Internet e la rivoluzione tecnologica creeranno un nuovo capitalismo?

internet codicedi Francesco Maringiò

Intervento al Forum “La Via Cinese e il contesto internazionale, Roma, 15 ottobre 2016

Sono molto onorato di intervenire oggi a questo importante Forum e sono molto felice di incontrare gli amici e compagni dell’Accademia del Marxismo Cinese, il Presidente Deng, la Direttrice Lv e gli amici studiosi da tutta la Cina. Solo un confronto approfondito può aiutare lo sviluppo e l’arricchimento del dibattito e della comune conoscenza e per questo ringrazio l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali per lo sforzo e l’impegno.

Già prima di me, i ricercatori Yang Jinwei e Liang Junlan hanno affrontato il tema della governance globale di internet e del percorso internazionale di difesa della sovranità di rete, per cui mi concentrerò su altri aspetti.

Secondo gli Internet Live Stats, il numero di utenti a livello mondiale ha superato i 3,4 miliardi e di questi 721 milioni vivono in Cina che, quindi, ha il dovere di porsi il problema della governance di internet. Già nel 1999 la Repubblica Popolare ha lanciato il Golden Shield Project (o “Great Firewall of China”), lo strumento principale per la tutela della sicurezza nazionale nel dominio digitale.

Recentemente due proposte legislative (nel settembre 2013) hanno esteso il controllo non solo sugli Internet Service Providers, ma anche sui Telecommunication Service Providers (rendendo obbligatoria l’autentificazione dell’identità dei consumatori). Ciò rappresenta il primo passo verso la creazione di un sistema legislativo per la protezione delle informazioni personali dei consumatori (tale legge era inesistente in Cina), testimoniando una crescente attenzione per le richieste ed i diritti individuali del popolo cinese. Tutto questo avviene nell’assenza di una definizione condivisa, a livello internazionale, di cyber security. La comunità internazionale non è ancora riuscita a fornire uno strumento legislativo per regolamentare, prevenire e rispondere alle minacce provenienti dal cyberspazio.

Dopo il 18mo Congresso del PCC, si è inoltre costituito il Central Internet Security and Information Leading Group (27 febbraio 2014), che risponde direttamente al presidente Xi Jinping, il quale ha assunto la responsabilità personale di delineare la cyber strategy della nazione, a testimonianza dell’impegno del Partito Comunista in questa direzione. Già nell’aprile del 2001, la Cina aveva subito un primo palese attacco di “cyber-war”, allorquando intercettarono e ne forzarono l’atterraggio di un aereo spia americano che impunemente sorvolava senza autorizzazione il suolo cinese per spiare e studiare le aree sensibili e militari. La creazione di una struttura ad hoc si è resa necessaria dopo che le dichiarazioni dell’ex contractor Edward Snowden sembrarono provare il diretto coinvolgimento del National Security Agency degli Stati Uniti in un elaborato sistema di spionaggio e raccolta dati ai danni di privati cittadini, governi alleati e possibili competitors. Obama ha ampliato il focus della Cyber-security dal settore militare (come avevano fatto prima di lui Clinton e Bush) all’intera nazione: dal singolo cittadino ai comparti industriali e la Nato continua ad inserire la Cina (assieme alla Russia) tra le principali minacce del cyberspazio. In un recente documento del Nato Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence (Ccdcoe), dal titolo: “China and Cyber: Attitudes, Strategies, Organisation”, si definisce Pechino un attore il cui approccio è fortemente orientato allo spionaggio industriale e militare e che denota una crescente attenzione alle operazioni nel cyberspazio.

Eppure nei paesi occidentali, il “mito di internet” viene presentato non come una dimensione della competizione tra gli stati (o della guerra tra essi), ma come uno strumento di emancipazione capace, assieme alla rivoluzione tecnologica avviata dalla Silicon Valley americana, di fungere da leviatano per far emergere un nuovo capitalismo. Ma è davvero così?

Internet e la rivoluzione tecnologica, nel mondo capitalistico, hanno costruito la propria legittimità sull’idea che il proprio sviluppo sarebbe stato un processo emancipatore per larga parte della popolazione umana, attraverso l’ampliamento della “democrazia della rete”, l’obiettività dell’analisi dei dati, l’orizzontalità e l’immediatezza nelle comunicazioni tra le persone. Inoltre, si affermava che la raccolta dei “big data” (resa possibile dalla tecnologia digitale e dall’inconsapevole cessione gratuita di tutti i propri dati sensibili a corporation private da parte delle persone) e la loro analisi per mezzo degli algoritmi, avrebbe permesso un nuovo tipo di conoscenza.

