Colpire duramente i civili: l’ideologia suprematista alla base della politica israeliana

di George Yancy

da https://truthout.org

Traduzione di Marco Pondrelli per Marx21.it

Israele deve “abbandonare il sionismo, proprio come il Sudafrica ha abbandonato l’ideologia nazionalista afrikaner”, afferma Muhammad Ali Khalidi.

Il recente brutale attacco di Israele a Gaza ha provocato la morte soprattutto di donne e bambini. È stato uno degli attacchi più letali a Gaza a cui abbiamo assistito negli ultimi 17 mesi. Datoil modo in cui lo stato israeliano ha chiarito il suo disprezzo per il valore delle vite palestinesi, non mi ha sorpreso quando questo mese Benjamin Netanyahu ha accolto l’ex ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e il suo partito ultranazionalista, Otzma Yehudit, che significa “potere ebraico”, di nuovo nel governo. Tenete presente che è stato proprio Itamar Ben-Gvir a sostenere, già a gennaio, che l’elettricità, il carburante, l’acqua e gli aiuti umanitari dovevano essere “completamente bloccati” per Gaza, nel tentativo di costringere Hamas a rilasciare i prigionieri ancora in suo possesso. Non c’è nulla in una posizione così disumana che onori il salvataggio delle vite dei palestinesi. È il linguaggio del genocidio. E come ha sostenuto con forza Rabbis for Ceasefire, non c’è nulla nei recenti attacchi mortali a Gaza che rispetti il principio spirituale ebraico del pikuach nefesh (“salvare una vita”).

In un’intervista con Judith Butler, ho accennato all’importanza di un discorso radicalmente nuovo che potrebbe spingere le menti e i cuori degli ebrei israeliani a ripensare il loro rapporto violento con i palestinesi e che si rivelerebbe vantaggioso anche per loro stessi. Butler ha risposto: “Non sono sicura che un appello umanistico agli ebrei israeliani possa funzionare, perché le radici del problema sono in una formazione statale che ha fatto affidamento sulle espulsioni e sul furto di terre per stabilire la propria ‘legittimità’”. È stato allora che ho pensato a James Baldwin, il quale sosteneva che il “prezzo del biglietto” per gli immigrati europei per essere assimilati nella società statunitense era diventare bianchi, il che significava che il nucleo di ciò che diventavano era antitetico all’esistenza dei neri. In breve, la radice del problema della bianchezza è legata all’antinegrosità ed è proprio questa antinegrosità che stabilisce la “legittimità” della bianchezza. Vedo questo senso di “legittimità” manifestarsi nella storia di razzismo dello Stato israeliano contro i palestinesi e nell’uccisione di questi ultimi per il mantenimento dell’identità israeliana e la formazione dello Stato.

Per comprendere la devastazione esistenziale delle vite palestinesi, è importante che accettiamo il fatto che il numero di uccisioni è, come sostiene Muhammad Ali Khalidi, “sconcertante e senza precedenti nella storia moderna della Palestina”. Voglio sapere cosa spinge lo Stato di Israele a commettere tali atti di violenza inaudita e perché contro migliaia di civili palestinesi. È qualcosa di nuovo o è stata la banalità continua della perniciosità contro i palestinesi da parte dello Stato di Israele? La creazione di uno Stato palestinese è mai stata una vera opzione per lo Stato israeliano, o la sua retorica è sempre stata una posizione di malafede, in cui l’egemonia e il controllo di Israele sui movimenti dei palestinesi è sempre stato il suo obiettivo? Se vogliamo sostenere la liberazione dei palestinesi, cosa dobbiamo fare e continuare a fare, soprattutto ora che Donald Trump è tornato al timone degli Stati Uniti? È importante cercare la verità quando pensiamo alla devastazione di Gaza da parte di Israele. Per fare maggiore chiarezza su questi temi, ho condotto questa intervista esclusiva con Muhammad Ali Khalidi, professore di filosofia alla City University of New York Graduate Center e autore del recente libro Cognitive Ontology: Taxonomic Practices in the Mind-Brain Sciences. L’intervista che segue è stata leggermente modificata per chiarezza e lunghezza.

