Taiwan-Cina: un quadro complesso

cina taiwan mappadi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Contesto e molteplici attori in campo fanno in modo che gli avvenimenti politici di Taiwan non possano considerarsi solo un fatto interno, ancora di più se si tratta di elezioni presidenziali. La vittoria nella corsa alla presidenza della signora Tsai Ing-wen e la conquista della maggioranza parlamentare nello Yuan legislativo, dopo otto anni di maggioranza assoluta dei nazionalisti del Kuomintang, potrebbe avere importanti ripercussioni nel rapporto tra Pechino e Taiwan, dopo anni di crescente “integrazione” economica tra le due sponde di quella che resta ufficialmente un’ “unica Cina”. E proprio questa attrazione del “piccolo” verso il “gigante” è tra la cause – ma c’è tutto il peso di una situazione economica di rallentamento – dell’affermazione di un Partito democratico progressista che, nel suo statuto, prevede ancora l’indipendenza come sbocco politico dell’isola, il che equivale ad un sostanziale rifiuto dell’equilibro trovato nella formula del “1992 Consensus” (accordo sull’esistenza di un’unica Cina). 

Stando alle prime dichiarazioni della nuova presidente qualche tensione potrebbe esserci: “il popolo taiwanese ha eletto un governo che difenderà la sovranità di Taiwan”, aggiungendo poi che “il nostro sistema democratico, la nostra identità nazionale e il nostro spazio internazionale devono essere rispettati”.

La risposta della Pechino popolare non si è fatta attendere con toni tesi a rimarcare i pilastri della convivenza raggiunta: “Continueremo ad aderire al 1992 Consensus e ad opporci decisamente a qualsiasi forma di attività secessioniste che cercano l’indipendenza di Taiwan. Sulle grandi questioni di principio, tra le quali la salvaguardia e l’integrità della sovranità internazionale la nostra volontà è salda e il nostro atteggiamento coerente. […] Insieme con la gente di entrambi i lati dello Stretto di Taiwan, siamo disposti a mantenere la una comune prospettiva politica, lo sviluppo pacifico delle due sponde dello Stretto e la pace e la stabilità attraverso lo Stretto, e creare insieme un futuro luminoso per il rilancio della cinese nazione” [1]. 

Se da una parte è fuor di dubbio – come sottolinea lo studioso Michelangelo Cocco [2] – che qualcosa non funziona nell’offensiva di fascino di Pechino nei confronti del popolo di Taiwan, soprattutto tra i più giovani (è stato eletto Huang Kuo-chang, uno dei leader del Movimento dei girasole che nel 2014 aveva occupato proprio il parlamento per chiedere più trasparenza nei negoziati commerciali con Pechino, e ora al comando del New Power Party), dall’altra, sempre Pechino ha nelle mani una forza di dissuasione non indifferente, frutto di una parallela e più concreta attrazione economica: dal 2008, data del ritorno al governo dei Kmt, sono stati siglati oltre 20 accordi, sull’isola sono giunti centinaia di investimenti e un flusso impressionante di turisti (“stranamente” diminuito in coincidenza con le elezioni) che hanno alimentato la locale industria turistica. Tra tutti gli accordi spicca quello siglato nel 2010, conosciuto come “Economic Cooperation Framework Agreement”, che ha creato un’area di commercio preferenziale nel settore dei servizi, offrendo a Taiwan indubbi benefici in un mercato in crescita (i dai ufficiali rilasciati da Pechino per il 2015 parlano di un settore dei servizi che ha contribuito per il 50,2% al Pil complessivo). Accanto a questo si è instaurata – ed ha tenuto per l’accettazione di Pechino – proprio a partire dal 2008 una sorta di “tregua diplomatica” che va visto le due sponde bloccare la corsa al riconoscimento internazionale dei rispettivi governi. Corsa che vedeva la Cina popolare con un passo di marcia più deciso.

E qualche tensione potrebbe esserci anche perché, come ricordato all’inizio, c’è un contesto regionale di tensioni crescenti con attori intenzionati a sfruttarle in un dispositivo politico-militare-economico di accerchiamento alla Cina. Gli Stati Uniti – e con essi il Giappone – potrebbero vedere di buon grado un governo a Taipei meno accomodante nei confronti di Pechino e, nell’immediato, intenzionato a rafforzare i legami con entrambi, utilizzando a questo scopo un ingresso nella Trans Pacific Partnership per dare alternative alla dipendenza all’economia cinese.

Un assaggio già l’abbiamo avuto. Alla vigilia delle elezioni, e poco più di un mese dall’ingresso del cacciatorpediniere Uss Lassen nelle 12 miglia al largo di Subi Reef (nelle isole Nansha/Spratly), rivendicato da Pechino, l’amministrazione Obama ha annunciato la volontà di procedere alla consegna di quattro fregate a Taiwan [3], lanciando un assist politico ad una forza politica (con spinte indipendentiste) che tutti i sondaggi davano come vincitrice nella corsa alle presidenziali.

