L’immagine della Cina in Italia nei media e nelle pubblicazioni

china dailydi Marco Pondrelli, Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista

Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″

Per affrontare il rapporto fra Cina e mass media italiani è interessante partire da un articolo pubblicato poche settimane fa sul corriere della sera, il principale quotidiano italiano per numero di copie vendute. Analizzando le ultime scelte della Federal Reserve il giornalista, riferendosi ai brics, li definiva “ex-brics”. Perchè questo? È vero che recentemente alcuni di questi paesi stanno sentendo i colpi della crisi (Russia e Brasile in testa) ma questo non impedisce ai Brics di continuare a tenere periodici summit nei quali vengono prese decisioni rilevanti anche per il resto del mondo, come quella di fondare la Nuova Banca di Sviluppo. I paesi che compongono il G7 sono anch’essi colpiti molto duramente dalla recessione ma su nessun giornale italiano si sognerebbe mai di definirli ex G7. Potrebbe sembrare una questione di scarsa rilevanza, ma non è così. Rispetto alla Cina c’è un grosso limite che colpisce sia i mass media sia le pubblicazioni che sono, o dovrebbero essere, più scientifiche.

Recentemente Guido Rossi ha scritto su “il sole 24 ore” che “la ragione principale della assoluta difficoltà delle valutazioni di questo fenomeno (in riferimento alle turbolenze della borsa cinese) da parte degli occidentali risiede nella nostra ignoranza del mondo cinese, sia politico, sia economico, sia sociale”. Lo stesso Guido Rossi però conclude così il suo articolo “un importante documento del Comitato Centrale del Partito comunista cinese enumera alcune di queste false ideologie, tra cui: la democrazia costituzionale, i valori universali e quindi i diritti umani, la società civile, il neoliberalismo economico, il nichilismo storico”, arrivando quindi a confermare i pregiudizi dai quali era partito e che voleva confutare. Rifiutare il modello di democrazia occidentale quella, per intendersi che esclude, come ha sostenuto il premio Nobel Joseph Stiglitz, il 99% dei cittadini, non vuole dire rifiutare la democrazia e la partecipazione. Questo però è un altro tema rispetto a quello su cui devo relazionare.

Un altro caso emblematico di queste distorsioni informative è notare i due pesi usati dalla stampa italiana quando si trova a descrivere la ricchezza di alcuni imprenditori cinesi e statiunitensi, i primi in genere hanno fatto fortuna in modo opaco e poco chiaro. In un’intervista su “la repubblica” Alberto Forchielli sosteneva che “l’imprenditore cinese pubblico o privato ha una mente fondamentalmente criminale, perché cresce in un ambiente privo di etica, fatto di rapporti, evasione, infrazioni”. Gli americani che hanno fatto ricchezza invece sono la personificazione del sogno americano per cui chiunque può farcela solo grazie alla buona volontà. La realtà è ben diversa ma non trova spazio sui nostri mass-media i quali addirittura arrivano, come abbiamo visto, ad attribuire ai cinesi delle storture antropologiche.

Due sono le cause di questi limiti. La prima è direttamente legata alla lotta ideologica che pezzi rilevanti dell’establishment italiano conduce contro la Cina, ciò porta scientemente parte dell’informazione a falsare le notizie o addirittura a censurarle. Un importante studioso della Cina come Stefano Cammelli in un suo libro “Ombre Rosse” riporta un caso di studio esemplare. L’Autore parte da un assunto che si propone di confutare: noi occidentali abbiamo fatto della libertà di stampa occidentale un modello perfetto di ogni libertà di stampa. Giudichiamo gli altri paesi in base alle nostre categorie ma spesso vediamo solo quello che vogliamo vedere, ovverosia ciò che conferma le nostre teorie, quello che si chiama “Confirmation Bias” (errore di conferma).

Il caso è questo: nell’autunno del 2005 la Francia venne sconvolta da una protesta popolare nei quartieri periferici, da più parti si guardò alla reazione cinese rispetto a questo evento e spesso e volentieri si arrivò alla conclusione che i media cinesi avevano preferito censurare la notizia. Nulla di più falso! Stefano Cammelli ha studiato approfonditamente il dibattito che si sviluppò sui giornali cinesi arrivando ad affermare che per settimane essi “non sembrano avere parlato d’altro”. D’altronde l’occasione per i nostri mass-media era troppo ghiotta, la Cina non vuole che si parli di proteste neanche se esse avvengono in un paese straniero.

Mi sia permesso di aprire una parentesi: certi atteggiamenti dimostrano che ben lungi dall’avere qualcosa da esportare in termini di libertà di stampa, l’Italia e l’Occidente dovrebbero capire cosa non va in casa propria. Negli Stati Uniti dopo l’11 settembre c’è stato un grosso giro di vite contro i giornalisti indipendenti, giro di vite che con l’Amministrazione Obama anziché diminuire è aumentato, fino a portare un giornalista del New York Times, David Sanger, ad affermare “questa è l’amministrazione più chiusa, più ossessionata dai controlli che io abbia mai visto”.