In realtà gli studi della ricercatrice Antoinette Rouvroy, recentemente presentati (Gennaio 2016) al Consiglio d’Europa, dimostrano come ciò che è stato costruito, altro non è che un vero e proprio “metodo di governo” basato su dogmi ideologici, codificati negli algoritmi, che rendono impossibile qualunque genere di critica e discussione. Ella ha chiamato tutto questo “algorithmic governmentality (governamentalità algoritmica)”, basata sulla “big data ideology”. Piuttosto che elargire maggiore libertà e democrazia agli individui, la nuova rivoluzione tecnologica sta creando una nuova forma di “organizzazione scientifica del lavoro” (F. W. Taylor) basata sul “management algoritmico” che in applicazioni molto famose in occidente come Uber e Deliveroo hanno già dato vita ad una forma di Taylorismo 2.0: «Gli algoritmi – ha affermato infatti Jeremias Prassl, docente di diritto ad Oxford – permettono un grado di controllo e di vigilanza che neanche i tayloristi più incalliti avrebbero mai sognato».

Non soltanto: uno studio del Guardian ha dimostrato che gli algoritmi tendono a penalizzare i lavoratori più poveri e svantaggiati e la tendenza è quella di «creare una classe sociale di persone che si ritroveranno inspiegabilmente (ai loro occhi ndr) emarginate».

Pertanto, al posto di essere un processo emancipatore e democratico, la tendenza oggi prevalente dello sviluppo di internet e della rivoluzione tecnologica concepita nei laboratori delle multinazionali statunitensi è quella di definire un nuovo tipo di concetto di individuo. Questo non tiene conto della persona e dei suoi bisogni, ma la valuta come un’aggregazione temporale di dati, che genera valore e che è indicizzabile secondo parametri numerici, come per esempio il numero di amici sui social network, il gradimento dei follower, etc.

..

Pertanto, la nuova promessa emancipatrice del capitalismo (sotto lo slogan: “internet ci rende tutti liberi ed eguali”) si trasforma in una nuova versione di Taylorismo ed esclusione dei più poveri.

Ma c’è un altro aspetto. Chi usa (e quindi: chi genera valore e profitto) dall’analisi dei big data? Le multinazionali tecnologiche della Silicon Valley hanno costruito la propria legittimità sostenendo di essere in prima linea nella lotta contro il vecchio capitalismo, oramai incapace di innovare. È davvero così? Io non credo.

Soltanto facendo l’esempio di Google, possiamo vedere come società ed essa collegate abbiamo costruito in questi anni accordi con le più grosse aziende farmaceutiche (la Alphabet, che controlla Google, ha fondato assieme alla GlaxoSmithKline una newco da 715 ml di dollari nel campo della bioelettronica e la 23andMe, sostenuta da Google, ne ha chiuso uno analogo con la Pfizer) che usano i big data per i loro usi e scopi. In sostanza appare sempre più chiaro come le aziende tecnologiche dei paesi occidentali siano diventate la porta d’accesso del capitalismo ad alcuni ambiti della nostra vita privata, fino ad ora inaccessibili per ragioni politiche o etiche. Il dati sulla nostra vita, sulla salute o sul nostro comportamento “sociale”, che prima erano inaccessibili per le aziende farmaceutiche o di marketing, ora sono registrati, salvati, immagazzinati e processati dalle nuove piattaforme social. E queste, quindi, anziché realizzare il mito della libertà degli individui e della rottamazione delle aziende del vecchio capitalismo, lo rendono nei fatti ancora più resiliente e pervasivo nella vita degli individui. In poche parole, rendono il vecchio capitalismo ancora più difficile da soppiantare.

Pertanto, lo sviluppo di questi processi è un terreno ancora poco esplorato di approfondimento e ricerca da parte dei marxisti di tutto il mondo e di costruzione di forme efficaci di lotta che, acquisendo il meglio dei progressi e dei contenuti ideologici del progresso scientifico, tecnologico ed informatico, ne combattano le forme di alienazione, espropriazione dei diritti e nuove forme di sfruttamento e determinino le condizioni per una nuova fase dello sviluppo umano in cui si affermi l’uguaglianza tra gli individui e quella tra le nazioni e si affermino i principi del socialismo.