George YancyProvo un‘indignazione profonda nei confronti dello Stato israeliano. È un’indignazione che nasce dalla testimonianza della continua, massiccia e disumana devastazione esistenziale della vita dei palestinesi. Come sapete, proprio questa settimana Netanyahu ha detto che il recente feroce bombardamento di Gaza è stato “solo l’inizio”. Sono morte più di 400 persone, tra cui “almeno 183 bambini, 94 donne, 34 anziani e 125 uomini.Almeno altre 678 persone sono rimaste ferite, molte in modo grave, e altre ancora sono rimaste intrappolate sotto le macerie“. È falso dire che ‘è solo l’inizio’ quando non c’è stata fine e quando l’”inizio” è iniziato decenni fa. Per favore, parli di questo ultimo atto di violenza perpetrato dallo Stato israeliano.

Muhammad Ali Khalidi: Per certi versi, il progetto sionista è riuscito al di là dei sogni più sfrenati dei primi coloni, mentre per altri versi è un totale fallimento. È un fallimento perché si basa sull’eliminazione degli abitanti palestinesi della terra, e i palestinesi non sono stati eliminati, né sono stati riconciliati con lo status di sottoclasse permanente. C’è un passaggio che mi perseguita, tratto da un saggio pubblicato nel 1907 da Yitzhak Epstein, un ebreo di origine russa che fece parte della prima ondata di coloni sionisti in Palestina negli anni ottanta dell’Ottocento: “Mentre proviamo l’amore per la patria, in tutta la sua intensità, verso la terra dei nostri padri, dimentichiamo che anche le persone che vi abitano ora hanno un cuore sensibile e un’anima amorevole. L’arabo, come ogni persona, è fortemente legato alla sua patria… Il lamento delle donne arabe il giorno in cui le loro famiglie lasciarono Ja’uni – Rosh Pina – per andare a stabilirsi a Horan, a est del Giordano, risuona ancora oggi nelle mie orecchie. Gli uomini cavalcavano asini e le donne li seguivano piangendo amaramente, e la valle era piena del loro lamento. Mentre andavano, si fermavano per baciare le pietre e la terra” (estratto dal libro curato da Adam Shatz, Prophets Outcast: A Century of Dissident Jewish Writing about Zionism and Israel). C’è un filo diretto tra quel primo atto di espulsione sionista e quest’ultimo atto di violenza israeliana. Eccoci qui, 120 anni dopo, ancora ad ascoltare il lamento delle madri e dei padri palestinesi, che piangono non solo la perdita della loro terra, ma troppo spesso anche la perdita dei loro figli a causa della violenza dello Stato israeliano.

In un articolo pubblicato nel 2015, lei scrive che “per ammissione dei suoi stessi alti comandanti militari, Israele prende deliberatamente di mira i civili”. Lei parla anche di come l’allora vicepresidente della Knesset israeliana Moshe Feiglin abbia sostenuto “la distruzione e lo spopolamento totale di Gaza, che porterà all’espulsione dei palestinesi dalle loro case e alla loro ‘eliminazione’ permanente dalla loro patria”. Dal 7 ottobre 2023, più di 62.000 palestinesi sono stati uccisi. Inoltre Israele che ha ucciso almeno 17.400 bambini a Gaza, il che equivale a un bambino ucciso ogni 30 minuti. Questo non include ciò che il gruppo umanitario britannico Save the Children ha riportato come più di “17.000 bambini [che] si ritiene siano non accompagnati e separati e circa 4.000 bambini [che] sono probabilmente dispersi sotto le macerie. Lei menziona anche la cosiddetta “dottrina Dahiya”, così chiamata in seguito alla distruzione del sobborgo di Beirut da parte di Israele nella guerra del 2006 contro il Libano, che è stata citata come potenziale principio guida per Israele nel suo genocidio a Gaza. Qual è la motivazione di Israele dietro l’uso di questo tipo di distruzione sproporzionata e totale?

