di Fausto Sorini, Responsabile del Dipartimento Esteri del Pcdi
Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ” La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Nella evoluzione della politica estera cinese, dal 1949 a oggi, – vi sono tre direttrici permanenti:
– unificare il Paese (Hong Kong, Macao, Taiwan);
– emergere come grande Paese socialista e autonomo;
– perseguire la modernizzazione economica del Paese, favorendo una evoluzione del contesto mondiale ed una collocazione internazionale del Paese funzionale a questo obiettivo.
Si possono sintetizzare sei fasi principali.
Gli anni Cinquanta: l’alleanza strategica con l’Unione Sovietica
La prima fase va dalla fondazione della RPC (1949) alla rottura con l’Urss kruscioviana, ed è caratterizzata dall’alleanza con l’Urss di Stalin. E’ la fase dell’affermazione della propria esistenza e sicurezza nei confronti delle grandi potenze imperialiste che per secoli avevano sfruttato la Cina come una colonia e si rifiutavano di accettare la nuova Cina socialista come un dato irreversibile del nuovo contesto mondiale. E’ grazie a questa alleanza con l’Urss che la RPC pose le basi strategiche della propria fase iniziale di industrializzazione.
Gli anni Sessanta: la rottura con l’Urss e la lotta contro le “due superpotenze”
La seconda fase abbraccia gli anni ’60 e include il periodo della Rivoluzione culturale (1966-69). La difesa della propria sicurezza si combina con la ricerca di una piena autonomia (anche nucleare) nei confronti di entrambe le due superpotenze, che per ragioni diverse non gradivano una Cina troppo forte e autonoma.
Quando il 20 giugno 1959 l’Urss kruscioviana fece sapere ai cinesi che non avrebbe fornito loro alcun modello di bomba atomica (diversamente dagli impegni precedenti), ciò determinò un grave contrasto. L’Urss temeva che tale concessione avrebbe vanificato ogni sforzo di distensione e cooperazione con l’Occidente, e cercò di convincere Pechino che l’ombrello atomico sovietico era sufficiente per proteggere anche la Cina. La RPC replicò che essa era un paese troppo importante per consegnare in modo subalterno all’Urss il tema della propria sicurezza.
Nel luglio 1960 la crisi fu aggravata dalla decisione di Mosca di richiamare migliaia di tecnici e di esperti che l’Urss aveva inviato in Cina per aiutarla a costruire un’industria moderna. Questa decisione, che avvenne nel pieno della carestia e del fallimento del Grande balzo in avanti, precipitò l’economia cinese in una condizione tragica, e fu uno dei motivi salienti che spinsero i comunisti cinesi a modificare radicalmente il loro atteggiamento verso l’Urss.
Gli anni Settanta: l’alleanza strategica con gli Stati Uniti
La terza fase va dai primi anni ’70 ai primi ’80 (da Mao a Deng). Si afferma un rapporto preferenziale con gli Stati Uniti, considerato la chiave di volta per la crescita economica e tecnologica della Cina e per il suo protagonismo internazionale.
Fra il marzo e l’agosto del 1969, vi furono gravi scontri militari tra i due eserciti lungo la frontiera cino-sovietica. La diplomazia internazionale evocò persino la possibilità di una rappresaglia nucleare sovietica, che nella seconda metà dell’anno spinse il governo cinese ad evacuare Pechino.
Dopo la percezione di un tale pericolo (vero o presunto che fosse), nel gruppo dirigente cinese si fece strada l’idea che l’Urss rappresentasse in quella fase la principale minaccia alla sicurezza della Cina, e su quella base fu decisa l’apertura agli Stati Uniti: che a loro volta (con Nixon e Kissinger) non si lasciarono sfuggire l’occasione per accentuare la frattura tra le due maggiori potenze socialiste.
Nel febbraio 1972 la visita ufficiale di Nixon a Pechino formalizzò la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, cui seguì pochi mesi dopo il viaggio a Pechino del premier giapponese Tanaka.
Con quali argomenti (al di là della propaganda) i dirigenti cinesi di allora giustificarono la loro scelta nelle conversazioni riservate con altri partiti comunisti?
