di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Lo scorso 17 agosto il vicepresidente statunitense Joe Biden in visita a Pechino aveva affermato, di fronte al suo omologo cinese Xi Jinping, che gli Usa appoggiano fermamente la politica di “una sola Cina”, non sostengono l’indipendenza di Taiwan e, al contempo, ritengono il Tibet come parte inalienabile della Cina. Prese di posizione non certo nuove o sorprendenti, ma che hanno fatto esclamare alla resa di Washington, in difficoltà economica e politica, nei confronti del gigante comunista detentore di una larga fetta del debito pubblico a stelle e strisce, tanto da venire meno alla lotta per i diritti civili soprattutto in riferimento al Tibet.
Questa atmosfera di cordiale intesa e di riconferma di una indispensabile collaborazione, – che tuttavia non ha nascosto le divergenze sull’aggressione alla Libia e le preoccupazioni cinesi per nuovo modello di intervento “umanitario” imperialista – è stata rotta il 21 settembre dalla presentazione da parte della amministrazione Obama di un pacchetto di aiuti militari per 5,8 miliardi di dollari a Taiwan per l’ammodernamento della vecchia flotta di F16, l’addestramento dei piloti dell’aeronautica taiwanese e comprendente bombe intelligenti, missili teleguidati di alta precisione e strumenti per la guerra elettronica.
Se negli Usa, così come a Taipei, questo pacchetto è stato interpretato da più parti come un segno di cedimento nei confronti della Cina comunista – il provvedimento avrebbe dovuto comprendere la vendita di delle versioni avanzate di F16 C/D – a Pechino, invece, le reazioni sono state di durissima critica nei confronti di una attività egemonica che interferisce negli affari interni della Cina, in contraddizione con le stesse dichiarazioni di agosto. Tanto che il portavoce del Ministero degli Esteri Ma Zhaoxi ha ribadito che «esiste solo una sola Cina nel mondo e Taiwan fa parte del territorio cinese. Il problema di Taiwan fa parte degli affari interni cinesi, riguarda la sovranità, l’integrità territoriale e gli interessi fondamentali della Cina e il sentimento nazionale di 1,3 miliardi di cinesi»1. Il ministro degli Esteri Yang Jiechi ha invitato gli Usa a «correggere il loro errore rivedendo immediatamente il piano di vendita di armi a Taiwan»2. Il Forum per la pace e lo sviluppo delle due sponde in una dichiarazione ha chiesto alle autorità di Taiwan di «cessare immediatamente l’acquisto di armi dagli Usa per la salvaguardia della pace e l’approfondimento delle relazioni con il continente» e ha osservato che «la vendita di armi a Taiwan, la diffusione della “teoria della minaccia cinese” e la creazione deliberata di antagonismo tra le due sponde da parte degli Usa non hanno alcuna legittimità per qualsiasi ragione o pretesto, e sono del tutto attività egemoniche che hanno interferito negli affari interni della Cina»3. Dichiarazioni dello stesso tenore sono state quelle rilasciate da Wu Bangguo, presidente del Comitato Permanente dell’Assemblea popolare nazionale, durante una visita a Pechino di una delegazione di parlamentari statunitensi.
Nell’attesa che il pacchetto sia approvato dal Congresso, la crescente tensione porta alla memoria la rottura delle relazioni militari tra le due potenze avvenuta solo lo scorso anno dopo l’annuncio Usa delle vendita a Taiwan di un carico di armi per circa 6.5 miliardi di dollari, e chiusa solo dopo la visita ufficiale di Hu Jintao a Washington. Nel 1996, invece, la decisione di Pechino di dare vita a massicce manovre militari in occasione delle elezioni presidenziali a Taiwan aveva avuto come risposta da Clinton l’invio nello stretto di Formosa di due delle più importanti portaerei della VII flotta.
TAIWAN, LA STORIA DI UNA FERITA ANCORA APERTA
Per comprendere la durezza della reazione cinese, ancorata alla decisa difesa della propria sovranità, dobbiamo ripercorrere, anche se brevemente e senza eccessivo approfondimento, la storia dei rapporti fra la Cina comunista continentale e la Cina nazionalista insulare e calarla nello sviluppo del contesto internazionale.