I numeri sono sbalorditivi e senza precedenti nella storia moderna della Palestina. Potrebbero anche essere stati gravemente sottostimati, secondo una ricerca recentemente pubblicata sulla rivista medica The Lancet, secondo la quale il numero dei morti poteva essere già stato superiore a 64.000 lo scorso giugno. Ciò che è ancora più sconcertante è che dietro ogni numero c’è una vita che è stata stroncata e che ogni vittima ha genitori, figli, cugini, vicini o colleghi di lavoro, tutti ora in lutto. L’intera popolazione di Gaza è devastata e traumatizzata collettivamente, molti di loro sono feriti fisicamente e psicologicamente, quindi gli effetti ci accompagneranno per i decenni a venire. Inoltre, i morti sono per lo più civili innocenti e disarmati che stavano semplicemente cercando di sopravvivere, quindi perché questa carneficina senza precedenti?

Quando ho scritto l’articolo nel 2015, Israele aveva lanciato quattro grandi attacchi sulla Striscia di Gaza nei 10 anni precedenti (2006, 2008-2009, 2012 e 2014), e ci sono stati altri tre grandi assalti prima di ottobre 2023. Tra il 2000 e il 2023, l’esercito israeliano ha ucciso quasi 8.000 palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali civili. Con ogni successivo attacco a Gaza, diventa sempre più chiaro che Israele attacca indiscriminatamente i civili palestinesi e utilizza ciò che persino il New York Times ha definito “standard allentati” per bombardare obiettivi civili, un “elenco ampliato di obiettivi” e mezzi rozzi di “generazione di obiettivi”, inclusa l’intelligenza artificiale. Ci sono anche molte prove che l’esercito israeliano abbia ampiamente utilizzato civili palestinesi come scudi umani a Gaza, così come in Cisgiordania, anche secondo i principali media statunitensi. Allora perché Israele prende di mira i civili quando ha armi di precisione e la capacità di distinguere i combattenti dai non combattenti? Penso che ci siano due ragioni principali.

Innanzitutto, esiste una vecchia dottrina militare israeliana secondo cui colpire duramente i civili, sia in Palestina che in Libano, mette sotto pressione i gruppi militanti. Questo è stato articolato in modo più evidente dall’ex capo di stato maggiore israeliano, il generale Gadi Eisenkot, in riferimento al Libano. Nel 2006 ha dichiarato che l’esercito israeliano avrebbe applicato una forza sproporzionata alle aree civili e che avrebbe persino considerato tali aree come basi militari. Questo divenne noto come la “Dahiya Doctrine” (dal nome del sobborgo meridionale di Beirut) e Eisenkot indicò che si trattava di un piano “approvato”. Ho sostenuto che questa dottrina si basa in parte su documenti pubblicati su riviste accademiche, scritti in collaborazione dall’ex capo dell’intelligence militare israeliana e da un professore di filosofia, che pretendono di giustificare la violazione del principio di distinzione tra combattenti e non combattenti nel diritto internazionale umanitario. Il fatto che articoli che giustificano i crimini di guerra israeliani siano stati pubblicati su riviste accademiche sottoposte a controllo è di per sé eloquente; ho cercato di rispondere alle loro pretestuose argomentazioni morali altrove. Questo lavoro, che è solo una piccola indicazione dei modi in cui il mondo accademico israeliano è complice dei crimini di guerra, pretende di fornire una giustificazione morale per dare priorità alla vita dei soldati israeliani rispetto ai civili palestinesi. Naturalmente, il rifiuto esplicito del principio di distinzione è moralmente ripugnante, così come lo è l’idea che la militanza possa essere debellata attaccando i civili.

