Pechino tra accerchiamento e difesa della sovranità

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

US-China flagsNel novembre del 2011 avevamo svolto alcune riflessioni sull’annuncio dell’amministrazione Obama relativo alla nuova centralità dell’Asia Pacifico per gli Stati Uniti [1]. Il segretario di Stato Hillary Clinton aveva sottolineato l’indispensabilità della “leadership americana” come garanzia di sicurezza per la navigazione nel Mar Cinese Meridionale, mentre Obama stesso annunciava la “decisione strategica di rilanciare il ruolo americano nell’area dell’Asia Orientale e del Pacifico” con conseguenti sforzi per ridefinire la regione e il suo futuro sulla base dei principi “propri” della superpotenza statunitense. Il messaggio era quanto mai chiaro: ad essere enunciata era una nuova politica di contenimento ai danni della crescente potenza politica ed economica della Cina Popolare. Da qui la contemporanea decisione di aprire una base militare a Darwin nel nord dell’Australia entro la fine del 2012 con l’arrivo di 250 marines destinati a salire a 2500 (Marine Air and Ground Task Force).

All’inizio del 2012 si profila, invece, all’orizzonte una collaborazione sempre più stretta tra Usa e Filippine attraverso esercitazioni militari congiunte più frequenti e un aumento delle truppe presenti nel paese (ad oggi la presenza è limitata ai 600 soldati delle US Special Forces impegnati accanto all’esercito filippino nelle operazioni di antiterrorismo). Il senatore filippino Richard J. Gordon, nel febbraio di quest’anno, aveva espresso l’augurio di un più stretto legame militare perché “gli Usa hanno perso terreno in questa regione e la Cina sta cominciando a mostrare i muscoli e ha rapporti non buoni con i vicini“.

Considerazioni che recentemente ha ribadito, in uno studio sullo sviluppo militare cinese, il più composto Economist: “Il rafforzamento militare della Cina ha fatto squillare un campanello d’allarme in Asia” e il “nuovo orientamento strategico reso pubblico a gennaio da Obama e dal suo segretario alla Difesa Leon Panetta ha confermato ciò che già tutti a Washington sapevano: che il passaggio delle priorità verso l’Asia era in ritardo e in corso. […] Distratta dalle campagne in Iraq e Afghanistan, l’America ha trascurato la regione economicamente più dinamica del mondo. In particolare si è risposto in modo inadeguato alla crescente potenza militare della Cina e al suo protagonismo politico. Secondo alti diplomatici americani la Cina – che ha l’ambizione e sempre più il potere per diventare egemone a livello regionale – è impegnata in uno sforzo volto a tenere l’America fuori da una regione che è stata dichiarata di interesse vitale per la sicurezza da ogni amministrazione a partire da Teddy Roosevelt, e sta attirando nella sua orbita di influenza i paesi del Sud-Est asiatico. L’America deve rispondere [2]”.

In questo quadro va inserito l’aspro confronto – mantenuto a livelli verbali – tra Cina e Filippine relativo alla sovranità sulle isole Huangyan (o Scaraborough per Manila) scoppiato all’inizio di aprile quando una nave ammiraglia della Marina filippina aveva sorpreso una dozzina di pescherecci cinesi al largo delle stesse. L’arresto dei pescatori è stato impedito solo dall’arrivo di due unità navali – non da guerra – cinesi.

Sempre più forte a Pechino è la sensazione che l’inasprimento delle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale – quella con Manila è l’ultima in ordine di tempo – sia sfruttato, quando non artatamente alimentato, dagli Usa al fine di un progressivo accerchiamento ai danni di Pechino e di una riproposizione del ruolo di poliziotto globale in un’area tra le più trafficate al mondo (e vitale per l’approvvigionamento energetico di Pechino) e nella quale sono stimate riserve di greggio per 213 miliardi di barili (l’80% di quelle dell’Arabia Saudita). Le esercitazioni militari congiunte Usa-Vietnam, prima, e Usa-Filippine, dopo, mostrano tutto l’interesse di Washington verso un nuovo protagonismo – e sostanziale riarmo – dei Paesi del sud-est asiatico in funzione anti-cinese.

Se da una parte il ministro della Difesa filippino Voltaire Gazmin, al termine di colloqui diretti con la Clinton, si è detto certo della protezione degli Stati Uniti in caso di attacchi ( i due Paesi sono legati dal 1951 da un Trattato di Mutua Difesa), dall’altra Pechino ha risposto sempre più duramente, tanto da affermare, per mezzo del quotidiano dell’Esercito popolare di liberazione, che “nessun tentativo di metter in discussione la sovranità cinese sull’Isola Huangyan sarà tollerato dal governo, dal popolo o dalle forze armate della Cina” [3]. Una difesa della sovranità che lo stesso quotidiano lega alle umiliazioni, alle violazioni e alle spartizioni che il Paese ha subito nel periodo di maggiore debolezza. Resta, quindi, sullo sfondo il cosiddetto “secolo delle umiliazioni” (1840-1949), al contempo ferita ancora aperta e permanete monito per la dirigenza cinese per le possibili conseguenze di ogni minima cessione territoriale o rinuncia di sovranità.

