Sovversioni colorate: è arrivato il momento della Cina?

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

chi-hong-kong-protests-20140929L’offensiva dell’imperialismo statunitense è generale – e segnala quanto sia lenta e irta di ostacoli la transizione al multipolarismo – e tocca, quasi in contemporanea, i suoi due principali competitori globali: prima la Russia, ora la Cina popolare. E avviene proprio mentre i rapporti politici, economici e militari tra Mosca e Pechino si fanno sempre più stretti e rivelano una crescente capacità di attrazione nei confronti di altre potenze emergenti, India su tutte.

Le proteste in atto a Hong Kong, organizzate da quel Movimento pandemocratico al quale tante cancellerie e governi occidentali hanno lisciato il pelo (incontri al Consolato Usa di Hong Kong, donazioni da Oltreoceano, dubbi legami di alcuni magnati con la Cia, programmi di addestramento di futuri leader della protesta, e l’azione di educazione politico-culturale dell’Hong Kong American Center presieduto dall’ex diplomatico statunitense Morton Holbrook)1 si configura come l’ultima, in ordine di tempo, manifestazione sovversiva delle “rivoluzioni colorate”, che da qualche lustro colpiscono con precisione chirurgica in zone strategiche i governi non allineati – puntualmente descritti come “regimi sanguinari” – in nome della libertà, della non-violenze e dei diritti.

È successo in Libia, si tenta ancora in Siria, approfittando dell’ennesima – ma poco credibile – crociata contro l’estremismo islamico, e si è dispiegato, con successo iniziale, con il movimento di piazza Maidan a Kiev in funzione anti-russa; tutto in un quadro di massiccio, pervicace e corale appoggio dei principali media internazionali.

E ora pare essere arrivato il momento di Hong Kong presentando al pubblico l’ennesima riedizione della sempiterna lotta del “bene” contro il “male”, della “libertà” contro “l’oppressione”, riesumando dal cassetto degli attrezzi dell’anticomunismo il precedente di piazza Tienanmen. Da noi ci ha già pensato la Repubblica – quando vogliamo noi italiani siamo puntuali come i treni svizzeri! – a definire i campi del confronto, utilizzando definizioni che – non è un caso – strizzano l’occhio al variegato universo della sinistra radicale (e a-ideologica) assai sensibile al dispiegarsi di movimenti di protesta “dal basso” e abituata alla denuncia del tradimento della Cina post-maoista: “l’ex cortina di bambù rischia di trasformarsi nella nuova frontiera armata dello scontro tra la dittatura del capital-comunismo cinese e la democrazia del consumismo finanziario occidentale”. Perché la sinistra dovrebbe difendere, contro l’avanzata delle giovani speranze delle democrazia, un Paese simbolo dello sfruttamento capitalista? Scientifica capacità di cogliere e sfruttare le tante contraddizioni presenti nello schieramento antagonista.

Eppure il discorso tenuto da Obama a West Point nel maggio scorso era stato assai chiaro, anche se gran parte della stampa aveva preferito soffermarsi sulle innovazioni militari. Il primo presidente afro-americano della storia statunitense aveva sottolineato bene in quale campo la “potenza di fuoco” di Washington fosse ancora inarrivabile per gli avversari strategici: “I nostri valori ispirano i leader nei parlamenti e dei movimenti scesi nelle piazze di tutto il mondo. […] La nostra capacità di plasmare l’opinione pubblica mondiale ha contribuito a isolare la Russia. Grazie alla leadership americana il mondo ha immediatamente condannato le azioni russe, l’Europa e il G7 si sono uniti a noi nell’imporre sanzioni, la Nato ha rafforzato il nostro impegno per gli alleati dell’Europa orientale […]”2. Un vero e proprio esercito di riserva costituito da partiti amici, fondazioni, giornali e organizzazioni non governative (la “società civile”) può essere mobilitato per indebolire ogni opposizione.