Quando una delegazione del Pci, guidata da Enrico Berlinguer andò in Cina nell’aprile 1980 per ristabilire le relazioni col Pcc, nei colloqui riservati (così mi disse un dirigente del PCI che ne ebbe diretta testimonianza) la leadership cinese diede più o meno la seguente spiegazione: noi non abbiamo alcuna ostilità pregiudiziale all’Unione Sovietica. Sappiamo che l’Urss è un Paese socialista, con un sistema socialista per molti versi più avanzato del nostro. Ma l’Urss è anche una grande potenza che non rispetta la nostra autonomia e che oggi, diversamente da ieri, minaccia la nostra sicurezza più degli Stati Uniti. E noi sappiamo che i sovietici capiscono un solo linguaggio: quello della forza. Per cui noi dobbiamo fare a loro tanto male da indurli a cambiare politica verso di noi e a stabilire con la Cina rapporti paritari, che non minaccino la nostra sicurezza ed autonomia.
Gli anni Ottanta: normalizzazione dei rapporti tra Cina e Urss
La quarta fase (dai primi anni ’80 al crollo dell’URSS) vede un graduale riavvicinamento tra Cina e Urss, non come alleanza strategica e ideologica come quella con l’URSS di Stalin, ma di reciproca “sicurezza”.
La sconfitta degli Usa nella guerra del Vietnam (1975) e l’impulso che essa trasmise alle forze rivoluzionarie e di liberazione in ogni parte del mondo, determinò grande inquietudine nei gruppi dirigenti dell’imperialismo e li indusse a un contrattacco. Già con la presidenza Carter iniziò una massiccia azione ostile nei confronti dell’Urss: prima sul piano ideologico (la campagna sui “diritti umani”); poi, dopo la elezione di Reagan (1981), anche sul piano economico e militare, con il dispiegamento degli euromissili e col progetto di Scudo spaziale. L’obbiettivo era quello di accrescere qualitativamente la minaccia militare al sistema sovietico, di sfiancarlo economicamente con la corsa al riarmo, di demolirne l’immagine come “impero del male”.
Questa escalation indusse Mosca a normalizzare le relazioni con la Cina; che a sua volta percepì le crescenti difficoltà dell’Urss, sia sul piano interno (stagnazione economica, sclerosi burocratica) che internazionale. Sentì che l’URSS era più debole, meno minacciosa nei suoi confronti; valutò che l’alleanza con gli Usa in chiave anti-sovietica non le aveva portato tutti i vantaggi sperati in termini di cooperazione economica e tecnologica, mentre le conseguenze più ciniche di quella scelta pro-americana le avevano alienato la simpatia di tanta parte dell’opinione pubblica progressista in Occidente, dei movimenti di liberazione e dei Paesi non allineati.
Si crearono quindi le condizioni e le reciproche convenienze per un riavvicinamento, in un quadro multipolare più diversificato, in cui cominciava ad emergere anche l’interesse della Cina per un rapporto peculiare con una Unione europea, che a sua volta aspirava a muoversi nel contesto mondiale non più come mera appendice della superpotenza USA.
La direzione di Andropov diede forte impulso alla ripresa delle relazioni tra Cina e Urss, che continuò con Gorbaciov; anche se, man mano che la perestrojka si distanziava dal suo iniziale carattere “socialista” e determinava la disgregazione dell’URSS e del campo socialista in Europa, essa portava con sé contraddizioni di tipo nuovo nella relazioni tra Pechino e Mosca, ed anche nuovi elementi di frattura ideologica.
La prima visita ufficiale di Gorbaciov a Pechino (maggio 1989), si svolse nei giorni delle manifestazioni di piazza Tiananmen, e contribuì ad acuire anche alcune contraddizioni ai vertici del Pcc.Venne allo scoperto l’incompatibilità tra due modelli di riforma.
L’approccio gradualista di Deng Xiaoping era basato su riforme economiche incrementali, ma senza perdita del controllo politico e Statuale sulla situazione complessiva del Paese; e non contemplava certo i cambiamenti improvvisi e destabilizzanti della perestrojka gorbacioviana.
Dopo i giorni di piazza Tienanmen, l’atteggiamento cinese si fece sempre più freddo e all’interno del Pcc cominciarono a circolare documenti che interpretavano il collasso del sistema sovietico come il naturale prodotto delle politiche “revisioniste” di Gorbaciov.