Ad essere oggetto di riflessione pubblica è il rinnovato protagonismo statunitense nell’area, sebbene nascosto dietro una apparente neutralità nella controversia in atto. Un editoriale del Quotidiano del Popolo ha osservato come “tutti in realtà comprendono perfettamente che c’è l’ombra degli Stati Uniti che approfittano dell’occasione per portare avanti, come essi dicono, il loro ritorno in Asia”. A Washington viene ricordato come la parola d’ordine della credibilità dell’alleanza americana, vale a dire l’assicurazione di un suo intervento al fianco dell’alleato, abbia portato a dolorose lezioni difficili da dimenticare: “Agli inizi degli anni 50 del secolo scorso, una delle ragioni per le quali gli Stati Uniti sono stati coinvolti nella guerra di Corea è stata, come ha detto John Foster Dulles, il cinquantunesimo segretario di Stato americano, quella di «preservare la credibilità degli Americani». Quindi anni dopo, il presidente Lyndon B. Johnson ha portato avanti la stessa logica affermando che «Se noi non ci interessiamo alla sorte e al destino dei vietnamiti, i nostri alleati proveranno sospetti e incertezza quanto al valore delle nostre promesse e dei nostri impegni, e questo sarebbe un disastro!»” [4]. Ancora una volta la Cina popolare rivolge agli Stati Uniti l’invito ad abbandonare la mentalità da Guerra Fredda e lasciare alle parti interessate la soluzione diplomatica di eventuali dissidi, senza pericolose e fastidiose tutele.

Inoltre, a sostegno dell’appartenenza alla Cina dell’isola di Huangyan sono arrivate prove anche da parte filippina. Il 28 aprile, infatti, il quotidiano “Manila Standard Today” ha pubblicato un articolo del ricercatore Victor N. Arches dal titolo “Appartiene alla Cina” nel quale l’autore afferma cheScarborough Shoal appartiene effettivamente alla Cina. La Cina l’ha scoperta e segnata sulla mappa già nel 1279, in epoca Yuan. Da allora i pescatori del continente cinese e di Taiwan vi hanno tenuto diverse attività. In paragone, l’antica mappa presentata dal nostro ministro degli Esteri come prova territoriale è stata stilata solo nel 1820, 541 anni dopo quella cinese”. Accanto ad una argomentazione di carattere storico, l’autore ne sviluppa una di carattere legale: “Nel 1946, quando le Filippine hanno dichiarato l’indipendenza dagli Usa, qual era il nostro territorio reale? Perché nelle nostre Costituzioni del 1889, 1935, 1943, 1986 e 1987, l’arcipelago Nansha e Scarborough Shoal non sono compresi nel nostro territorio? Da dove e da chi abbiamo improvvisamente ottenuto queste isole? C’è una realtà non trascurabile: tre trattati internazionali appoggiano la sovranità della Cina su queste isole. Sono rispettivamente il trattato Usa-Spagna di Parigi del 1898, il trattato Usa-Spagna di Washington del 1900 e il trattato Gran Bretagna – Usa del 1930, che stabiliscono tutti che la linea di demarcazione territoriale delle Filippine si trova a 118° di longitudine est” [5].

Considerazioni simili sono state riportate dalla stampa cinese, oltre che ribadite da diversi esponenti governativi. Il China Daily ricorda che l’isola, incorporata al territorio cinese durante la dinastia Yuan (1271-1368), “dal 1949 è stata sotto l’amministrazione prima della Provincia del Guangdong e poi della Provincia dell’Hainan” e ribadisce che la tesi di Manila secondo la quale Huangyan si trova nella Zona Economica Esclusiva è una errata interpretazione della Convenzione Onu sul diritto del mare, il cui principio base “è che la terra domina il mare, il che significa che è la sovranità territoriale degli Stati costieri che genera i loro diritti sovrani e la giurisdizione in una Zona Economica Esclusiva e sulla piattaforma continentale. Il fatto che Huangyan si trovi a 200 miglia nautiche dalla costa filippina non dà naturalmente la sovranità su di essa e neppure lo rende un territorio delle Filippine” [6].

Schermaglie giuridico-storiche a parte, è certo che la Cina si trova sempre più costretta a difendere la propria sovranità di fronte ad un tentativo di contenimento che si mostra via via sempre più chiaro e che si ammanta puntualmente della consueta retorica democratica, come testimoniano le prese di posizione occidentali in occasione della fuga del dissidente Chen Guangcheng. La reazione di Pechino, improntata ad un acceso nazionalismo, oltre segnale di un portato storico di umiliazioni sempre vivo, è certo da collegare ad una situazione politica interna delicata e proiettata al Congresso del Partito comunista cinese che in autunno sancirà l’arrivo di una nuova generazione di governo. L’uscita di scena di Bo Xilai, esponente della cosiddetta corrente neomaoista, oltre che segretario del partito nella megalopoli di Chongqing e probabile figura emergente all’interno del Comitato permanente , al di là del prevalere del gossip, segnala comunque divisioni all’interno del Partito in relazione ai futuri sviluppi della politica di riforma. Non è certo un caso che proprio i quotidiani ufficiali di partito, o ad esso collegati, richiamino con maggiore insistenza alla fedeltà del processo avviato negli anni ’70 da Deng Xiaoping.

NOTE

1 “Obama l’australiano minaccia la Cina”, www.marx21.it, 23 novembre 2011
2 “The Dragon’s new Teeth”, The Economist, 7 aprile 2012.
3 “Chine: le journal de l’armée met en garde le Philippines au sujet del l’ile Huangyan”, Xinhua, 10 maggio 2012
4 “Les Etats-Unies doivent faire preuve de luciditè et de clairvoyance pour ne pas etre pris en otage par leur allié philippin écervelé”, Quotidiano del Popolo, 11 maggio 2012.
5 “Media Filippine: l’isola di Huangyan appartiene alla Cina”, China Radio International, 9 maggio 2012.
6 “Philippine claim groundless”, China Daily, 14 maggio 2012