La speranza è ora rappresentata dai giovani di “Occupy central” e dagli studenti scesi in piazza a Hong Kong per chiedere elezioni libere, senza alcun controllo da parte di Pechino3. Il che equivale a chiedere la fine della centralità del Partito comunista cinese in una parte – la più esposta alle influenze straniere – del suo territorio, mettendone in discussione il ruolo di guida, con effetti pericolosi per la tenuta complessiva della Cina popolare, dal punto di vista politico e sociale, con ovvie ripercussioni su una possibile riunificazione con Taiwan in nome della prassi del “Un Paese due Sistemi”. L’ipotesi – assai realistica – che gli stessi animatori dell’originale “Occupy Central” siano stati scavalcati dal movimento di protesta e costretti ad inseguirla nella sua radicalizzazione non è certo una buona notizia e rende possibile lo scoppio di violenze al fine di provocare un intervento più vigoroso delle forze dell’ordine o dell’esercito cinese. Si segnalano, ormai, le costruzioni delle prime barricate, l’avvio di un organizzato servizio di rifornimento (cibo e attrezzature) ai manifestanti, mentre avanza l’ipotesi da parte di due altre organizzazioni (Scholarism4 e la Federation of Student) di un ultimatum (il 1° ottobre) al governo sotto la minaccia di un’ulteriore estensione della protesta.

L’analisi sugli avvenimenti della ex colonia britannica – e tra i manifestanti compaiono proprio le bandiere della dominazione coloniale, durante la quale ad avere diritto di voto era solo la Corona britannica! – deve essere inquadrata nel più ampio teatro asiatico. Mi riferisco al progressivo scatenarsi di attentati nell’altra periferia – storicamente sensibile – dell’ex Celeste impero, quello Xinjiang, da anni al centro della proiezione economica e politica di Pechino lungo la rinnovata “Via della seta”, dove sono in azione anche gruppi dell’estremismo islamico che si sono formati in un laboratorio della sovversione quale è stata ridotta parte della Siria; ma soprattutto al Pivot to Asia messo in pratica – anche se con qualche difficoltà – dall’amministrazione Obama, con tanto di riattivazione di alleanze e collaborazioni militari in funzione anti-cinese (Filippine, Australia) e via libera alla rinascita del nazionalismo giapponese in funzione di “vice-sceriffato” (per ora controllabile) nell’Asia orientale. Ma la Cina popolare va colpita e ridimensionata, costringendola a volgere le spalle all’esterno per una dispendiosa campagna di controllo del fronte interno, perché potenza politica ed economica (e presto anche militare) al centro della costruzione di una fitta rete di “resistenza” (accordo politico con la Russia, accordo politico economico in ambito Brics su nuova architettura internazionale in campo politico e finanziario, prossimo allargamento della Shanghai Cooperation Organisation all’India, rapporti sempre più stretti con Africa e America Latina) all’unipolarismo militare statunitense e al predominio della “catechesi” liberista. Non da ultimo la storica “prima volta” dell’esercitazione militare con l’Iran in una zona assai calda, e storicamente fulcro della presenza militare di Washington, come lo stretto di Hormuz, di fronte alla Us Navy stanziata nel Bahrein, punto di passaggio strategico per i rifornimenti di petrolio. Per il Global Times, giornale di stampo nazionalista legato al Quotidiano del Popolo, “l’esercitazione è il segnale dell’importanza della partnership con l’Iran al fine di evitare un blocco dello Stretto di Hormuz da parte degli Stati Uniti”; prospettiva confermata dall’analista militare Huang Dong: la Cina non sta provocando gli Stati Uniti, ma l’invio di navi da guerra nel Golfo Persico serve a far sapere a Washington che la marina cinese ha la capacità di difendere lo Stretto di Hormuz e l’Oceano Indiano5.

In questo quadro Hong Kong potrebbe essere utilizzato come “incubatore” – espressione al The Economist – di una possibile destabilizzazione della Cina intera che metta fine alla pericolosa anomalia di un Paese a guida comunista in grado di conquistare sempre più consenso a livello internazionale.

NOTE

1Si rinvia a “Pro-Beijing Media Accuses Hong Kong Student Leader of U.S. Government Ties”, Wall Street Journal, 25 settembre 2014.
2Il discorso è stato riportato integralmente dal Washington Post nell’edizione online del 28 maggio 2014.
3Sullo specifico si rinvia al precedente “Hong Kong, colonialismo di ritorno e speranze di rivoluzione colorata”, https://www.marx21.it/internazionale/cina/24511-hong-kong-colonialismo-di-ritorno-e-speranze-di-qrivoluzioneq.html
4E di sospetti legami con gli Stati Uniti è accusato proprio il leader di Scholarism, Joshua Wong.
5Si veda “Cina e Iran, cooperazione nei mari lontani”, www.lantidiplomatico.it