Quando nell’orrobre del 1945 le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek, comandate dal generale Che Yi, fanno il loro ingresso a Taipei si chiude la lunga parentesi dell’occupazione giapponese dell’isola iniziata nel 1895 con il Trattato di Shimonoseki seguito alla sconfitta della Cina imperiale dei Qing nella guerra contro il Giappone.
La sovranità cinese su Taiwan – risalente al XVII secolo – era stata precedentemente stabilita dalle potenze alleate nella Dichiarazione del Cairo (1943) e ribadita nella Dichiarazione di Potsdam (1945).
Lo sviluppo economico dell’isola avvenuto durante l’occupazione aveva dato il via alla formazione, pur in una situazione di discriminazione della popolazione locale, di una élite che, al termine della guerra nel Pacifico, chiede l’indipendenza o quanto meno una forte autonomia da Pechino. I nazionalisti vedono, invece, in Taiwan una fonte di risorse da spremere per far fronte alla guerra civile contro le forze comuniste di Mao Zedong. Propensi a vedere negli abitanti dei privilegiati, quando non dei traditori, i nazionalisti danno il via ad una vera e propria politica di saccheggio ai danni delle proprietà pubbliche e private e cacciano dai posti di lavoro quasi 40 mila funzionari taiwanesi. Nel 1947 scoppia una ribellione generalizzata, conosciuta con il nome di “incidenti del 28 febbraio”, al grido di «Via i tiranni militari» che costringe i nazionalisti del Guomindang ad inviare rinforzi e a scatenare una feroce repressione con uccisioni sommarie e una campagna di liquidazione di nemici politici che colpisce insegnanti, medici, avvocati e studenti. Le vittime del terrore bianco secondo alcune fonti raggiungono la quota di 30 mila.
Dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese, la Taiwan appena pacificata diventa l’ultimo rifugio di Chiang Kai-shek e delle truppe in rotta del Guomindang. Da questo momento la Repubblica di Cina si arroga il diritto di unica rappresentante legittima della Cina. Posizione per altro condivisa da gran parte della comunità internazionale tanto che la Cina nazionalista siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu come rappresentante ufficiale del popolo cinese. Fino al 1991 la posizione del governo nazionalista è quella per la quale la sovranità si estende sull’intero territorio cinese «momentaneamente occupato dai banditi comunisti»4.
Nel 1949 il presidente nazionalista instaura la legge marziale – resterà in vigore fino al 1987 delineando un caso unico nella storia – che sospende le libertà di assemblea e associazione, proibisce la formazione di partiti politici in opposizione al Guomindang e censura la stampa. Misure permanenti, inoltre, concedono al presidente vastissimi poteri e sospendono la rielezione degli organi nazionali di rappresentanza.
L’iniziale neutralità degli Usa di fronte alla fase finale della guerra civile cinese – ancora agli inizi del 1950 il segretario di Stato Acheson rivela che «lo spiacevole ma ineluttabile fatto è che la guerra civile in Cina è fuori dal controllo del governo degli Stati Uniti»5 – è abbandonata con lo scoppio della guerra di Corea del giugno successivo a favore di una politica che vede in Taiwan uno dei bastioni della politica di contenimento della minaccia comunista in Asia. Truman dichiara subito la neutralità dello stretto di Formosa e invia la VII flotta con l’ordine di prevenire qualunque attacco da parte cinese all’isola, chiedendo anche la fine di ogni provocazione da parte di Chiang Kai-shek.