Sarebbe ingiusto ridurre questo gap informativo ad una ferocia ideologica senza occuparsi del secondo corno del problema ovvero la mancanza di conoscenza dell’argomento.

Per analizzare e capire un paese servono le informazione ma anche la conoscenza. Le informazioni arrivano da tanti canali, dai vecchi strumenti, come giornali o televisioni, a quelli nuovi come i social media, i blog ma questa massa d’informazioni, a volte veritiere a volte no, deve passare al setaccio della conoscenza, la quale si forma, ad esempio, sui libri. Purtroppo anche in questo caso alla quantità non corrisponde la qualità perchè se è vero che le pubblicazioni sulla Cina negli ultimi anni sono aumentate in modo esponenziale è purtroppo vero che sulla loro scientificità molto ci sarebbe da dire.

Un valido esempio dei limiti di comprensione è il Tibet. L’idea che passa in molti libri, in molti giornali ed in tante televisioni è che in Tibet da sempre indipendente è stato occupato dalla Cina nel 1949 che ne ha soffocato i valori di pace e libertà. Una visione che in questi anni è stata venduta anche da tante star del cinema hollywoodiano. Già Domenico Losurdo si è premurato di chiarire come la società tibetana delle origine fosse una società tutt’altro che pacifica e molto lontana dagli standard che oggi definiscono la civiltà. Il mito del Tibet è stato difeso dai nazisti che vi vedevano l’origine della razza ariana, cosa che raramente viene detta. Anche l’indipendenza del Tibet diviene un’affermazione figlia di una cultura eurocentrica, non possiamo analizzare il passato tibetano come se stessimo parlando di uno stato conquistato dall’Impero romano, non era questo il rapporto che intercorreva fra Cina e Tibet. Questo caso è emblematico da una parte del fervore ideologico che anima parte dei nostri opinionisti e dall’altra della scarsa conoscenza dell’oggetto in discussione.

Questi pregiudizi arrivano a colpire, purtroppo, anche parti rilevanti della sinistra ed è veramente strano che siano intellettuali e studiosi non schierati a produrre alcune delle analisi più lucide oggi in Italia forse perchè sono anche loro avvezzi, per citare il Presidente Xi Jinping, a “ricercare la verità attraverso i fatti”.

Jim O’Neill è stato presidente di Goldman Sachs Asset Management, non è quindi sospettabile di simpatie filocomuniste, nonostante ciò fu lui per primo ad utilizzare il termine Bric ed a sottolineare le potenzialità di questi paesi, nel suo ultimo libro a proposito della Cina afferma: “ciò che vedevo nelle strade di Pechino non aveva niente a che fare con la tirannia malvagia che mi ero aspettato. Amo viaggiare in Cina, percepire e condividere l’ottimismo dei suoi abitanti”. Sempre lo stesso O’Neill risponde indirettamente a chi accusa le statistiche cinesi sul PIL di scarsa trasparenza (sport ultimamente tornato di moda) dicendo che i “dati sul PIL del Regno Unito mi sembrano spesso meno accurati di quelli cinesi”.

Mi avvio alla conclusione ricordando che, come ci insegna Antonio Gramsci, la battaglia che abbiamo di fronte è una battaglia per l’egemonia, fare avanzare le nostre idee oggi vuole dire presentare la Cina per quello che è: un paese che sta tentando, tra mille difficoltà, di imboccare una strada di sviluppo alternativa e questa è un’esperienza che parla a tutto il mondo, Italia compresa. Le strade davanti a noi sono due: continuare a considerare la Cina un nemico invocando la necessità di “difendere l’occidente” come ci esortava a fare il direttore de “la repubblica”, Ezio Mauro, il 5 settembre del 2014, oppure vedere nella Cina un interlocutore per costruire un mondo diverso. Questa è una battaglia che va combattuta ed è anche una battaglia di idee, da qui l’importanza dei mass media e della visione che essi danno della Cina.

Vorrei concludere con un breve riferimento alla prima opera che ha portato la Cina in Italia (per la precisione a Venezia). Nel Milione Marco Polo racconta dell’utilizzo della cartamoneta alla corte del Gran Kan, dopo averne descritto l’utilizzo e la fabbricazione scrive “pensate che una carta del volere di 10 bisonti non arriva a pesare quanto un bisonte”, i nobili veneziani non capirono l’importanza di questa invenzione si narra che bruciarono la banconota che Marco Polo aveva portato il quale disse “avete distrutto un enorme valore”. Oggi siamo nella stessa situazione non dobbiamo bruciare, per ignoranza, ciò che arriva dalla Cina, lo dobbiamo comprendere.