La seconda ragione è che uno degli obiettivi di questo attacco è stato quello di rendere Gaza invivibile e cercare di cacciarne la popolazione. Semplicemente, Israele attacca continuamente i civili palestinesi con l’intenzione di costringerli a lasciare la loro patria. La leadership israeliana spera che l’enorme numero di morti e distruzioni sia il preludio alla deportazione o porti a una migrazione di massa. Si tratta della continuazione di una politica di pulizia etnica iniziata con l’avvio del progetto sionista e culminata nel 1948, quando la maggior parte della popolazione palestinese fu cacciata dalle proprie città e dai propri villaggi nella Nakba (catastrofe). Ecco perché il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i ministri del governo hanno chiesto lo sfollamento di massa dei palestinesi da Gaza, ed ecco perché un altro membro del governo israeliano ha definito la guerra a Gaza “Nakba 2023”. Ed ecco perché Donald Trump ha detto ad alta voce ciò che tutti pensano, annunciando piani per “ripulire” la Striscia di Gaza deportando i palestinesi in Giordania ed Egitto.

Continuando con il suo articolo, Muhammad Ali, quali lezioni stiamo imparando dalla devastazione militare di Gaza da parte di Israele? Dico “in corso” perché lei sostiene che “Israele ha bisogno di una guerra ogni due o tre anni per testare il suo arsenale” e che “Israele non può tollerare l’unità palestinese”. Da quanto sostiene, sembra che non sia una questione di se, ma sempre una questione di quando Gaza sarà nuovamente devastata dai bombardamenti di Israele.

Gaza è, quasi letteralmente, una spina nel fianco dello Stato israeliano. La sua popolazione è costituita prevalentemente da persone e dai loro discendenti che sono stati cacciati dalle loro città e dai loro villaggi nella Palestina meridionale nel 1948, immediatamente prima e dopo la fondazione dello Stato di Israele. La maggior parte di loro sono rifugiati che vogliono solo tornare alle loro case originarie, alcune delle quali si trovano su terre in gran parte disabitate in Israele, a due passi da dove vivono ora. L’unica cosa che si frappone è l’ideologia sionista, che insiste nel mantenere uno stato progettato esclusivamente per il popolo ebraico, a prescindere dal costo per i palestinesi. Israele è consapevole che i rifugiati palestinesi a Gaza non rinunceranno al loro diritto al ritorno e, di conseguenza, intraprenderà periodiche azioni militari per reprimere la resistenza. Questo è ciò che i funzionari israeliani hanno eufemisticamente chiamato “falciare l’erba”, il regolare processo di sottoporre la Striscia di Gaza a una forza militare schiacciante, almeno ogni due anni dal 2005. Finché i palestinesi di Gaza continueranno a resistere all’occupazione militare e a rivendicare i loro diritti fondamentali, secondo il pensiero comune, dovranno essere schiacciati dalla macchina militare israeliana.

Dato che un “cessate il fuoco” è una temporanea sospensione dei combattimenti, non c’era nulla nel cessate il fuoco che garantisse che l’assedio di Gaza non sarebbe continuato una volta scambiati gli ostaggi israeliani con i palestinesi imprigionati da IsraeleIn effetti, Israele ha violato ripetutamente il cessate il fuoco e ha ripreso a bombardare Gaza con attacchi aerei massicci che hanno ucciso più di 400 palestinesi in un solo giorno. Tuttavia, anche se Israele dovesse interrompere definitivamente i bombardamenti su Gaza, rimarrebbe il problema della ricostruzione delle infrastrutture, della malnutrizione, della fame, dell’assistenza medica e così via. Come scrive Seraj Assi, “A partire dal 2006, in quella che equivaleva a una punizione collettiva di una popolazione civile, Israele ha imposto un rigido blocco a Gaza, durante il quale ha regolamentato le importazioni di cibo nella striscia assediata in base alle calorie consumate per persona, per limitare i trasferimenti di cibo e medicine a un ‘minimo umanitario’”. Se la questione del blocco non viene affrontata, avremo comunque un genocidio con un altro nome. Cosa ne pensi?

