Donbass, strage utile agli Usa

di Fabio Mini

da il fatto quotidiano 12 giugno 2022

Mentre le truppe russe avanzano lentamente verso il Dnepr e quelle ucraine arretrano, si fa sempre maggiore il rischio che una grande massa delle forze armate ucraine rimangano intrappolate e siano costrette alla resa. In una guerra di questo tipo, convenzionale e per certi versi “arcaica”, il rischio è reale e forse è anche lo scopo tattico che si sono prefissati i russi. L’immissione in combattimento di vecchi carri armati, l’avvicendamento dei reparti combattenti, le predisposizioni logistiche in vista di un allungamento del braccio dei rifornimenti, la limitazione del sostegno aereo e l’impiego degli esuberi di munizionamento della Marina, indicano che la Russia sta consumando tutto il ciarpame della Guerra fredda e si sta riarmando per uno scontro più moderno e tecnologico e soprattutto più strategico che tattico. Quando e se affluiranno gli armamenti pesanti e i missili promessi dall’occidente, potrebbe essere il momento per il salto di qualità. Da parte sua, lo Stato Maggiore ucraino ha già emanato gli ordini di arretramento e di irrigidimento sulla sponda occidentale del Dnepr. Molte unità logistiche e le artiglierie a lunga gittata sono già oltre il fiume.

Le armi che Zelensky ancora chiede con insistenza serviranno esclusivamente a battere le città del Donbass e decimare ulteriormente quelli che ritiene siano propri cittadini. Le unità di combattimento più a contatto con i russi resistono nelle città e in corrispondenza di ogni ostacolo possibile, come i vari fiumi del bacino del Donbass. È una resistenza quasi drammatica, ma scarsamente eroica.

Le unità territoriali ucraine hanno già fatto saltare alcuni ponti sul Dnepr, nell’intento di impedire la ritirata o la fuga delle proprie truppe. È un provvedimento antico che in Cina aveva due versioni: togliere le scale agli assalitori e rompere i calderoni delle cucine da campo. Nella prima, gli ultimi delle truppe che scalavano le mura delle fortezze per arrivare agli spalti (in genere ufficiali o sergenti – serragente) erano incaricati di gettare le scale sulle quali erano saliti: dovevano uscire dal portone principale o morire.

Nella seconda, prima della battaglia decisiva, il comandante ordinava di rompere tutte le pentole: se vincevano avrebbero utilizzato quelle dell’avversario, se perdevano non ne avrebbero avuto più bisogno, dovevano morire. I soldati non erano eroi, ma semplici vittime senza alternative; non combattevano per vincere, ma per non morire. La resa non era contemplata e sopravvivere alla strage dei compagni era perfino una colpa.

La guerra moderna, con il suo bagaglio di leggi e norme etiche, prevede la cattura dell’avversario e la garanzia che non venga sottoposto a trattamenti disumani. I generali inglesi catturati dagli italiani in Libia sono stati ospitati in comode dimore e trattati perfino signorilmente. Quelli nostri catturati dagli inglesi hanno avuto un trattamento leggermente peggiore, ma non umiliante. In Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno anche la possibilità di resa, ma nessuna garanzia di sopravvivenza. I russi cercano di separare i combattenti regolari da quelli irregolari, le truppe dell’esercito dalle milizie, dai mercenari e dai tagliagole. Ai primi viene assicurata la protezione di guerra, agli altri la resa rischia di essere peggiore della morte. Gli ucraini tentano di risolvere il problema non facendo prigionieri, mentendo sui crimini russi e trattando coloro che si arrendono come criminali, a prescindere.

L’intelligence americana afferma di non avere dati sulle perdite (ingenti) subite dagli ucraini; tuttavia ucraini e russi si scambiano cadaveri e lo fanno alla pari, il che significa che valutano perdite simili da ognuna delle parti: 100-300 morti al giorno. Cifre insostenibili da parte di un Paese con 190 mila uomini alle armi, meno drammatiche di fronte a un altro che ne ha 900.000. Sorprende perciò che gli Usa non sappiano quanti e quali ucraini siano caduti, ma la richiesta di armi pesanti e a lunga gittata dovrebbe rendere chiara la limitazione di personale militare da tenere al fronte.

