
di Ludovic Lamant
da il fatto quotidiano 6 febbraio 2023
Traduzione di Luana De Micco
Per tre volte, Dina Boluarte, la presidente del Perù, durante una conferenza stampa del 24 gennaio scorso, si è scusata con gli studenti per la violenta irruzione della polizia nell’universidad Nacional Mayor San Marcos di Lima: “Le modalità dell’intervento delle forze di polizia non erano adeguate”, ha dovuto ammettere. Quel giorno, il 21 gennaio, 192 persone che protestavano contro il governo sono state arrestate, per lo più studenti ma anche persone giunte a Lima apposta per partecipare alle marce di protesta e che alloggiavano nel campus universitario. La violenza dell’operazione di polizia è emersa dalle testimonianze che si sono moltiplicate nelle ultime settimane. Dal fallito tentativo di colpo di Stato dell’ex presidente Pedro Castillo che, il 7 dicembre 2022, aveva annunciato di voler sciogliere il Congresso, il Perù è precipitato in una profonda crisi politica.
NELLE ANDE alcuni manifestanti reclamano il ritorno dell’ex capo dello Stato, originario del mondo andino e in passato etichettato a sinistra, altri chiedono la convocazione immediata di nuove elezioni. A Lima, il Congresso, a maggioranza conservatrice, e l’esecutivo guidato da Dina Boluarte hanno reagito alle proteste usando le manieri forti, ma rischiando anche di accrescere le tensioni e gli scontri una settimana dopo l’altra. Le forze dell’ordine sono accusate di essere responsabili della morte di almeno 46 manifestanti, a cui si aggiungono altre dieci persone morte a margine delle mobilitazioni. Secondo la storica Carla Granados Moya, contattata da Mediapart, la “crescente militarizzazione della vita politica” in Perù contribuisce a spiegare la violenza della repressione delle proteste da parte della polizia, iniziata nelle strade delle città andine a metà dicembre, fino all’episodio di gennaio nel campus universitario di San Marcos, a Lima. Alcuni giorni prima della contestata operazione di polizia, un deputato di estrema destra, l’ammiraglio Jorge Montoya, era intervenuto in una trasmissione radiofonica, affermando di aver scoperto sui social network di essere diventato uno dei bersagli degli studenti dell’università di San Marcos: “Vogliono il mio sangue, reclamano la mia testa”, aveva detto. L’ex militare, membro del partito conservatore Renovación popular, aveva poi chiesto l’“espulsione di quei terroristi”. Alcuni giorni dopo, naturalmente, ha difeso l’irruzione della polizia peruviana nel campus universitario che, a suo avviso, aveva permesso di ripristinare il “principio di autorità”. Jorge Montoya “è uno dei quattro militari in pensione diventati membri del Congresso che esercitano un’influenza sempre maggiore sulla vita politica in Perù”, spiega la ricercatrice Carla Granados Moya, che ha lavorato in passato per l’esercito a Lima e ora sta scrivendo una tesi di dottorato sui veterani del conflitto armato contro il Sendero Luminoso, in Perù, negli anni 80 e 90, presso l’istituto di alti studi dell’america latina (IHEAL) a Parigi. Secondo la ricercatrice, gli interventi pubblici di Jorge Montoya e di altre personalità politiche hanno posto le basi per la violenta operazione di polizia nell’ateneo di San Marcos. Jorge Montoya si evidenzia per le sue prese di posizione ultra radicali. I contenuti dei messaggi che posta sui social ispirano spesso i
discorsi dell’esecutivo. Per esempio, il 19 dicembre scorso, dopo le manifestazioni a Puno, città nel sud del Paese diventata uno degli epicentri della protesta nelle Ande, aveva scritto: “Dobbiamo dichiarare lo stato di emergenza a Puno. Queste non sono più mobilitazioni ma terrorismo”.
