Un ottimo editoriale di Guido Salerno Aletta
La Cina guarda al Mediterraneo, tornato nuovamente centrale nella geopolitica. La Via della Seta di cui tanto si parla, chi palesando il timore di una espansione eccessiva di Pechino e chi ipotizzando con malcelata baldanza chissà quale nuovo Eldorado, ha due componenti distinte, come chiarisce l’acronimo BRI, che sta per Belt & Road Initiative.
Si snoda dunque sia per vie terrestri che per rotte marittime, ma nessuna sembrerebbe toccare i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo. Dopo il Pireo, che dà accesso ai Balcani meridionali, ora sarebbe la volta dei porti italiani: se ben collegati per via ferroviaria e stradale con il resto del continente europeo, consentirebbero di ridurre i tempi di trasporto rispetto alle rotte che proseguono fino ai porti del nord Europa passando per Gibilterra.
Quando da Bruxelles si chiede all’Italia di attendere che sia l’Unione europea a trattare unitariamente con la Cina, c’è dietro il terrore di un ribaltamento dei traffici a danno dei porti tedeschi ed olandesi.
Concentrandosi su questi aspetti, i Paesi della sponda sud del Mediterraneo sembrerebbero addirittura ignorati dalla strategia cinese, che invece ha mantenuto stretti i rapporti con questa parte dell’Africa. Di queste relazioni si dà conto nell’ambito del Forum sulla cooperazione tra Cina ed Africa (FOCA) la cui ultima edizione si è tenuta il 3-4 settembre scorso a Pechino, con la partecipazione dei delegati di ben 53 Stati africani. Non solo il comunicato finale di questo evento ha adottato la stessa intitolazione enfatica dei G7 di iniziativa occidentale, “Dichiarazione di Pechino – Verso una Comunità Cina-Africa sempre più forte con un futuro condiviso”, ma addirittura ne viene copiato l’incipit: “Noi Capi di Stato, di Governo e Delegazioni…”. Questa è la vera globalizzazione, quella dei modelli di comunicazione, ormai indistinguibili se non per i partecipanti e la ben diversa leadership. Che la Cina non faccia parte del G7, formato ridotto dopo aver escluso la Russia per via della annessione della Crimea, non fa sorridere: spiega solo qual è la nuova partizione del mondo.
Le relazioni tra la Cina ed i Paesi della sponda sud del Mediterraneo sono quanto mai strette, e ci riguardano da vicino. Nei rapporti con l’Algeria, infatti, Italia e Cina sono i primi partner commerciali. L’Eni, come partner della Sanotrach, la società di Stato algerina attiva nel settore energetico, ha un volume di attività che è otto volte superiore a quella della francese Total. La Cina si muove in forze: la società di Stato Citic sta costruendo un impianto per la produzione di fosfati, così come sono sempre cinesi le imprese che stanno costruendo la Grande Moschea di Algeri, che sarà la terza al mondo per dimensioni, dopo quelle di La Mecca e Medina. Ed ancora, tra il 2000 ed il 2014,, hanno realizzato ben 13 mila chilometri di strade e 3 mila di ferrovie, oltre ad avere l’appalto per la costruzione degli alloggi dell’edilizia popolare.
La Cina è anche il principale partner commerciale dell’Egitto, con un interscambio di 12 miliardi di dollari. I turisti cinesi sono sempre più numerosi, passati dai 120 mila del 2015 ai 180 mila del 2016. Anche qui, il settore delle costruzioni è importante: avrà la targa di Pechino la nuova capitale amministrativa, un immenso quartiere alla periferia ad est de Il Cairo, che sorgerà dopo l’avvenuto completamento del Central Business District, costato 3 miliardi di dollari ed ampiamente finanziato dalle banche cinesi.
Il Cairo ha un enorme interesse ad agevolare Pechino: gli affluiscono i ricchi proventi derivanti dal passaggio delle merci cinesi attraverso il Canale di Suez, il cui raddoppio è stato realizzato in appena un anno al costo di 8,6 miliardi di dollari, raccolti sul mercato in una sola settimana. Ora consente il passaggio alle navi di qualsiasi dimensione e nei due sensi per tutto il percorso, riducendo il tempo di transito dalle 12/16 ore del primo tracciato a sole 6/7 ore. Per le merci cinesi è un grande vantaggio, sia in termini di costi che di tempo di arrivo a destinazione: navi più grandi e tragitto più veloce. Approdare nei porti italiani aggiungerebbe ulteriori benefici.