Si dice che Israele abbia concesso a Gaza l’indipendenza nel 2005, quando ha smantellato i suoi insediamenti e ritirato le sue forze militari nel perimetro della Striscia di Gaza, in linea con il “piano di disimpegno” ideato dall’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon. Ma l’obiettivo non è mai stato quello di dare a Gaza la sovranità o di consentirle di unirsi alla Cisgiordania in uno Stato palestinese vitale. L’obiettivo era mantenere l’occupazione militare di Gaza tramite il controllo remoto, senza soldati israeliani sul campo. Come ammise all’epoca l’assistente principale di Sharon, Dov Weisglass, il piano era inteso a impedire la creazione di uno stato palestinese, con la benedizione degli Stati Uniti. Israele continuò a dominare tutti gli aspetti della vita nella Striscia di Gaza: tutti gli spostamenti di persone e merci in entrata e in uscita dal territorio; un regime di sorveglianza totale attraverso il controllo del registro della popolazione; e l’accesso all’acqua, all’elettricità e al carburante, nonché allo spazio aereo e al mare. Questo assedio durato 20 anni fu così draconiano che regolamentò il numero di calorie pro capite che potevano entrare nella Striscia di Gaza, come hai detto tu. Il blocco è parte integrante di un sistema volto a sopprimere il popolo palestinese in modo che smetta di rivendicare i propri pieni diritti civili e politici. Il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich ha recentemente dichiarato che bloccare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza è “giustificato e morale”, anche se ciò causerà la morte per fame di 2 milioni di civili. Quindi c’è un chiaro intento genocida ai più alti livelli del governo israeliano.

Negli Stati Uniti, i neri continuano a soffrire, soprattutto a causa del retaggio storico e dell’attuale razzismo contro i neri. Come persona di colore, non voglio essere “accettato” in un sistema che è ancora contro i neri. Non c’è una vera sicurezza esistenziale e politica.Dopo tutto, essere nero negli Stati Uniti significa essere costantemente sotto la sorveglianza dello sguardo bianco. Quindi, penso anche che sia necessario parlare di quello che definirei lo sguardo sionista, che vede i palestinesi come “inferiori”, “primitivi” e “subumani”. Vede qualche possibilità che lo Stato israeliano affronti il suo profondo razzismo anti-palestinese? Cosa pensa che ci vorrebbe per farlo?

Il sionismo è nazionalismo ebraico. Proprio come il nazionalismo cristiano è un’ideologia intrinsecamente suprematista ed esclusiva, lo è anche il nazionalismo ebraico. Inoltre, proprio come il nazionalismo cristiano non è cristianesimo, il nazionalismo ebraico non è ebraismo, come dimostra il fatto che molti ebrei sono e sono stati non sionisti o antisionisti. Il nazionalismo cristiano nella maggior parte delle sue manifestazioni è un’ideologia suprematista bianca malcelata, intrinsecamente esclusiva. Allo stesso modo, il nazionalismo ebraico come lo conosciamo è anche un’ideologia suprematista, che disumanizza le persone che ha espropriato e spogliato dei loro diritti al fine di stabilire e mantenere uno stato-nazione esclusivo. Lo “sguardo sionista” che lei menziona, che disumanizza gli abitanti indigeni della Palestina, è necessario per privilegiare gli ebrei rispetto ai non ebrei. Quindi, per affrontare il razzismo anti-palestinese più profondo, è necessario smantellare l’ideologia sionista così come la conosciamo. Ciò significa che Israele deve abbandonare il sionismo, proprio come il Sudafrica ha abbandonato l’ideologia nazionalista afrikaner che ha sostenuto l’apartheid. Questo potrebbe non porre fine del tutto al razzismo contro i palestinesi, proprio come porre fine al Jim Crow [leggi istituite per creare e mantenere la segregazione N.d.T.] non ha messo a tacere il razzismo contro i neri negli Stati Uniti, ma sarebbe un enorme passo avanti per i palestinesi che vivono sotto l’occupazione e ai quali vengono negati la cittadinanza e il diritto di voto (ricordate Dred Scott), oltre ai loro diritti civili fondamentali.