ANCHE JOSÉ CUETO, ex ammiraglio e a sua volta deputato di Renovación popular, si è fatto notare a fine dicembre per aver proposto, in un intervento in tv, di “eliminare quelle persone”, riferendosi ai manifestanti della regione delle Ande che si radunano per sostenere l’ex presidente Castillo o per chiedere nuove elezioni generali. Jorge Montoya e José Cueto, fa notare ancora Carla Granados Moya, sono stati inoltre tra i primi ad avere chiesto al Congresso di decretare lo “stato d’emergenza”. Questa misura ha portato al dispiegamento dei soldati nelle città andine, responsabili in parte della repressione che è in corso per esempio nelle città di Ayacucho e Juliaca. “I loro discorsi che trasformano i manifestanti in ‘terroristi’ e ogni oppositore politico in ‘nemico interno’ esercitano una profonda influenza nel dibattito pubblico”, continua la ricercatrice. A ventidue anni dalla fine della dittatura di Alberto Fujimori, la cultura democratica resta ancora fragile in Perù mentre il linguaggio militare sta riprendendo il sopravvento. Anche l’attuale presidente del Congresso, José Williams Zapata, è un ex militare, ufficiale dell’esercito, noto per aver guidato la cosiddetta “Operazione Chavín de Huántar” che aveva permesso di liberare 71 persone prese in ostaggio nella sede dell’ambasciata del Giappone dal Movimento rivoluzionario Túpac Amaru (MRTA) nel 1997. Al contrario di José Williams Zapata, né Montoya né Cueto hanno combattuto sul campo durante il conflitto armato che ha opposto il Sendero Luminoso e L’MRTA da una parte e le forze militari e paramilitari dall’altro, negli anni 80 e 90. Il conflitto ha fatto 69.000 vittime e circa 20.000 dispersi, soprattutto nel centro delle Ande. La figura del militare in politica non è nuova in Perù. Juan Velasco Alvarado instaurò una dittatura militare dal 1968 al 1975, durante la quale riabilitò la figura di Túpac Amaru II, capo della rivolta indigena contro l’occupazione coloniale spagnola. Prese anche misure di sinistra radicale, inclusa la ridistribuzione ai contadini della terra detenuta da pochi grandi proprietari terrieri. Più di recente, nel 2011, Ollanta Humala è diventato il primo presidente veterano della guerra anti terrorista contro il Sendero Luminoso. E a differenza di Montoya e Cueto, Humala ha combattuto nel conflitto con il grado di capitano. “Ma la partecipazione di ex alti graduati dell’esercito alla politica peruviana si è accresciuta negli ultimi anni”, osserva ancora Carla Granados Moya. La ricercatrice si riferisce tanto alla riconversione di militari in pensione nella politica istituzionale (al cui elenco va aggiunto anche il fratello di Ollanta Humala, Antauro Humala, uscito di prigione nel 2022 e che vuole candidarsi alla presidenza), quanto alla presenza di militari e di ufficiali di polizia nel dibattito pubblico, spesso per legittimare il potere costituito.
È GIÀ AVVENUTO, per esempio, nel settembre 2020, durante una conferenza stampa a sostegno dell’allora presidente, Martín Vizcarra, minacciato di destituzione dal Congresso. Il primo ministro, lui stesso ex generale, si era presentato al fianco di cinque militari e poliziotti in funzione per mettere in scena la solidità del potere. Fu uno degli episodi di quella che i media chiamarono poi la “guerra politica”. La situazione è esplosiva dal momento soprattutto che il Paese conta ancora quasi 500.000 veterani, tra i 35 e i 55 anni, distribuiti in una rete di associazioni
La denuncia La storica Carla Granados Moya: “I manifestanti diventano ‘terroristi’ e ogni oppositore un ‘nemico interno’”
impegnate nel mondo andino e in Amazzonia. “Sono stati abbandonati dallo Stato durante i venti anni di democrazia e quindi ora sono animati da un forte risentimento nei confronti delle autorità”, precisa Carla Granados Moya, che li analizza per la redazione della sua tesi di dottorato. La maggior parte di questi veterani condivide le rivendicazioni delle popolazioni andine mobilitate contro le élite politiche e economiche di Lima e appoggia l’organizzazione di elezioni anticipate, sin dal 2023. Secondo la ricercatrice, la strategia di potere potrebbe spingere alcuni di loro a radicalizzarsi: “Le elezioni del 2021, che erano state vinte da Pedro Castillo, hanno dimostrato che è possibile per la popolazione rurale, storicamente esclusa, di vincere alle urne – continua Carla Granados Moya -. L’attuale classe politica, la polizia e le forze armate sono attanagliate dalla paura di perdere, ancora una volta, le prossime elezioni. La violenza della repressione serve a dire a queste persone: Non potete governare il Paese”.
Unisciti al nostro canale telegram