Diyarbakir, polveriera del Kurdistan turco, e guerra civile sempre in corso

di Maria Morigi

Dalla Rivoluzione dei Giovani Turchi (luglio 1908), le minoranze etniche di Turchia – che già vivevano con l’Impero Ottomano condizioni di emarginazione e sottosviluppo – sono state oggetto di una politica di repressione e assimilazione, più volte sfociata in bagni di sangue. La riforma linguistica del 1928 di Mustafa Kemal Atatürk, fatta per modernizzare la Turchia, vietò la lingua curda; altre leggi obbligarono i curdi alla de-nazionalizzazione costringendoli ad assumere nomi che rimandassero ad ascendenze turche. Fin dalle scuole elementari i giovani erano sottoposti a programmi di rieducazione agli ideali del Panturchismo.

Negli anni ‘70 la provincia di Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco, è stata epicentro di un sanguinoso conflitto tra l’esercito turco e i guerriglieri del Pkk “Partito dei lavoratori del Kurdistan” che reclamavano diritti civili negati alla minoranza curda. L’insurrezione armata fu lanciata nel 1984 da Adbullah Ocalan, fondatore del Pkk nel 1978 e detenuto dal 1999. Ad oggi, si stima che la guerra tra governo e curdi abbia prodotto più di 50mila vittime, 18mila soltanto tra i civili. Centinaia di villaggi che fornivano riparo ai guerriglieri sono stati assediati, bombardati e bruciati dall’esercito. È seguita una massiccia diaspora che ha portato milioni di curdi a cercare riparo nelle città o fuori dai confini turchi.

Il 16 novembre del 2013, in visita ufficiale a Diyarbakir, Erdogan promise che era imminente il giorno in cui “i guerriglieri sarebbero discesi dalle montagne e le carceri si sarebbero finalmente svuotate”. (Erdogan un anno prima aveva avviato negoziati con il leader della guerriglia curda, Ocalan ).

Ma nel 2015 Diyarbakir è di nuovo una città in guerra: la campagna antiterrorismo lanciata da Erdogan – che avrebbe dovuto distruggere le basi siriane dello Stato islamico – finisce in realtà per rivolgersi contro i curdi in Iraq e Turchia. Ad accendere la miccia, dopo una prima ondata di arresti (circa 200 tra attivisti e parlamentari) una sequenza di foto circolate sui social network del cadavere nudo e con segni inequivocabili di tortura della guerrigliera Kevser Elturk, trascinato per i piedi da un gruppo di soldati turchi. Di qui la guerra aperta. Le notti di Diyarbakir sono scandite dal rimbombo di bombe carta. Elicotteri Cobra delle forze speciali, cecchini sui tetti. La polizia colpisce nel mucchio, arresta e malmena civili ed attivisti. Tra i vicoli della città vecchia a ridosso della cinta muraria antica, un’intera generazione di giovani curdi (Ydg-H, organizzazione giovanile vicina al Pkk di Ocalan) si unisce a una guerriglia che per due anni era rimasta silente: scavano trincee e innalzano blocchi stradali per impedire l’ingresso della polizia.

Poche le denunce degli attivisti per i diritti umani, scarsi i segni dalla stampa internazionale, anche se nel 2015 almeno 12 assemblee cittadine disconobbero l’autorità dello Stato, dichiarando la propria indipendenza e l’ autogoverno. Solo alcuni testimoni e un resoconto del “Partito democratico dei popoli” (HDP)i filocurdo ci raccontano delle distruzione di interi quartieri a Diyarbakir e delle centinaia di civili che hanno perso la vita negli attacchi delle forze speciali che hanno chiuso le vie d’accesso, tagliato le linee di comunicazione e bombardato con i mortai, mentre nelle 15 province dichiarate “zone di sicurezza temporanea” una fiumana di centomila sfollati abbandonava le proprie case.