La politica del segretario di Stato J. Foster Dulles prevede la costituzione di una serie di patti militari per stringere da vicino la Cina maoista configurando una sorta di assedio: a partire dal 1951 le alleanze coinvolgono, oltre alla presenza ormai consolidata nelle Filippine, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del sud. Nell’ottobre del 1954 un patto militare, volto alla difesa del Pacifico e che prevede l’installazione di forze e armamenti statunitensi, viene concluso con Taiwan. Nello stesso anno il dispositivo militare a stelle e strisce nell’Asia sudorientale coinvolge anche Filippine e Thailandia (SEATO). Fino alla fine degli anni ‘70 per gli Stati Uniti, come per il governo nazionalista di Taipei, quello di Chiang Kai-shek, oltre ad essere l’unico regime legittimo su suolo cinese, viene indicato come «Cina libera» (Ziyou zhongguo). I cospicui finanziamenti di Washington – più della metà dei quali sono indirizzati a scopo militari e di difesa – si rivelano indispensabili per il decollo economico dell’isola.
L’apertura nei primi anni ’70 del dialogo – in funzione antisovietica ma teso anche a favorire lo sviluppo economico cinese – tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese risulta fatale per il regime di Taiwan: nel 1971 la delegazione della Repubblica di Cina lascia l’Assemblea Generale dell’Onu poco prima che venga votata la risoluzione 2578 che espelle i rappresentanti di Chiang Kai-shek da posizioni indebitamente occupate e assegna il seggio alla Cina popolare. Nel 1972, durante una visita a Pechino, Nixon e Mao siglano il «Comunicato di Shanghai» che con una formula un poco ambigua – viene definito anche accordo del disaccordo – sanciva l’esistenza di una sola Cina con Taiwan come parte di essa. Mentre per nella parte cinese del comunicato si sottolinea che il governo della repubblica popolare è il solo governo legale della Cina e Taiwan è una sua provincia, la cui liberazione è un affare interno, in quella americana gli Usa prendono atto che su entrambi i lati dello stretto si sostiene che esiste una sola Cina e che Taiwan è parte di essa6.
Mentre si normalizzano in rapporti con Pechino, nel 1979 negli Usa – una legge interna quindi – è approvato il «Taiwan Relations Act» che impegna Washington alla difesa dell’isola quale parte dell’Oceano Pacifico occidentale in caso di attacco da parte della Cina comunista. Nel 1982 un comunicato congiunto cino-americano sancisce l’impegno statunitense a ridurre gradualmente la vendita di armi a Taiwan.
I rapporti tra le due sponde della Cina, a partire dai primi anni ’90, si sono intensificati e sviluppati, nell’ambito della condivisione, tri i due governi e di due partiti, del concetto di “Unica Cina” (yi ge Zhongguo) e senza compromettere le posizioni dei rispettivi governi, attraverso organizzazioni come la Straits Exchange Foundation di Taiwan e la Association for Relations Across the Taiwan Straits, entrambe in sostanza sotto il controllo dei rispettivi governi. Su questo terreno ha preso vita il cosiddetto «1992 Consensus» in base al quale Pechino e Taipei riconoscono l’esistenza di una sola Cina, anche se permane la reciproca rivendicazione di sovranità sull’intero paese. Su questa stessa linea – dopo la parentesi della assenza di contatti durante l’amministrazione di Jiang Zemin e l’indipendentista presidenza taiwanese di Chen Shui-bian (Partito democratico progressista) che puntava a relazioni tra Stato a Stato – si muove l’attuale dirigenza comunista rappresentata da Hu Jintao. La presa di posizione del presidente di Taiwan Li Teng-hui del 1999 secondo la quale «le relazioni tra la Repubblica di Cina e il continente sono da considerarsi tra Stato e Stato o quantomeno relazioni speciali tra Stato e Stato», provocando da Pechino l’accusa di essere una provincia ribelle7, rivela comunque la persistenza di una corrente di taiwanesi che considera ormai un dato di fatto l’indipendenza dell’isola.
Dure reazioni, sia a Washington che nella Taipei dell’indipendentista Chen Shui-bian, sono seguite alla approvazione, nel marzo del 2005, della Legge Anti-secessione che, in 10 articoli, riassume la posizione di Pechino nei confronti della questione di Taiwan. Indirizzata a realizzare le aspirazioni del popolo cinese ad una riunificazione pacifica e alla difesa della integrità nazionale nell’ambito di una sola Cina nel mondo, la legge prevede la dura condanna di forze secessioniste che mirano alla indipendenza di Taiwan sotto qualsiasi nome e l’utilizzo di mezzi non pacifici e altre misure necessarie per proteggere la sovranità e l’integrità territoriale cinese.
