Democrazie di tutto il mondo, unitevi

di Giuliano Marrucci e Francesco Maringiò

In nome della democrazia il 9 dicembre scorso Biden ha riunito i rappresentanti di 111 paesi paladini della libertà e del governo del popolo

C’era la Colombia, che vanta il record di attivisti ambientalisti assassinati a sangue freddo nel corso del 2021, e dove si registra l’uccisione di 39 manifestanti e la sparizione di altri 168, esattamente una settimana dopo lo sciopero generale del 28 aprile scorso.

C’era il Brasile di Bolsonaro, negazionista del Covid, sponsor delle milizie che hanno assassinato Marielle Franco e apologeta della dittatura militare che governò il Brasile dal 1º aprile 1964 al 15 marzo 1985.

C’era anche Juan Guaidó. Ma non il presidente legittimamente eletto del Venezuela. Democrazia à la carte.

E ovviamente non poteva mancare Israele, che la democrazia la esercita su base etnica togliendo diritti non solo alla popolazione palestinese, ma anche agli israeliani di origine araba.

Non era invitata invece, ad esempio, la Bolivia, dove dopo un tentato colpo di stato esplicitamente sostenuto dagli USA nel 2019 il MAS di Morales è pacificamente tornato al potere raccogliendo il 52% dei voti. Un esito che non è stato apprezzato da Elon Musk, che in quel paese ha enormi interessi per via dei giacimenti di litio, e che a suo tempo tramite un tweet si espresse così: “rovesceremo qualsiasi governo vogliamo. fatevene una ragione”

Negli Stati Uniti nel frattempo è in corso una battaglia violenta che non attiene solo allo scontro tra Repubblicani e Democratici, ma allo stesso assetto democratico. Chi convoca a casa sue le “democrazie” contro le “autocrazie”, come dicono, sta vivendo una vera e propria guerra civile, dove i repubblicani continuano a minare le fondamenta del diritto di voto, togliendo ai funzionari pubblici il controllo delle procedure elettorali per assegnarlo ai politici di fede trumpiana, riducendo l’accesso al voto delle minoranze etniche e ridisegnando le circoscrizioni elettorali per favorire il partito. Poiché non esiste un ufficio federale che sovraintende alle elezioni tutto è nelle mani dei governatori e dei legislatori dei singoli stati, in gran parte repubblicani.

A questo si aggiungono le stridenti contraddizioni che la crisi pandemica ha esaltato, per cui nel paese “campione della democrazia” si istituivano fosse comuni per seppellire i morti da Covid, mentre in Cina si costruivano 3 ospedali in una settimana per curare tutti in modo gratuito e dignitoso.

Per non parlare della sanità pubblica che resta un tabù per 40 milioni di disperati, la condizione denunciata dai “black lives matter” e la ferita mai curata dell’habea corpus, rappresentata da Guantanamo.

Forse, anche per queste ragioni, secondo un’indagine dell’Harvard Institute of Politics condotta sui giovani tra i 18 ed i 29 anni, solo il 7% di essi ritengono gli Usa una “democrazia in buona salute”.

Però gli Usa organizzano alleanze mondiali sulla democrazia, a cui non invitano Russia e Cina, a sentir loro, le vere due cause di tutti i mali e le ingiustizie del pianeta. La Cina però ha reagito mettendo in campo un Forum internazionale sulla Democrazia ed i valori umani condivisi, a cui hanno partecipato più di 500 personalità provenienti da 120 paesi e 20 organizzazioni internazionali. Al termine del Forum, il Ministero degli Affari Esteri di Pechino ha pubblicato un rapporto sulla democrazia cinese, dove però vengono messi in evidenza anche i limiti della democrazia americana.

In questo report si può leggere: «Se il popolo viene svegliato solo per dare un voto, ma dopo diventa dormiente, questa non è vera democrazia. Se al popolo vengono offerte grandi speranze durante la campagna elettorale ma non ha voce in capitolo dopo, questa non è vera democrazia. Se al popolo vengono offerte promesse fulminanti durante la campagna elettorale, ma dopo viene lasciato a mani vuote, non è vera democrazia».

Sulla scorta di tutto questo OttolinaTV, una giovane emittante di informazione ed intrattenimento nativa digitale, ha organizzato un interessante trasmissione sul concetto di democrazia ed il suo valore in Occidente ed in Cina.

Immagine con link a registrazione della puntata:
https://www.facebook.com/ottolinatv/videos/452834633183018

Qui, potete trovare la registrazione della puntata

Il problema è che definire esattamente cosa sia una democrazia potrebbe essere meno facile del previsto.

In Italia nel 1970 si recò alle urne il 93% degli aventi diritto. Alle ultime amministrative si è superato a fatica il 50% ed il dato che emerge con grande evidenza è che votano prevalentemente i benestanti: ai Parioli di Roma va a votare il 57%, a Tor Bella Monaca, quartiere popolare di Roma Est, il 42.

Per l’elezione del Parlamento Europeo in Polonia e Repubblica Ceca vota meno del 20% degli aventi diritto e proprio poche settimane fa, alle suppletive della Camera dei Deputati di Roma è andato a votare un elettore su 10. 

Per lungo tempo il cuore della partecipazione politica è stato rappresentato dal sistema dei partiti: ma se nel 1947 erano iscritti al PCI quasi 2,5 milioni di persone, oggi tutti i partiti messi assieme non arrivano a 1 milione.

