prosecuzione e radicalizzazione della tendenza a sussumere sotto il capitale l’intero ambito della vita associata.
14. Ma c’è un ma. Questo processo sta aggravando la crisi della domanda interna che affligge i principali paesi capitalistici. Per quanto riguarda in particolare l’Europa, la crisi della domanda interna – essendo il mercato europeo fortemente integrato – diventa immediatamente crisi dell’export. Per quanto riguarda più specificamente i paesi coinvolti dalla crisi del debito sovrano, le manovre economiche imposte da BCE e Unione Europea stanno conducendoli a una depressione economica che aumenta la divergenza rispetto ai paesi del “gruppo di testa” dell’Unione, rendendo di fatto sempre più insostenibile l’esistenza stessa di una moneta comune e sempre più probabile il default di questi paesi.
15. Se la depressione economica in Grecia e altrove ha già impresso una forte accelerazione ai fallimenti e alle insolvenze delle imprese private non finanziarie, più in generale il peggioramento del servizio del debito di questi paesi (causato anche dalla speculazione che ha sfruttato le indecisioni e gli errori gravissimi delle politiche europee) sta già rendendo insostenibile il peso del debito pubblico e assestando un colpo formidabile alla stabilità stessa di un sistema bancario e finanziario europeo già traballante: in molti casi infatti la necessità di svalutare i titoli di Stato causerà la perdita dei requisiti patrimoniali minimi per le banche che li hanno in portafoglio.
16. Noi oggi siamo qui. La strada che l’establishment europeo ha imboccato per uscire dalla crisi non fa che aggravarla, rendendo ancora più ingente la distruzione di capitale necessaria per far ripartire l’accumulazione. Entro certi limiti, questa distruzione potrebbe essere circoscritta ai paesi del Sud Europa e per questa via accentuare ulteriormente la specializzazione produttiva già propiziata dall’introduzione dell’euro, dando così vita a due Europe: un’area continentale manifatturiera con tassi di sviluppo elevati e un Mezzogiorno d’Europa condannato a scivolare sempre più indietro nella divisione internazionale del lavoro.
17. Ma l’ipotesi di una distruzione controllata di capacità produttiva non è lo scenario più probabile. Infatti, non soltanto è implausibile che in una regione economica così interconnessa come l’eurozona il crollo della domanda interna dei paesi in crisi non si ripercuota pesantemente sui paesi esportatori (Germania in primis: e infatti a inizio ottobre Goldman Sachs ha previsto una recessione tedesca dovuta proprio a questo motivo). Ma c’è di più: sul piano valutario, se i procesi oggi in corso non saranno interrotti, l’eventualità più probabile è una serie di detonazioni a catena che condurrebbero alla fine dell’euro e della stessa Unione Europea.
18. La partita che si gioca sul e nel nostro paese è inserita in questo contesto. Se prevarranno i pasdaran del pareggio di bilancio e della riduzione del debito a ogni costo, che hanno nella Bce il loro principale punto di riferimento e nelle sue ricette neoliberiste e reazionarie (pedissequamente eseguite dal governo Berlusconi) il più clamoroso esempio recente, il destino dell’economia italiana è segnato: nessuna crescita sarà possibile e quindi – precisamente per questo – il default sarà garantito. È stata l’insospettabile società di rating Standard & Poor’s a condannare la recente manovra governativa proprio per le sue conseguenze depressive e per l’ipoteca che le politiche di austerity pongono sulla crescita futura (altro che l’“austerità espansiva” favoleggiata da Giavazzi, Alesina e Perotti!). Lo stesso declassamento del debito italiano da parte di Moody’s mette l’accento sulle dubbie prospettive di crescita economica dell’Italia.
19. L’alternativa, però, non può essere rappresentata dalla parola d’ordine del ripudio del debito che qualcuno agita a sinistra. E non può esserlo per diversi motivi: a) Perché il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dalla popolazione italiana e in particolare da lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a vedere proprio nei titoli di Stato il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi: in altre parole non si può, per il solo fatto che lo si desidera, dare al concetto di default selettivo (che significa semplicemente “non pagamento di alcune emissioni di debito e non di altre”) un significato diverso e più gradito (onorare il debito rispetto ad alcune classi di creditori e non ad altre); b) Perché ogni default costringe a un avanzo primario che non ha nulla da invidiare a quello richiesto dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio, e questo per il semplice motivo che dopo di esso i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare il deficit italiano per diversi anni; c) Perché un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione, tra i cui effetti più immediati ci sarebbe una notevole deflazione salariale, nella forma di un crollo del potere d’acquisto dei lavoratori.
20. La risposta deve essere un’altra: introdurre nelle dinamiche europee e italiane un vincolo che non ha ancora fatto la sua comparsa in questa crisi. Il vincolo rappresentato dall’indisponibilità delle masse popolari – in Italia e in Europa – a pagare loro il debito e dall’imposizione di politiche radicalmente diverse. Queste politiche in Italia significano:
– fare pagare il debito agli evasori e alle persone (fisiche e giuridiche) titolari di grandi patrimoni;
– disboscare la giungla delle agevolazioni alle imprese (che costano 30 miliardi all’anno) indirizzando parte del ricavato per poche agevolazioni utili (incentivi alla concentrazione industriale e alla ricerca e sviluppo tecnologico);
– utilizzare le grandi risorse così disponibili non soltanto a ripianamento del debito, ma per alleggerire la fiscalità sui ceti più poveri e per rilanciare il welfare e grandi investimenti in formazione, ricerca e nelle infrastrutture utili;
– restituire dignità e centralità al settore pubblico dell’economia, attribuendo ad esso un ruolo di orientamento e di indirizzo degli stessi investimenti privati sino ad introdurre elementi di pianificazione economica.
Si tratta di obiettivi difficili da conquistare, ma essenzialmente per motivi legati agli attuali rapporti di forza sul piano sociale, politico e ideologico, non certo per la loro impraticabilità sul piano tecnico. Il loro impatto sulla crescita di medio termine sarebbe di tutt’altro segno rispetto alle manovre e manovrine inique e depressive di questi mesi. Niente di strano: se questa crisi una cosa dovrebbe avere insegnato, è il cul de sac in cui oggi l’anarchia della produzione e un mercato autoreferenziale e privo di contrappesi pubblici hanno gettato l’Occidente capitalistico. È venuto il momento di voltare pagina e di invertire di segno le politiche classiste di questi anni. Non resta più molto tempo per farlo, se si vuole evitare che la crisi si avviti in una spirale catastrofica.