Il presidente Biden, oltre a mandare altre armi pesanti e missili lamenta di non essere stato ascoltato da Zelensky quando avvisava dell’imminente attacco russo, ma questo non sorprende. Lui e la sua intelligence sapevano benissimo che la Russia si trovava davanti alla scelta tra invasione o perdita totale della Crimea, del Donbass e i missili della Nato in casa. Lo sapeva anche Zelensky e si mostrava spavaldo per sfruttare la sorpresa. Anche questo faceva parte della piattaforma Crimea e dell’accordo Usa-ucraina del 2021. Da parte sua, la Russia anche se avesse scelto la seconda opzione, non avrebbe evitato le sanzioni e l’isolamento. È invece bizzarro che Biden continui a parlare di guerra tra Ucraina e Russia e anzi prenda le distanze da entrambi e perfino dalla Nato, come se non ne facesse parte. Dietro l’invio di armi e la strenua difesa americana dell’ucraina, non c’è solo un trattato di cooperazione equivalente a una dichiarazione di guerra, non ci sono solo i miliardi di dollari spesi per la destabilizzazione dell’europa orientale e neppure il futuro dell’ucraina e della Nato: c’è il disagio di una situazione interna che si vuole attenuare o distrarre pretendendo che l’ucraina sconfigga la Russia, che l’europa si sacrifichi per l’ucraina e che la Nato si sacrifichi per gli Usa: tutto questo senza voler sentir parlare di guerra tra Russia e Usa o tra Usa e Cina.

Gli americani sono convinti che l’ucraina con il loro supporto vincerà, ma se dovesse perdere porterebbe “soltanto” alla fine dell’europa e della Nato senza scalfire gli interessi Usa che anzi ne trarrebbero benefici enormi. L’europa, dentro e fuori la Nato, è come la Danimarca di Shakespeare: corrotta dai falsi nazionalismi tenta di restare unita facendo la guerra o meglio facendola fare pur sapendo di condividere una insana voglia di eutanasia politica e militare. Senza alternative.

Ps. Approfitto dell’ospitalità del Fatto per chiarire alcune cose che un paio di giornalisti mi hanno attribuito con il chiaro fine di delegittimare le mie analisi. 1) Non sono un cultore delle scie chimiche. Ho scritto per Limes un articolo sulla guerra ambientale nel 2007 senza mai citarle. Non mi sono sottratto alle domande sullo specifico argomento soltanto per non alimentare il fumus del “segreto militare” che lo circonda e ne ho attribuito l’enfasi a una teoria del complotto “per assenza di prove”. Ho sollecitato gli interlocutori (tutti del mondo accademico) a raccogliere riscontri oggettivi scientificamente irreprensibili. Ho precisato che l’uso di mezzi e metodi in grado di alterare l’ambiente naturale è provato in agricoltura (a es. ioduro d’argento per provocare precipitazioni o attenuare rischi di grandinate, pesticidi ecc.) e in ambito militare (defolianti, tsunami artificiali, agenti chimici, batteriologici e radiologici, agenti per lo sfruttamento della ionosfera, ecc.). L’alterazione del tempo meteorologico (e non del clima) in aree e per tempi limitati è da tempo allo studio dei maggiori eserciti (i.e. progetto Owning the weather). Tutte le alterazioni ambientali a scopo bellico sono proibite dal diritto internazionale, ma sono tecnicamente possibili, militarmente sfruttabili come moltiplicatori di potenza, politicamente giustificabili ma di non provata “volontà” di farvi ricorso da parte di alcuni Paesi occidentali fra cui il nostro. Se questo è complottismo o terrapiattismo… 2) Un paio di giornalisti hanno espresso dubbi sulle mie analisi della guerra (in generale e specifica). Con un copia e incolla di singole parole tra le centinaia di migliaia scritte dal 1981 a oggi hanno creato un mosaico denigratorio che invece mi è servito per confermare il pensiero e gli scritti: parola per parola. 3) A proposito di parole, uno dei due ha rilevato con stizza la mia propensione per la definizione (etimologica) di “imbecille”. Mi scuso con lui se la cosa lo ha offeso: giuro di non aver mai saputo che lo fosse.

Squilibrio I russi stanno finendo il vecchio arsenale e sono pronti a mettere in campo quello nuovo, che l’ucraina aspetta dall’occidente

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