Oggi sappiamo che questa guerra civile non è mai finita, ma rimane sottotraccia, e l’apparenza è che interi quartieri nuovi, modello standard sovietico o cinese, sono sorti laddove prima c’erano baraccopoli, miseria e approssimazione edilizia. La guerra mai finita e le speranze deluse delle minoranze non fanno notizia perché non si vuole danneggiare il turismo e c’è qualche potente lobby governativa a gestire gli appalti edilizi e dei centro commerciali. Solo al bazar qualcuno ancora mostra (di nascosto dalla polizia) le storiche immagini di abitazioni sventrate dall’artiglieria ai visitatori più curiosi.

Negli stessi quartieri sventrati e poi ricostruiti dalla normalizzazione di Erdogan, coi nostri occhi vediamo che la cinta muraria di basalto nero – la più lunga fortificazione del mondo dopo la Grande Muraglia cinese, esempio imponente di architettura militare bizantina sul Fiume Tigri – è nuova di zecca, perfetta, più senzazionalistica che rispettosa dei canoni e delle tecniche di un restauro storico. Sotto quelle mura oggi viene lasciata una certa libertà di esibirsi a gruppi di musicisti di strada (la musica delle band rock curde in Turchia è occultata per censura governativa come tutto ciò che riguarda la cultura curda), ma la polizia è sempre presente e appena si raggiungono i cinque o sei ascoltatori, turisti esclusi, lo spettacolo viene interrotto. Notiamo anche che ad ogni occasione le persone che incontriamo si qualificano “io sono Curdo” quasi temessero che lo straniero o il turista facesse confusione tra un turco e un autentico curdo che ama la sua patria e “coltiva il suo giardino”ii.

Viene infine spontaneo al visitatore fare un parallelo con la situazione della Regione autonoma dello Xinjiang dove anche lo Stato cinese si è adoperato per affrontare terrorismo e separatismo. Eppure direi che le due realtà – quella dei Curdi e quella degli Uiguri – non sono assolutamente confrontabili per innumerevoli motivi che vengono del tutto trascurati da quelle agenzie ONU dei diritti umani che ad ogni situazione applicano giudizi e modelli standard occidentali. Col risultato che, anziché chiarire, confondono e annebbiano la comprensione dei problemi.

i L’HDP è visto come una variante turca del partito politico greco Syriza e dello spagnolo Podemos. Tuttavia, a differenza di tali formazioni, si colloca nell’Internazionale Socialista, insieme ai partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti di tutto il mondo. I fondatori Yavuz Önen e Fatma Gök proclamano il rigetto del capitalismo, lo sfruttamento del lavoro e si battono per il beneficio di tutti i turchi senza distinzione di razza, genere e religione. Sono favorevoli ad una nuova costituzione che riconosca i diritti alla minoranza curda, agli Aleviti ed ad altre minoranze.

Alle parlamentari di giugno 2015 HDP è riuscito a superare lo sbarramento del 10 % per l’ingresso in parlamento, mettendo in difficoltà il presidente Erdogan il cui partito AKP non deteneva più la maggioranza assoluta.

Il 4 novembre 2016 vennero arrestati i leader del partito e parlamentari: Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ come presunti sospetti per l’autobomba esplosa davanti alla sede della polizia di Diyarbakır.

Il 17 marzo 2021, il procuratore capo turco Bekir Şahin presentò alla Corte costituzionale un fascicolo che chiedeva la chiusura del partito HDP accusato di attività contrarie all’integrità dello Stato e sospettato di legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ritenuto dalle autorità turche un’organizzazione terroristica. Dapprima rigettata perché incompleta, la richiesta fu accettata dalla Corte costituzionale nel giugno dello stesso anno. Tuttora al vaglio del tribunale, il fascicolo chiede il bando dalla vita politica di 451 esponenti del partito.

ii A Istanbul e nel resto della Turchia I curdi sono detti “coltivatori di giardini”, senza alcun disprezzo o senso di superiorità, solo in riferimento alla loro tradizione contadina.

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