La costante considerazione di intervenire nella regione infiamma le tensioni con i poteri locali, compresa la Russia
di Anatol Lieven
da https://responsiblestatecraft.org
Traduzione di Marco Pondrelli per Marx21.it
Quando l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva nell’autunno del 2020 per riprendere il territorio conteso del Nagorno-Karabakh all’Armenia, gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione europea non hanno esercitato alcun ruolo nel porre fine al conflitto. Tutto ciò che è venuto da Bruxelles e Washington sono state pie dichiarazioni sulle deplorevoli vittime civili e la necessità di una soluzione pacifica.
L’intervento per porre fine ai combattimenti è stato lasciato alla Russia. Dopo che l’Azerbaigian aveva riconquistato gran parte del territorio, la Russia impose un accordo di armistizio sostenuto dalle forze di pace russe. In base a questo accordo, l’Armenia ha restituito del territorio azero al di fuori del Nagorno-Karabakh stesso; con una forza di pace russa che ora garantisce la sicurezza e l’indipendenza de facto del resto del Nagorno-Karabakh armeno. Allo stesso tempo, l’alleanza difensiva della Russia con l’Armenia e la presenza di forze russe in quel paese, garantisce l’accordo contro qualsiasi tentativo della Turchia di intervenire dalla parte dell’Azerbaigian.
Questa inazione occidentale era inevitabile, per due serie di ragioni. In primo luogo, (come magistralmente esposto da Thomas de Waal nel suo libro sull’argomento, “Black Garden: Armenia and Azerbaijan through Peace and War”), il conflitto in N-K è stato irrisolvibile per gli standard delle dispute separatiste.
Sotto il dominio sovietico, la regione (con una popolazione di circa due terzi armena e un terzo azera) era una provincia autonoma all’interno dell’Azerbaigian. Fu strappata all’Azerbaigian nella guerra tra il 1991 e il 1995, e di fatto unita alla vicina Armenia. La popolazione azera fuggì o fu cacciata. Durante la guerra le forze armene occuparono anche diversi distretti circostanti dell’Azerbaigian vero e proprio.
Non sorprende che l’Azerbaigian sia sempre stato determinato a riconquistare il territorio. I ripetuti tentativi dell’Occidente e della Russia, attraverso il “Gruppo di Minsk” dell’OSCE, di mediare un accordo di pace sulla base di un’autonomia garantita per il N-K all’interno dell’Azerbaigian, sono naufragati sulle posizioni inflessibili delle due parti e sulla natura implacabile dei fatti sul terreno.
Gli armeni non potevano accettare alcuna soluzione che avrebbe dato all’Azerbaigian un qualsiasi ruolo di sicurezza nel N-K, temendo con ragione che questo avrebbe reso la posizione armena del N-K completamente insicura. L’Azerbaigian non poteva accettare alcuna soluzione che stabilisse l’indipendenza de facto del N-K, anche con un accordo che ripristinasse formalmente la sovranità azera. E proprio come gli armeni non potevano accettare la presenza delle forze azere, così i rifugiati azeri non potevano tornare nelle aree controllate dalle truppe armene. La reciproca pulizia etnica che si è verificata alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 ha reso tutto ciò fin troppo ovvio.
Come ulteriore svolta maligna, qualsiasi soluzione al conflitto doveva comportare il ritorno al pieno controllo azero della città di Shusha, un centro storico della cultura musulmana azera. La posizione di Shusha, tuttavia, significa che il suo controllo da parte dell’Azerbaigian rende il N-K armeno completamente insicuro; perché è situato su una collina che domina sia Stepanakert, capitale del N-K, sia la strada che collega il N-K all’Armenia. La sua presa da parte degli armeni nel 1992 è stata un piccolo capolavoro di abilità e di audacia militare (quando l’ho visitata in precedenza mi era sembrata inespugnabile), e gli armeni con cui ho parlato sono sempre stati categorici nel loro rifiuto di considerare la restituzione di Shusha.
È sempre sembrato quindi probabile che qualsiasi cambiamento dello status quo creato dalla vittoria armena negli anni ’90 sarebbe stato condizionato da una nuova guerra e dalla vittoria di una parte o dell’altra. Era anche certo che qualsiasi compromesso territoriale provvisorio poteva essere creato e fatto rispettare solo dalla capacità e dalla volontà non solo di schierare una forza di pace ben armata, ma di sostenerla con la minaccia credibile di un intervento armato completo.