Il grosso della popolazione, e in particolare le classi subalterne, non partecipano alla vita politica del paese in nessun modo, anche perché i candidati vengono sempre e solo dalle classi sociali più alte: se nel 1953 un parlamentare comunista ogni 4 era un operaio, oggi su 630 deputati gli operai in tutto sono 2. Gli imprenditori invece sono 67, a cui si aggiungo 87 avvocati, 43 tra dirigenti e manager, e 15 commercialisti

Ne parla approfonditamente Luciano Canfora nel suo ultimi libro che non casualmente si intitola: “la democrazia dei signori”. La tesi di fondo è molto istruttiva. Ci ricorda infatti come la storia del sistema parlamentare rappresentativo non sia molto lunga. Ed in Italia, solo dal 1946 abbiamo permesso il suffragio femminile e registrato una partecipazione popolare massiccia al dibattito politico. Crollata l’Urss e messo sotto assedio lo stato sociale, la sfiducia delle classi lavoratrici nei partiti di riferimento cresce. Inoltre le assemblee legislative vengono quasi completamente esautorate dal ruolo dei governi. Il risultato è che solo i ceti medio-alti continuano a riconoscersi in questo sistema ed a sentirsi rappresentati. Il risultato – ci ricorda Canfora – è che votano “i signori”, il quale ricorda – e qui sembra proprio rispondere a Biden –come i due modelli tra loro contrapposti non sono democrazia-autocrazia, bensì democrazia-oligarchia.

Ed è un altro autore ed un altro libro fresco di stampa, che ci aiuta a comprendere la torsione autoritaria dei regimi liberali occidentali, come non sarebbe uno strano incidente di percorso, ma una conseguenza di cambiamenti strutturali.

Ma questa torsione autoritaria dei regimi liberali occidentali non è un incidente di percorso, ma una conseguenza di cambiamenti strutturali. Ce lo ricorda Emiliano Brancaccio in un altro fondamentale testo uscito appena pochi giorni fa: “democrazia sotto assedio”, dove l’autore sviluppa il concetto di liberismo autoritario. Secondo Brancaccio lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni avrebbe sviluppato in modo impetuoso una sua caratteristica intrinseca, quella alla progressiva concentrazione in sempre meno mani della ricchezza, a cui conseguirebbe una concentrazione anche del potere politico: oltre l’80 per cento del capitale azionario globale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti e anche il diritto di sciopero ormai è un ricordo lontano. I dati raccolti dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro indicano che dal 1990 la media delle ore di sciopero nei paesi Ocse è crollata del 42%. 

A volte comunque la democrazia prova a rifare capolino. E’ successo 10 anni fa con il referendum sull’acqua, dove il 96% dei votanti disse chiaramente che l’acqua deve rimanere pubblica. 10 anni dopo le privatizzazioni continuano e l’unico ad aver rispettato l’esito del referendum è l’ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che oggi è fuori da ogni istituzione del paese.

Nel documento sopra citato, i cinesi affermano inoltre che «la democrazia si manifesta in due dimensioni: a livello nazionale, si riferisce allo status del popolo come padrone del proprio paese; a livello internazionale, si riferisce alle relazioni democratiche tra le nazioni. La dignità di un paese deve essere rispettata, e la sua sovranità, sicurezza e interessi di sviluppo sono inviolabili. Giudicare gli altri paesi con il proprio metro di giudizio, o costringerli a duplicare il proprio sistema politico o modello democratico attraverso rivoluzioni colorate o la minaccia della forza è di per sé antidemocratico».

Secondo un documentato studio di James Lucas (il manifesto, 20 novembre 2018), solo la serie di guerre e colpi di stato – effettuata dagli Stati uniti dal 1945 ad oggi in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani – ha provocato 20-30 milioni di morti, centinaia di milioni di feriti (molti dei quali restati invalidi), più un numero non quantificabile di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento e danni ambientali.

Nelle guerre più sanguinose – Corea, Vietnam e Iraq – le forze militari Usa furono direttamente responsabili di 10-15 milioni di morti.

Il colpo di stato più sanguinoso fu organizzato nel 1965 in Indonesia dalla Cia: essa fornì agli squadroni della morte indonesiani la lista dei primi 5 mila comunisti da uccidere. Il numero dei trucidati viene stimato tra mezzo milione e 3 milioni.

Siamo abituati a pensare alla democrazia soltanto come ad un sistema basato su elezioni multipartitiche, al punto che ogni cosa che si configura in modo diverso la bolliamo immediatamente come antidemocratica. In realtà lo facciamo anche nel caso del Venezuela o della Russia, ma solo perché lì non ci piace il responso del voto popolare.

Ma il grande convitato di pietra del vertice di Biden era ovviamente la Cina.

E allora intanto sfatiamo un mito: in Cina ci sono le elezioni! I cittadini votano per eleggere i rappresentati nelle amministrazioni locali (mentre dal livello provinciale in su sono elezioni di secondo grado, come le nostre Province). E nel 2017, oltre 900 milioni di elettori hanno partecipato alle elezioni dei congressi del popolo a livello di città e contea – le più grandi elezioni dirette del mondo.

Un dato interessante emerge da una ricerca condotta dalla prestigiosa rivista scientifica Journal of Chinese Political Science. Hanno condotto un’indagine in alcuni villaggi, scoprendo come nonostante elezioni eque e competitive la governance rurale non è migliorata per 20 anni. Solo dopo alcune best pratiche basate sulla partecipazione popolare, un sistema di incentivi per chi rispettava le leggi e punizioni per chi le violasse, ha determinato un cambiamento nello stile di governo e quindi un miglioramento nelle condizioni di vita e di lavoro della popolazione. Insomma: non è la forma che determina la qualità della democrazia.