Gli anni Novanta: verso un mondo multipolare
La quinta fase (gli anni ’90) fu in buona parte una conseguenza dello scioglimento dell’URSS. Esso modificò radicalmente il quadro internazionale, spezzando il bipolarismo che lo aveva caratterizzato fin dal dopoguerra, e fece emergere due spinte contrastanti: quella degli Usa, che volevano approfittare del crollo dell’URSS per affermare un nuovo ordine unipolare; e quella degli altri poli mondiali volti ad affermare – sia pure con prospettive e interessi differenziati – un nuovo ordine multipolare.
L’agenda del multipolarismo divenne da quel momento l’architrave della politica estera cinese. Un’agenda a geometria variabile, che bilanciava l’esigenza di sviluppare relazioni positive di cooperazione economica coi paesi tecnologicamente più sviluppati (Usa, Ue, Giappone) con quella di contrastare l’unipolarismo Usa.
XXI secolo: la relazione strategica con la Russia di Putin e i BRICS
La sesta fase (che giunge fino ad oggi) emerge dopo l’ascesa di Putin alla direzione della Russia (gennaio 2.000). Si afferma una relazione strategica tra Cina e Russia, un protagonismo crescente nell’ambito dei BRICS, la ricerca di una cooperazione rafforzata con l’Unione europea. Tutto ciò non è volto ad una contrapposizione frontale agli Stati Uniti e al Giappone, bensì ad incoraggiare una evoluzione multipolare del contesto mondiale, a “gestire” il declino dell’impero americano (e del dollaro) cercando di contenerne le spinte più oltranziste e aggressive, a scongiurare (o almeno ritardare il più possibile) scenari da terza guerra mondiale.
Queste dinamiche si consolidano dopo la guerra della Nato nei Balcani e la sua espansione ad Est; l’esplosione della crisi strutturale del sistema capitalistico mondiale a partire dal 2007-2008; l’escalation dell’interventismo militare degli Usa e della Nato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Ucraina; la scelta degli Stati Uniti di scatenare una nuova guerra fredda contro la Russia e di spostare nell’area del Pacifico il 60% del proprio potenziale militare globale in centinaia di basi militari che circondano la Cina, in vista di scenari tutt’altro che rassicuranti.
La cooperazione tra Cina e Russia si fa più stringente, nel quadro della Shanghai Cooperation Organization (Sco) e dei Brics.
Durante gli anni della direzione di Putin, le relazioni bilaterali tra Cina e Russia raggiungono un livello senza precedenti.
L’interscambio commerciale tra Cina e Russia decuplica, passando dagli 8 miliardi di $ nel 2000 ai 95,3 del 2014. All’indomani del vertice tra Xi Jinping e Putin del giugno 2015, viene annunciato l’obbiettivo dei 200 miliardi entro il 2020.
Nello stesso periodo:
-l’interscambio commerciale tra Cina e Africa passa dai 50 mld $ del 2004 ai 300 del 2014;
-quello con l’America Latina dai 26 mld $ del 2000 ai 261 del 2013. Sono previsti investimenti che lo porteranno a quota 500 entro il 2025 (Xi Jinping).
A titolo di raffronto si consideri che l’interscambio tra Cina e Ue (primo partner commerciale di Pechino) era di 559,1 miliardi di dollari nel 2013; quello con gli Usa di 521 miliardi; di 310 col Giappone e di 220 con la Corea del Sud.
Se quindi la progressione dell’interscambio Cina-Russia vede una accelerazione impressionante (dagli 8 mld del 2000 ai 200 mld previsti per il 2020), esso rimane distante dai livelli che la Cina interscambia con l’Ue, Usa e Giappone, che rimangono – in valore assoluto e a prescindere dai rapporti politici – i suoi partner economici principali, anche per il maggior livello di sviluppo tecnologico che tali Paesi hanno raggiunto rispetto agli altri.
E’ vero anche che i Paesi del G7 sono oggi in preda a una crisi di cui non si intravedono sbocchi positivi. Essi producono il 38% del Pil mondiale (a parità di prodotto), mentre i Brics il 30% (dati Fmi 2014). Dato che i Brics mostrano nel loro insieme un ritmo di crescita più elevato del G7, gli analisti suppongono che entro pochi anni il loro Pil supererà quello del G7.
Il multipolarismo continua ad avere molte facce.