Un approccio al Tibet tra modernità e tradizione

tibet monacidi Maria Morigi

62 Anni fa, il 28 marzo 1959 il Tibet veniva ufficialmente liberato dalla schiavitù della gleba cui soggiaceva circa un milione di abitanti, il 1° settembre 1965 era riconosciuta l’ Autonomia. Date che segnano la Storia. Tuttavia le ONG per i diritti umani legate all’ONU continuano ad essere molto attive a gettar fango sulle politiche attuate dalla RPC in Tibet e in Xinjiang, fingendo di ignorare che tali questioni riguardano la sovranità e l’integrità territoriale della Cina (vedi articolo “
La questione Tibet e i trucchi di Washington). Per cui mi pare necessario riproporre un quadro sintetico con qualche elemento esplicativo.


Il plateau Qinghai-Tibet (Provincia del Qinghai + Regione Autonoma) ha un’estensione geografica enorme: il Qinghai è più del doppio dell’Italia, mentre il Tibet è equivalente circa all’Europa occidentale. Vi risiedono pochi milioni di abitanti (6 milioni in Qinghai e 3 milioni in Tibet) a causa dell’inospitalità di territori caratterizzati da altitudini ai limiti della vita antropica (altitudine media in Tibet: 4600 metri). L’etnia tibetana (una delle 56 shǎoshù mínzú) rappresenta più del 90% della popolazione; di matrice principale mongola, è composta da tre sottogruppi principali (Hor, Nachan e Changri), suddivisi in 51 ulteriori sottogruppi. 

Prima degli anni Cinquanta, il Tibet era una teocrazia feudale la cui sopravvivenza autonoma – non indipendentedallo Stato cinese! – era concessa a titolo di vassallaggio da governi centrali deboli (ultimo Impero e Kuomintang-KMT). Non esistevano scuole, la popolazione era soggetta alle regole di monasteri che detenevano ogni proprietà fondiaria (agricola e di allevamento), la giustizia era amministrata da poteri locali facenti capo ad un Monastero e/o ad un lignaggio dei Lama. 

Solo grazie alla strategia di sviluppo “Go West” della RPC e al sostegno delle minoranze etniche, il Tibet ha conosciuto uno sviluppo socio-economico generalizzato paragonabile a quello di altre Regioni Autonome come lo Xinjiang. Oggi si registrano infatti il passaggio ormai definitivo da povertà-nomadismo a sviluppo-stanzialità, interventi infrastrutturali, mobilità e servizi di trasporto, ammodernamento abitativo, condizioni di lavoro tutelate e vita sociale attiva. Gli insediamenti sono raggiunti da servizi essenziali (acqua potabile, elettricità, telecomunicazioni, fibre ottiche); le questioni ecologiche sono oggetto di numerosi interventi (energie rinnovabili, riforestazione, riserve naturali); il numero degli istituti scolastici ha superato il migliaio, le Università sono 4 (di cui una buddhista sovvenzionata dallo Stato, Larung Gar), il bilinguismo è garantito e sostenuto da programmi adattati alle esigenze locali.

Tutto ciò è stato reso possibile da una macchina organizzativa ben collaudata, da una oculata pianificazione che si avvale anche (e soprattutto) delle informazioni e dei contributi che provengono dalle organizzazioni di base, ovvero le Assemblee popolari locali. Il sistema delle Assemblee locali ha diversi livelli: 1) villaggi e piccoli centri urbani; 2) distretti, distretti autonomi, cittadini e città; 3) province, municipalità autonome e regioni autonome; il livello più alto è quello dell’ Assemblea Nazionale. Con la Legge Organica delle Assemblee locali del 1979 ed in base alle più recenti modifiche (1995), le Assemblee locali dei primi due livelli sono articolate in Comitati permanenti, che garantiscono piena partecipazione alle minoranze etniche, composti da membri eletti con competizioni elettorali dirette, liste aperte e voto segreto. Sono stati introdotti anche nuovi criteri per la presentazione delle liste dei candidati: le proposte possono essere presentate da dieci o più elettori/deputati per le elezioni a livello di villaggio/distretto. Le elezioni delle Assemblee locali avvengono ogni due anni.

Se poi ci accontentiamo di fare i visitatori turistici, vediamo gruppi di fedeli che percorrono le vie di pellegrinaggio, monasteri con tesori e biblioteche in protezione statale con la collaborazione degli abitanti di sperduti villaggi; vediamo che ai festival religiosi accorrono migliaia di cittadini, controlli di sicurezza, tutela, conservazione e ricostruzione di quanto appartiene alla tradizione tibetana [controllo stringente di accesso e divieto di foto solo a luoghi particolari come i “Funerali Celesti” che sono un rito impressionante]. Il turista apprezza anche gli sportelli Bancomat e i ristoranti islamici.

E allora, per quale motivoaffrontare una serena discussione sul Tibet continua ad essere un’impresa difficile?. La risposta è semplice: i pregiudizi radicati nella narrazione occidentale, che racconta una storia distorta e falsificata, sono duri a morire, confondono la realtà e non permettono di vedere lo sviluppo e l’ efficace eradicazione della povertà, il cui merito va attribuito agli interventi attuati su pianificazione statale e il lavoro di Istituti di Ricerca scientifica (ad esempio il China Tibetology Research Center).