La continuazione del dialogo tra le due rive, rafforzato da una crescente complementarietà delle due economie e da continui interscambi, rende non certo peregrina l’ipotesi della riunificazione sulla base del principio “un paese, due sistemi”, vito che proprio la legge contro la secessione precisa, nel suo articolo 5, che Taiwan potrà godere di autonomia e adottare un sistema diverso da quello continentale.
DURE REAZIONI SUL QUOTIDIANO DEL POPOLO
La rapida digressione sulla storia della relazioni tra Cina popolare e Cina nazionalista alla luce dei cambiamenti del quadro dei rapporti internazionali, ci permette di comprendere con maggiore chiarezza tanto le reazioni di esponenti del governo della Repubblica popolare quanto le presi di posizione di analisti e studiosi sulle colonne del Quotidiano del Popolo, voce ufficiale e prestigiosa di Pechino, che in questi giorni ha dedicato un vero e proprio speciale alla questione, così da renderne chiare delicatezza e importanza per i dirigenti comunisti.
Ad essere messe sotto accuse sono le persistenti tendenze egemoniche degli Stati Uniti nel sud-est asiatico e l’utilizzo di Taiwan come spina nel fianco della Cina popolare e strumento di contenimento della crescente proiezione esterna della stessa. Tra le numerose presenti, abbiamo scelto quelle che esprimono la maggiore preoccupazione unità alla riflessione sul contesto dei rapporti cino-americani.
Peng Guangqian, esperto cinese di strategie militari, oltre a condannare la decisione di Obama come un grave attentato agli affari interni della Cina e alla sua sicurezza, si è spinto a chiedere l’annullamento proprio del «Taiwan Relations Act» (TRA) in quanto legge interna americana: «Il TRA pretende di fornire delle armi “difensive” ad alcune forze separatiste di un paese sovrano. Questa legge interna degli Stati Uniti è utilizzata per intervenire negli affari interni di un altro paese e per andare contro le norme del diritto internazionale. Possiamo dire che fin dal suo concepimento, il TRA è illegale e invalido»8. L’articolo termina con una tutt’altro che velata accusa all’amministrazione Obama, alla luce dei rapporti intessuti a partire dagli anni ’70: «A quell’epoca, la normalizzazione delle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti aveva bisogno di una grande saggezza e di un grande coraggio. E oggi, la realizzazione di un sano sviluppo delle relazioni tra i due paesi chiede ancora più una grande forza d’animo e una ferma determinazione strategica volta ad eliminare ogni ostacolo che possa nuocere agli interessi fondamentali degli Stati Uniti per l’apertura di una nuova epoca. L’anziano presidente Nixon ce la fece ad agire in questo senso. E il presidente Obama?».
Sulla stessa linea si muove anche Wang Xinjun, ricercatore dell’Accademia delle Scienze militari dell’Armata di Liberazione popolare della Cina, per il quale bisogna tenere conto del fatto che la vendita di armi a Taiwan riflette una chiara strategia degli Stati Uniti riguardo alla Cina che si delinea in alcuni chiari punti: «Primo, il tentativo americano di fare di Taiwan un punto cruciale nella loro strategia dell’Asia dell’Est e di considerare Taiwan come un contrappeso per mantenere la stabilità strategica in Asia dell’Est, non è cambiato. […] Secondariamente, l’idea degli Stati Uniti di fare di Taiwan un pezzo di scambio destinato a contenere lo sviluppo della Cina. […] Terzo, l’obiettivo degli Stati Uniti di fare di Taiwan il principale ostacolo per impedire alla marina cinese di entrare nell’Oceano Pacifico […]. Quarto, il tentativo degli Stati Uniti di incoraggiare dietro le quinte gli “indipendentisti di Taiwan” e di dividere la Cina»9.