Oggi, grazie agli sforzi concertati di ogni governo israeliano dal 1967, ci sono insediamenti israeliani in tutta la Cisgiordania e non c’è alcuna possibilità di separazione territoriale o di una soluzione a due Stati. Abbiamo invece una “realtà a uno Stato”: lo Stato israeliano governa un territorio che contiene un numero approssimativamente uguale di ebrei e non ebrei, ma le uniche persone con pieni diritti politici e civili sono quelle che sono nate ebree o che si sono convertite all’ebraismo. Alla luce di quella che i leader israeliani chiamano la “minaccia demografica”, Israele ritiene che la sua unica opzione sia sterminare ed espellere i palestinesi, oppure sopprimerli al punto da renderli incapaci di resistere e rivendicare i propri diritti. Non c’è motivo per cui gli ebrei non possano vivere in sicurezza in Palestina, praticando liberamente la loro religione ed esprimendo la loro cultura, senza creare un regime suprematista che consideri i non ebrei inferiori. Ma ciò richiederebbe che Israele si “de-sionizzasse” e diventasse uno Stato di tutti i suoi cittadini, compresi i palestinesi, che ora costituiscono circa la metà della popolazione all’interno dei suoi confini.

Infine, siamo entrambi filosofi. Come sa, c’è stato un gruppo di filosofi che ha firmato collettivamente una lettera per mostrare il nostro sostegno alla Palestina, invitando “i nostri colleghi filosofi a unirsi a noi per superare la complicità e il silenzio.” Cosa non stanno facendo i filosofi che secondo lei dovrebbero fare o fare di più di fronte al genocidio che sta avvenendo sotto i nostri occhi?

Molti accademici, compresi i filosofi, stanno già facendo la loro parte in solidarietà con il popolo palestinese, sostenendo la causa con il loro tempo e le loro risorse. In effetti, penso che l’aumento della solidarietà con il popolo palestinese nei campus universitari americani sia in gran parte il prodotto dell’aumento della conoscenza e della consapevolezza tra la comunità accademica della storia e della realtà attuale, come si riflette sia nella ricerca che nell’insegnamento. Non è un caso che i campus statunitensi e canadesi si siano sollevati in segno di protesta contro la guerra: gli studenti e i docenti sono generalmente meglio informati del pubblico in generale sulla situazione. Ma la reazione che stiamo vedendo ora nei campus universitari è in realtà un tentativo di ristabilire e imporre l’ignoranza, simile a quella che il defunto filosofo Charles Mills chiamava “ignoranza bianca”.

Quindi gli accademici hanno il dovere di continuare a imparare, parlare, scrivere e protestare per contrastare i tentativi di reprimere il dissenso. In particolare, i filosofi che sono presumibilmente bravi a fare distinzioni devono insistere sulla differenza tra ebraismo e sionismo, e quindi tra antisemitismo e antisionismo, nonostante ciò che dicono gli amministratori universitari sotto la pressione dei politici di destra e dei donatori aziendali e privati. Per fare solo due esempi, Harvard ha appena adottato una definizione di antisemitismo che lo confonde con l’antisionismo, e la NYU ha recentemente esteso le protezioni del Titolo VI ai sionisti, il che è assurdo, poiché il sionismo è un’ideologia politica, non una razza, una religione o un’etnia. Questi tentativi maccartisti di censura e soppressione della libertà accademica devono essere contrastati in ogni campus, soprattutto dai docenti di ruolo. È un compito per il quale i filosofi sembrerebbero particolarmente adatti, contribuendo con tempo e risorse a sfatare e combattere l’ideologia sionista. È anche un buon momento per unirsi alla società civile palestinese in un boicottaggio delle istituzioni israeliane, comprese le istituzioni accademiche, che, come ho già detto, sono profondamente complici dell’occupazione militare e dei crimini di guerra. Questo è il minimo che possiamo fare per combattere il razzismo e lavorare per un futuro in cui tutte le persone vivano con pari diritti tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano.

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