L’opinione pubblica occidentale è infatti condizionata dalla propaganda delle centinaia di gruppi “Free Tibet” nati dopo l’esilio del Dalai Lama, i quali, sovvenzionati da Washington, continuano a raccontare di “occupazione”, di “genocidio”, di buddhismo perseguitato, di infamie repressive da parte cinese. Una narrazione unilaterale all’insegna di una speculazione ideologica che alimenta l’ ignoranza della Storia, visto che non si vuole ammettere che il Tibet fa parte della Cina dal XIII secolo e che l’unica invasione del Tibet avvenne per opera dei britannici nel1904. Eppure sono apparsi nel panorama editoriale contributi storici documentati (nota 2) e persino i primi esploratori del Tibet (nota 3) ci forniscono testimonianze e prove sulle “peculiarità” della teocrazia lamaista e la continuità di rapporti tra Cina e Tibet. 

Si deve anche constatare che, in Occidente, l’interesse per il suggestivo buddhismo Vajrayana e tantrico e l’ammirazione per un Tibet “mitologico” fuori dalla storia (assai pittorescamente narrato da Hollywood) ha avuto la prevalenza sull’ osservazione della società tibetana nelle sue trasformazioni da teocrazia feudale a Stato moderno. Ciò è diventato tanto più insistente negli ultimi decenni quando la RPC, praticando garanzie costituzionali di tutela religiosa ed etnica, si è spesa per la protezione di culti tradizionali popolari ma non accettati da alcune Scuole. 

A tal proposito si consideri che non tutte le varie comunità monastiche riconoscono legittimità all’attuale Dalai Lama e che la questione del Tulku (Reincarnazione)divide buddhismo e popolo tibetano in ben 4 filoni di interpretazione, cosicché quasi ogni villaggio rivendica la nomina di un proprio Dalai Lama. Per le pratiche protette dallo Stato, ma non accettate da alcune Scuole, mi riferisco alla disputa sul demone-oracolo Dorje Shungen , oltre che alla tradizione del Tulku. Problemi spinosi che vanno oltre l’orizzonte dottrinale per assumere una dimensione socio-politica divisiva. A tutto ciò sono seguite, orchestrate dal cosiddetto “clero degli esuli” e dalle comunità tibetane in esilio, campagne di delegittimazione delle politiche governative e accuse di “colonialismo Han”.

Comunque la percezione occidentale di tali problemi è ben diversa dalla percezione che ne ha la popolazione tibetana, la quale nei secoli di teocrazia lamaista non ha mai avuto accesso al dibattito teologico-politico, troppo occupata a sopravvivere e lavorare – in schiavitù – cercando di sottrarsi a punizioni corporali terribili se colta a sottrarre qualche briciola per sfamare la famiglia. Oggi, il popolo del Tibet, pur tenendo vive le proprie tradizioni religiose e il proprio folklore, si sente garantito dallo Stato ed è orientato a godere i vantaggi della modernità: percepisce un reddito minimo di base, manda i figli alle scuole statali e non all’ esclusiva Scuola del Monastero, utilizza ospedali e strutture sanitarie pubbliche che praticano anche la Medicina Tibetana, utilizza strade e la nuova ferrovia, si rivolge alla Giustizia statale, partecipa a feste con tende, cavalli, asini e scooterin valli remote, dove però è disponibile il servizio di Pronto Soccorso e l’ ambulanza per ogni evenienza.

NOTE

1.Per un quadro completo, anche se non aggiornato alle polemiche di oggi, rimando all’articolo di Giambattista Cadoppi, “Socialismo in Cina, il Tibet e la Via della Seta”, Marx 21, 20 Marzo 2019 Internazionale – Cina

2.Sam van Schaik, studioso di buddhismo e di Tibet antico alla British Library, Tibet. Storia di un popolo e di una nazione, Longanesi, 2015. Per van Schaik il Tibet è uno schermo: “Sul quale noi occidentali abbiamo proiettato le nostre fantasie, l’idea romantica di un territorio incorrotto, risparmiato dalla tecnologia, dove maestri spirituali sono in grado di rivelarci il significato dell’esistenza.”.

Albert Ettinger Tibet libero? Rapporti sociali e ideologia nel Paese del lamaismo reale, Zambon, Francoforte sul Meno, 2016. 

AA.VV. a cura di Filippo Bovo, i saggi contenuti in  Lo Xizang (Tibet) e la nuova Via della Seta, Anteo, 2016, hanno il pregio di affrontare sia argomenti storico-politici che argomenti dottrinali con ripercussioni politiche.

Chen QingyingStoria del Tibet. L’altopiano sul «tetto del mondo», scrigno di antica e mistica cultura Anteo, 2020

3.Negli studi sinologi e tibetologici  Alexandra David-Néel è una delle analiste, esploratrici e scrittrici più conosciute. Di particolare interesse il volume Antico Tibet, nuova Cina, pubblicato dall’autrice nel 1953, proprio a ridosso dei radicali sconvolgimenti politici che avvennero dopo la fondazione della Repubblica Popolare nel 1949. In questo testo fondamentale viene colto l’elemento della continuità storica dei rapporti tra Cina e Tibet.