di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
In fin dei conti è bastato poco per gridare all’ennesimo tradimento consumato dal “riformista” Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese, nonché segretario generale del Partito comunista cinese. È bastato che la “bolla azionaria” – quella che avrebbe dovuto causare il tracollo dell’economia cinese e l’apparire di un 1929 con gli occhi a mandorla – si sgonfiasse un poco perché si tornasse a puntare il dito contro il dirigismo e lo statalismo cinese; e, infine, contro l’eccesso di “ideologismo” che ancora impera nelle stanze di Zhongnanhai. Eppure sarebbe strano il contrario: a governare la potenza asiatica è un partito comunista che, nonostante l’approfondimento della riforma economica e dell’apertura ai mercati internazionali, ha sempre ribadito la centralità dell’economia pubblica e la strategicità dei suoi colossi statali, vero e proprio braccio “armato” della proiezione internazionale di Pechino.
È bastato che il governo intervenisse con decisione per stabilizzare il mercato azionario cinese dopo giorni di pesanti perdite nella borsa di Shanghai, tanto da segnare un calo di oltre il 30% rispetto a giugno al termine di una crescita del 150% fatta registrare in un anno. Per il Daily Telegraph tutto era chiaro: altro che pantomima greca: “mentre gli occidentali si stanno concentrando sulla Grecia, una crisi finanziaria potenzialmente molto più significativa si sta sviluppando dall’altra parte del Mondo.
Quella che alcuni stanno iniziando a chiamare il 1929 cinese”. Fin da subito, tuttavia, esperti ed economisti avevano gettato acqua sul fuoco, e tra questi Qu Hongbin [1], capo economista di HSBC per la Cina, che in una nota aveva specificato che “gli effetti del mercato finanziario in Cina sono minori di quanto si creda, perché le azioni rappresentano meno del 15% dei beni in possesso delle famiglie cinesi e le emissioni azionarie meno del 5% del finanziamento complessivo delle società”, e che, inoltre, “per la famiglia media cinese, la crescita dei consumi è guidata principalmente dalla crescita del reddito, non da variazioni della ricchezza. La maggior parte delle famiglie dirotta la propria ricchezza in contanti e depositi, non in azioni”. Poche preoccupazioni anche sul fronte delle aziende perché, sempre secondo Qu Hongbin, “la maggior parte di loro non si basano sui titoli azionari come fonte di finanziamento, e una parte enorme del settore bancario cinese non è strettamente collegato al mercato azionario”. Infine, sia aziende che privati, vedono nel mercato azionario come occasione a breve termine per profitti, e non come una indicazione del benessere, segnando una forte diversità rispetto all’opinione prevalente in occidente”. Sulla stesa linea si è trovato pure l’Economist: le famiglie cinesi investono poco nel mercato azionario e quest’ultimo rappresenta soltanto il 15% del Pil [2].
Ma veniamo alla pietra dello scandalo, vale a dire agli interventi decisi dal Consiglio di Stato (il governo) e che, sia detto per inciso, hanno avuto subito positivi riscontri: il divieto agli investitori che hanno più del 5% del pacchetto di una società di vendere titoli per i prossimi sei mesi; mobilitazione di numerose agenzie d’intermediazione e gestori di fondi per l’acquisto di azioni per un valore di miliardi di dollari e, infine, l’invito rivolto alle maggiori aziende di Stato (SOE) di non vendere azioni e di acquistarne il più possibile per la salvaguardia della stabilità del mercato. Ed ecco che, secondo diversi commenti apparsi sull’autorevole China Morning Post [3] (Hong Kong) e, più tra le righe, sull’Economist, il tanto sbandierato impegno a favore del “ruolo decisivo” del mercato si è rivelato un bluff di fronte alla necessità di salvaguardare il potere e il dominio del partito comunista. Un “intervento sfrenato” del governo ha così messo “un grosso punto interrogativo sull’impegno del leader di abbracciare pienamente il capitalismo di mercato”. Ed ecco la sentenza per lesa maestà di mercato che condanna un governo (quello espressione del partito comunista cinese) che non riesce proprio ad abbandonare la sua storia e la sua ideologia: “La Cina non ha mai tracciato una linea chiara nella scelta tra un’economia pianificata di stampo maoista e il libero mercato, nonostante tre decenni di riforma graduale di natura capitalista. Il governo centrale continua ad abbracciare alcuni elementi della libera economia, ma l’ultimo intervento dimostra che si sta ancora camminando sul filo del rasoio tra le due ideologie opposte”. Insomma, che aspetta il partito comunista a diventare un normale partito liberale? E quando la si smetterà di richiedere l’intervento della politica e dello Stato di fronte al fallimento del mercato?
Testardi questi cinesi!
1. Everyone freaking out about China’s stock-market crash is missing one thing, Business Insider, 7 luglio 2015
2. The Economist, China embraces the markets, 11 luglio 2015
3. South China Morning Post, The visible hand: how far will China go to embrace the free market?, 8 luglio 2015