Nessuna minaccia così credibile avrebbe potuto esserefatta dagli Stati Uniti e dalla NATO, per non parlare dell’Unione Europea. Perché in parte per la forza delle circostanze e in parte per la loro stessa folle ambizione (e nel caso dell’UE, per l’asservimento ai programmi degli Stati Uniti), quando la guerra è ripresa l’anno scorso, l’Occidente si è trovato amaramente in contrasto con tutte e tre le grandi potenze della regione di N-K: Russia, Turchia e Iran.
Guidando l’espansione della NATO e sostenendo la Georgia nei suoi conflitti con le sue regioni minoritarie separatiste sostenute dalla Russia, l’Occidente si è assicurato l’ostilità russa e la determinazione di escludere qualsiasi truppa occidentale dal Caucaso meridionale. L’Iran, da parte sua, odiava naturalmente l’idea che gli Stati Uniti o le forze alleate apparissero sul suo confine settentrionale, data la probabilità che sarebbero stati usati per mettere ulteriore pressione e forse per incoraggiare il separatismo tra la sua grande minoranza azera.
Sotto il governo islamista di Recep Tayyip Erdogan, lo stato turco, anche se formalmente ancora membro della NATO, è diventato fortemente anti-occidentale nei suoi atteggiamenti e nei suoi programmi. Chiaramente, un tentativo esterno di intervenire in una regione di fronte all’ostilità di tutte le principali potenze regionali è destinato a fallire, gli Stati Uniti, la NATO e l’UE hanno fatto bene a non considerarlo nemmeno.
Un ulteriore ostacolo all’intervento occidentale è stato creato dalla politica interna dell’Occidente, e specialmente degli Stati Uniti e della Francia, che ha contrastato le ambizioni geopolitiche dell’Occidente nel Caucaso. Un sostenitore della linea dura dell’espansione del potere degli Stati Uniti nel Caucaso e nell’Asia centrale una volta mi ha detto che l’America dovrebbe “torcere le braccia agli armeni finché non si spezzano”. Gli ho risposto che avrebbe potuto dirlo a un membro del Congresso degli Stati Uniti della California meridionale, il principale centro della popolazione armena d’America.
Il potere della lobby armena ha portato a risoluzioni sia al Congresso degli Stati Uniti che all’Assemblea nazionale francese che nominano e denunciano il genocidio ottomano del 1915 contro gli armeni. Questa risoluzione, tuttavia, era anche un piccolo monumento ad una combinazione congressuale di opportunismo elettorale interno e irresponsabilità internazionale pseudo-idealistica. Perché mentre la risoluzione sul genocidio faceva infuriare i turchi e li spingeva ancora di più in una direzione anti-occidentale, non faceva assolutamente nulla di pratico per aiutare gli armeni.
Questo si riferisce alla vera accusa che può essere fatta alle istituzioni occidentali sulla guerra del Nagorno-Karabakh del 2020: non il loro mancato intervento, ma il fatto che per gran parte dei 30 anni precedenti, la NATO, l’UE, e gli istituti e gli scrittori che lavorano per loro hanno pompato documenti, rapporti, briefing e discorsi sul ruolo e la responsabilità dell’Occidente per la sicurezza del Caucaso meridionale (e dell’Asia centrale), quando il più elementare buon senso geopolitico e militare avrebbe dovuto rendere evidente la vacuità di tali dichiarazioni (vedi ad esempio le pubblicazioni del Centro dell’UE per gli Studi di Politica Europea sull’argomento, o l’Istituto dell’Asia Centrale-Caucaso e Studi sulla Via della Seta. )
Si può sostenere che tale lavoro dà un impiego relativamente innocuo a funzionari e “pensatori” occidentali che avrebbero fatto molto più male se incoraggiati a scrivere su luoghi in cui l’Occidente potrebbe effettivamente intervenire. Le uscite della NATO e dall’UE causano comunque danni reali, e non solo alle relazioni con le grandi potenze regionali. I poeti di corte hanno sempre corrotto i governanti con le loro lusinghe; e i funzionari della NATO e dell’UE che galleggiano in una nebbia perpetua di autoelogio istituzionale e megalomania impotente sono inclini a diffondere il loro sconcerto nell’opinione pubblica occidentale.
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Anatol Lieven è ricercatore senior su Russia ed Europa al Quincy Institute for Responsible Statecraft.