di Fabio Massimo Parenti*
Ringraziamo il professor Parenti per averci inviato la traduzione in italiano del suo articolo pubblicato nel cinese “Global Times”, e volentieri pubblichiamo.
Il dibattito internazionale sul soft power cinese è cresciuto costantemente a partire dalla pubblicazione del libro sul “Beijing consensus” del 2004 di Joshua Cooper Ramo. Il termine è stato coniato per sottolineare il percorso di sviluppo alternativo della Cina rispetto ai contenuti politici e ideologici del “Washington consensus”. Non tutte le analisi concordano con questo punto di vista. Tuttavia, insieme ad alcuni autori influenti – Giovanni Arrighi, Martin Jacques, John Naisbitt e in una certa misura Daniel A. Bell – ritengo che il modello di sviluppo della Cina abbia dimostrato una capacità di combinare elementi capitalistici e socialisti, oltre a tradizione e modernità, in un modo unico.
Pertanto, quando ci impegniamo con analisi sociali, politiche, economiche e culturali sull’esperienza contemporanea di sviluppo della Cina, le “caratteristiche cinesi” sono sempre in gioco. Dalla proprietà delle imprese ai processi di pianificazione territoriale, dai diritti di utilizzo della terra alle imprese statali, dalle riforme del welfare state ai valori culturali e politici incorporati in una combinazione di marxismo e confucianesimo.
È importante ricordare le profonde radici della nuova influenza della Cina, culturalmente e politicamente, negli attuali cambiamenti dell’ordine internazionale. L’influenza del pensiero e delle parole cinesi sull’arena internazionale è cresciuta drammaticamente negli ultimi anni, al passo con i successi economici e diplomatici. La Cina nella nuova era è dunque rappresentata anche da un più forte soft power internazionale – ovvero il potere di idee e strategie alternative allo status quo – esercitate nelle sedi più autorevoli dell’ordine mondiale: in forum economici e politici come il G20, il World Economic Forum, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e in altri forum plasmati da iniziative cinesi, come la Asian Investment Infrastructure Bank, la New Development Bank e l’iniziativa Belt and Road.
Il nuovo potere culturale cinese su scala mondiale è supportato, legittimato e profondamente radicato proprio nelle manifestazioni materiali dell’iniziativa Belt and Road, che comprende più di 100 organizzazioni. L’iniziativa è già una realtà, in fase di aggiornamento, ed è inclusiva, cooperativa ed aperta all’adattamento, essendo libera da discriminanti ideologiche e politiche. Questa realtà è l’opposto del vecchio e più piccolo Piano Marshall.
Nonostante questo quadro, il National Endowment for Democracy degli Stati Uniti ha coniato per esempio un termine – “sharp power” – per definire e screditare la Cina e altri concorrenti. Questo termine è diventato molto popolare in Occidente. Inoltre, se guardiamo all’opinione pubblica e alle autorità europee, scopriamo che ci sono voci multiple e divergenti sulla nuova influenza cinese in relazione alla Belt and Road.
È ironico ascoltare le critiche occidentali di manipolazione dei media e di interferenze politiche indirizzate alla Cina e ad altri paesi come la Russia. Ironico e curioso soprattutto alla luce della storia occidentale, caratterizzata da un lungo dominio mediatico e dalla costante interferenza mediatica negli affari interni di altri paesi. La storia del National Endowment for Democracy è la prova di questa ironia. Le responsabilità attribuite a questi paesi potrebbero essere facilmente attribuite all’accusatore.
Nel secondo caso, l’Europa, il Mercator Institute for China’s Studies, con sede a Berlino, ha per esempio mostrato un crescente scetticismo e dure critiche in un rapporto del febbraio 2018, sostenendo che la Cina sta sfruttando, in modo opaco, le debolezze dell’Unione europea per interferire all’interno degli affari degli stati membri. Al contrario, altre voci autorevoli vedono il nuovo ruolo proattivo cinese in Europa come un’alternativa vantaggiosa e costruttiva allo stato attuale delle cose, caratterizzato da una lenta ripresa economica, instabilità politica e alto grado di belligeranza sotto il sistema di alleanza USA-NATO. In Italia, ad esempio, Manlio di Stefano – un membro del Parlamento del Movimento 5 stelle – ha espresso questo pensiero diverse volte. Nel 2016, ha parlato dell’iniziativa Belt and Road in questo modo: “È affascinante l’attenzione della Cina sullo sviluppo del progetto. I principi intrinseci della BRI aderiscono a quelli della Carta delle Nazioni Unite. Il progetto è aperto a nuove nazioni e seguirà le regole del mercato, secondo la logica della soddisfazione di vantaggi reciproci per tutti i partecipanti”. I miei studi e argomenti sono più vicini a questa interpretazione costruttiva del nuovo soft power della Cina, ma, come scritto, in Europa le prospettive politiche e culturali su questo argomento sono ancora variabili e spesso divergenti.
In fondo, è importante notare che l’iniziativa Belt and Road è ancora agli inizi e ci vorrà del tempo perché possa mostrare tutte le sue potenzialità. Essa richiederà protezione e fiducia tra le molte parti politiche ed economiche coinvolte in un mondo fortemente fratturato.
Riorganizzare le relazioni internazionali secondo un approccio cooperativo e vantaggioso per le parti coinvolte richiederà un ulteriore impegno da parte della comunità internazionale e ogni paese che aderisce all’iniziativa cinese dovrebbe svolgere il proprio ruolo con un alto senso di responsabilità. La pace mondiale è in gioco.
* L’autore è professore associato di geografia economica e politica presso l’Istituto Internazionale Lorenzo de ‘Medici, Roma e Firenze, e membro di EURISPES, Laboratorio BRICS.