Internet e la rivoluzione tecnologica creeranno un nuovo capitalismo?

di Francesco Maringiò

Intervento al Forum “La Via Cinese e il contesto internazionale, Roma, 15 ottobre 2016

Sono molto onorato di intervenire oggi a questo importante Forum e sono molto felice di incontrare gli amici e compagni dell’Accademia del Marxismo Cinese, il Presidente Deng, la Direttrice Lv e gli amici studiosi da tutta la Cina. Solo un confronto approfondito può aiutare lo sviluppo e l’arricchimento del dibattito e della comune conoscenza e per questo ringrazio l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali per lo sforzo e l’impegno.

Già prima di me, i ricercatori Yang Jinwei e Liang Junlan hanno affrontato il tema della governance globale di internet e del percorso internazionale di difesa della sovranità di rete, per cui mi concentrerò su altri aspetti.

Secondo gli Internet Live Stats, il numero di utenti a livello mondiale ha superato i 3,4 miliardi e di questi 721 milioni vivono in Cina che, quindi, ha il dovere di porsi il problema della governance di internet. Già nel 1999 la Repubblica Popolare ha lanciato il Golden Shield Project (o “Great Firewall of China”), lo strumento principale per la tutela della sicurezza nazionale nel dominio digitale. Recentemente due proposte legislative (nel settembre 2013) hanno esteso il controllo non solo sugli Internet Service Providers, ma anche sui Telecommunication Service Providers (rendendo obbligatoria l’autentificazione dell’identità dei consumatori). Ciò rappresenta il primo passo verso la creazione di un sistema legislativo per la protezione delle informazioni personali dei consumatori (tale legge era inesistente in Cina), testimoniando una crescente attenzione per le richieste ed i diritti individuali del popolo cinese. Tutto questo avviene nell’assenza di una definizione condivisa, a livello internazionale, di cyber security. La comunità internazionale non è ancora riuscita a fornire uno strumento legislativo per regolamentare, prevenire e rispondere alle minacce provenienti dal cyberspazio.

Dopo il 18mo Congresso del PCC, si è inoltre costituito il Central Internet Security and Information Leading Group (27 febbraio 2014), che risponde direttamente al presidente Xi Jinping, il quale ha assunto la responsabilità personale di delineare la cyber strategy della nazione, a testimonianza dell’impegno del Partito Comunista in questa direzione. Già nell’aprile del 2001, la Cina aveva subito un primo palese attacco di “cyber-war”, allorquando intercettarono e ne forzarono l’atterraggio di un aereo spia americano che impunemente sorvolava senza autorizzazione il suolo cinese per spiare e studiare le aree sensibili e militari. La creazione di una struttura ad hoc si è resa necessaria dopo che le dichiarazioni dell’ex contractor Edward Snowden sembrarono provare il diretto coinvolgimento del National Security Agency degli Stati Uniti in un elaborato sistema di spionaggio e raccolta dati ai danni di privati cittadini, governi alleati e possibili competitors. Obama ha ampliato il focus della Cyber-security dal settore militare (come avevano fatto prima di lui Clinton e Bush) all’intera nazione: dal singolo cittadino ai comparti industriali e la Nato continua ad inserire la Cina (assieme alla Russia) tra le principali minacce del cyberspazio. In un recente documento del Nato Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence (Ccdcoe), dal titolo: “China and Cyber: Attitudes, Strategies, Organisation”, si definisce Pechino un attore il cui approccio è fortemente orientato allo spionaggio industriale e militare e che denota una crescente attenzione alle operazioni nel cyberspazio.

Eppure nei paesi occidentali, il “mito di internet” viene presentato non come una dimensione della competizione tra gli stati (o della guerra tra essi), ma come uno strumento di emancipazione capace, assieme alla rivoluzione tecnologica avviata dalla Silicon Valley americana, di fungere da leviatano per far emergere un nuovo capitalismo. Ma è davvero così?

Internet e la rivoluzione tecnologica, nel mondo capitalistico, hanno costruito la propria legittimità sull’idea che il proprio sviluppo sarebbe stato un processo emancipatore per larga parte della popolazione umana, attraverso l’ampliamento della “democrazia della rete”, l’obiettività dell’analisi dei dati, l’orizzontalità e l’immediatezza nelle comunicazioni tra le persone. Inoltre, si affermava che la raccolta dei “big data” (resa possibile dalla tecnologia digitale e dall’inconsapevole cessione gratuita di tutti i propri dati sensibili a corporation private da parte delle persone) e la loro analisi per mezzo degli algoritmi, avrebbe permesso un nuovo tipo di conoscenza.