NOTE

1 Xinhua, Mainland highlights 1992 Consensus as Tsai elected Taiwan leader, 17 gennaio 2016
2 Cocco M., Quo vadis Taiwan, Cinaforum.net, 16 gennaio 2016
3 Reuters, Obama expected to move on Taiwan arms sales before year-end, 15 dicembre 2015

TAIWAN-CINA: UN QUADRO COMPLESSO

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

 

Contesto e molteplici attori in campo fanno in modo che gli avvenimenti politici di Taiwan non possano considerarsi solo un fatto interno, ancora di più se si tratta di elezioni presidenziali. La vittoria nella corsa alla presidenza della signora Tsai Ing-wen e la conquista della maggioranza parlamentare nello Yuan legislativo, dopo otto anni di maggioranza assoluta dei nazionalisti del Kuomintang, potrebbe avere importanti ripercussioni nel rapporto tra Pechino e Taiwan, dopo anni di crescente “integrazione” economica tra le due sponde di quella che resta ufficialmente un’ “unica Cina”. E proprio questa attrazione del “piccolo” verso il “gigante” è tra la cause – ma c’è tutto il peso di una situazione economica di rallentamento – dell’affermazione di un Partito democratico progressista che, nel suo statuto, prevede ancora l’indipendenza come sbocco politico dell’isola, il che equivale ad un sostanziale rifiuto dell’equilibro trovato nella formula del “1992 Consensus” (accordo sull’esistenza di un’unica Cina).

 

Stando alle prime dichiarazioni della nuova presidente qualche tensione potrebbe esserci: “il popolo taiwanese ha eletto un governo che difenderà la sovranità di Taiwan”, aggiungendo poi che “il nostro sistema democratico, la nostra identità nazionale e il nostro spazio internazionale devono essere rispettati”. La risposta della Pechino popolare non si è fatta attendere con toni tesi a rimarcare i pilastri della convivenza raggiunta: “Continueremo ad aderire al 1992 Consensus e ad opporci decisamente a qualsiasi forma di attività secessioniste che cercano l’indipendenza di Taiwan. Sulle grandi questioni di principio, tra le quali la salvaguardia e l’integrità della sovranità internazionale la nostra volontà è salda e il nostro atteggiamento coerente. […] Insieme con la gente di entrambi i lati dello Stretto di Taiwan, siamo disposti a mantenere la una comune prospettiva politica, lo sviluppo pacifico delle due sponde dello Stretto e la pace e la stabilità attraverso lo Stretto, e creare insieme un futuro luminoso per il rilancio della cinese nazione”.[1]

 

Se da una parte è fuor di dubbio – come sottolinea lo studioso Michelangelo Cocco[2] – che qualcosa non funziona nell’offensiva di fascino di Pechino nei confronti del popolo di Taiwan, soprattutto tra i più giovani (è stato eletto Huang Kuo-chang, uno dei leader del Movimento dei girasole che nel 2014 aveva occupato proprio il parlamento per chiedere più trasparenza nei negoziati commerciali con Pechino, e ora al comando del New Power Party), dall’altra, sempre Pechino ha nelle mani una forza di dissuasione non indifferente, frutto di una parallela e più concreta attrazione economica: dal 2008, data del ritorno al governo dei Kmt, sono stati siglati oltre 20 accordi, sull’isola sono giunti centinaia di investimenti e un flusso impressionante di turisti (“stranamente” diminuito in coincidenza con le elezioni) che hanno alimentato la locale industria turistica. Tra tutti gli accordi spicca quello siglato nel 2010, conosciuto come “Economic Cooperation Framework Agreement”, che ha creato un’area di commercio preferenziale nel settore dei servizi, offrendo a Taiwan indubbi benefici in un mercato in crescita (i dai ufficiali rilasciati da Pechino per il 2015 parlano di un settore dei servizi che ha contribuito per il 50,2% al Pil complessivo). Accanto a questo si è instaurata – ed ha tenuto per l’accettazione di Pechino – proprio a partire dal 2008 una sorta di “tregua diplomatica” che va visto le due sponde bloccare la corsa al riconoscimento internazionale dei rispettivi governi. Corsa che vedeva la Cina popolare con un passo di marcia più deciso.

 

E qualche tensione potrebbe esserci anche perché, come ricordato all’inizio, c’è un contesto regionale di tensioni crescenti con attori intenzionati a sfruttarle in un dispositivo politico-militare-economico di accerchiamento alla Cina. Gli Stati Uniti – e con essi il Giappone – potrebbero vedere di buon grado un governo a Taipei meno accomodante nei confronti di Pechino e, nell’immediato, intenzionato a rafforzare i legami con entrambi, utilizzando a questo scopo un ingresso nella Trans Pacific Partnership per dare alternative alla dipendenza all’economia cinese.

 

Un assaggio già l’abbiamo avuto. Alla vigilia delle elezioni, e poco più di un mese dall’ingresso del cacciatorpediniere Uss Lassen nelle 12 miglia al largo di Subi Reef (nelle isole Nansha/Spratly), rivendicato da Pechino, l’amministrazione Obama ha annunciato la volontà di procedere alla consegna di quattro fregate a Taiwan[3], lanciando un assist politico ad una forza politica (con spinte indipendentiste) che tutti i sondaggi davano come vincitrice nella corsa alle presidenziali.

 

 



[1]     Xinhua, Mainland highlights 1992 Consensus as Tsai elected Taiwan leader, 17 gennaio 2016

[2]     Cocco M., Quo vadis Taiwan, Cinaforum.net, 16 gennaio 2016

[3]     Reuters, Obama expected to move on Taiwan arms sales before year-end, 15 dicembre 2015