 

In realtà gli studi della ricercatrice Antoinette Rouvroy, recentemente presentati (Gennaio 2016) al Consiglio d’Europa, dimostrano come ciò che è stato costruito, altro non è che un vero e proprio “metodo di governo” basato su dogmi ideologici, codificati negli algoritmi, che rendono impossibile qualunque genere di critica e discussione. Ella ha chiamato tutto questo “algorithmic governmentality (governamentalità algoritmica)”, basata sulla “big data ideology”. Piuttosto che elargire maggiore libertà e democrazia agli individui, la nuova rivoluzione tecnologica sta creando una nuova forma di “organizzazione scientifica del lavoro” (F. W. Taylor) basata sul “management algoritmico” che in applicazioni molto famose in occidente come Uber e Deliveroo hanno già dato vita ad una forma di Taylorismo 2.0: «Gli algoritmi – ha affermato infatti Jeremias Prassl, docente di diritto ad Oxford – permettono un grado di controllo e di vigilanza che neanche i tayloristi più incalliti avrebbero mai sognato».

 

Non soltanto: uno studio del Guardian ha dimostrato che gli algoritmi tendono a penalizzare i lavoratori più poveri e svantaggiati e la tendenza è quella di «creare una classe sociale di persone che si ritroveranno inspiegabilmente (ai loro occhi ndr) emarginate».

 

Pertanto, al posto di essere un processo emancipatore e democratico, la tendenza oggi prevalente dello sviluppo di internet e della rivoluzione tecnologica concepita nei laboratori delle multinazionali statunitensi è quella di definire un nuovo tipo di concetto di individuo. Questo non tiene conto della persona e dei suoi bisogni, ma la valuta come un’aggregazione temporale di dati, che genera valore e che è indicizzabile secondo parametri numerici, come per esempio il numero di amici sui social network, il gradimento dei follower, etc.

..

Pertanto, la nuova promessa emancipatrice del capitalismo (sotto lo slogan: “internet ci rende tutti liberi ed eguali”) si trasforma in una nuova versione di Taylorismo ed esclusione dei più poveri.

Ma c’è un altro aspetto. Chi usa (e quindi: chi genera valore e profitto) dall’analisi dei big data? Le multinazionali tecnologiche della Silicon Valley hanno costruito la propria legittimità sostenendo di essere in prima linea nella lotta contro il vecchio capitalismo, oramai incapace di innovare. È davvero così? Io non credo.

 

Soltanto facendo l’esempio di Google, possiamo vedere come società ed essa collegate abbiamo costruito in questi anni accordi con le più grosse aziende farmaceutiche (la Alphabet, che controlla Google, ha fondato assieme alla GlaxoSmithKline una newco da 715 ml di dollari nel campo della bioelettronica e la 23andMe, sostenuta da Google, ne ha chiuso uno analogo con la Pfizer) che usano i big data per i loro usi e scopi. In sostanza appare sempre più chiaro come le aziende tecnologiche dei paesi occidentali siano diventate la porta d’accesso del capitalismo ad alcuni ambiti della nostra vita privata, fino ad ora inaccessibili per ragioni politiche o etiche. Il dati sulla nostra vita, sulla salute o sul nostro comportamento “sociale”, che prima erano inaccessibili per le aziende farmaceutiche o di marketing, ora sono registrati, salvati, immagazzinati e processati dalle nuove piattaforme social. E queste, quindi, anziché realizzare il mito della libertà degli individui e della rottamazione delle aziende del vecchio capitalismo, lo rendono nei fatti ancora più resiliente e pervasivo nella vita degli individui. In poche parole, rendono il vecchio capitalismo ancora più difficile da soppiantare.

Pertanto, lo sviluppo di questi processi è un terreno ancora poco esplorato di approfondimento e ricerca da parte dei marxisti di tutto il mondo e di costruzione di forme efficaci di lotta che, acquisendo il meglio dei progressi e dei contenuti ideologici del progresso scientifico, tecnologico ed informatico, ne combattano le forme di alienazione, espropriazione dei diritti e nuove forme di sfruttamento e determinino le condizioni per una nuova fase dello sviluppo umano in cui si affermi l’uguaglianza tra gli individui e quella tra le nazioni e si affermino i principi del socialismo.