I progetti di nuovi porti, sempre con il supporto cinese, riguardano sia l’Algeria che l’Egitto. Nel primo caso, sarà realizzato ad El Hamdania, a circa 70 chilometri ad ovest di Algeri, mentre in Egitto si sfrutteranno le acque di Al Alamein, che è già un terminal petrolifero.
Anche con la Libia, ai tempi di Gheddafi, i rapporti con la Cina erano stretti. Si interruppero, come tutti per gli altri, con il rovesciamento del regime, e ben 33 mila lavoratori cinesi che erano impegnati nel settore delle costruzioni furono evacuati dalle autorità di Pechino nel febbraio del 2011 in condizioni difficilissime. Ora, tutto fermo.
La Tunisia pure ha rapporti stretti: oltre agli scambi culturali ed alle consuete donazioni che hanno un carattere promozionale, va rimarcato un memorandum firmato a settembre scorso nell’ambito del FOCA: prevede l’espletamento degli studi preliminari alla realizzazione di un ponte che colleghi l’isola di Djerba alla città di Jorf, la costruzione di un’area logistica di mille ettari asservita al porto di Zarzis, ed una linea ferroviaria che collegherà questo a Gabes passando per la città di Medenine. Fin qui, niente di nuovo: porti ed infrastrutture, come è nella logica della nuova Via della Seta.
La vera novità della strategia cinese nel Mediterraneo è contenuta in un secondo memorandum, sottoscritto sempre a settembre scorso dal Presidente tunisino Youssef Chahed e da quello cinese Xi Jinping: la compagnia di Stato cinese Saic, in partnership con l’impresa locale Meninx, procederà alla realizzazione in Tunisia di una fabbrica di automobili, destinate anche all’esportazione. L’unità produttiva in Tunisia sarà la prima ad essere sviluppata al di fuori della Cina e la prima ad avere come obiettivo i mercati del Mediterraneo e dell’Africa. La sfida è di peso, visto che non solo la Saic è una delle Big Four della industria automobilistica pubblica cinese, insieme a Chang’an Motors, FAW Group, e Dongfeng Motor, ma è anche quella che nel 2014 ha realizzato in assoluto il maggior numero di vetture, con oltre 4,5 milioni di esemplari. Anche la Cina avvia così iniziative industriali di sostituzione per tutta una serie di produzioni che non conviene più realizzare all’interno e poi esportare.
La Cina non fa altro che riempire i vuoti creati dall’Occidente, sfruttando le sue contraddizioni politiche. Basta ricordare le conclusioni del G8 di Deauville, che si svolse tra 26 ed il 27 maggio del 2011: non solo dette il via libera alle “primavere arabe”, con tanto di promessa di aiuti finanziari ai Paesi che finalmente si aprivano alla democrazie, Tunisia ed Egitto in testa, ma si stigmatizzarono i comportamenti repressivi dei governi di Libia e Siria. Per molti dei Paesi occidentali che sono stati tanto attivi in questo sostegno alle rivolte ed alle guerre civili che si sono scatenate è davvero difficile ora presentarsi con il ramoscello in mano. E soprattutto sono poco credibili quando dipingono il Dragone cinese come il loro vero nemico.
Il sostegno dato alle Primavere arabe ed alle rivolte contro i governi non democratici ha determinato flussi incontrollabili di immigrazione che si sono abbattuti sull’intera Europa, sia per il venir meno della frontiera meridionale libica sia per gli esodi dalla Siria insanguinata dall’ISIS. Chi avesse voluto avvelenare i pozzi, creando instabilità nel nostro continente, c’è riuscito perfettamente. Un’America devastata dalla crisi del 2008 avrebbe avuto vantaggio ad innescare una situazione di crisi in tutta la sponda sud del Mediterraneo, ma al prezzo di non poterci più mettere piede e di lasciare campo libero alla Cina ed alla Russia.
L’Unione europea, per parte sua, ha ancora più gravi responsabilità, avendo osteggiato in ogni modo il progetto di Unione Euro Mediterranea che fu lanciato a metà del 2008, sotto l’egida congiunta del Presidente francese Francois Sarkozy e di quello egiziano Hosni Mubarak. E, di certo, non furono casuali i due primi viaggi all’estero nell’estate di quell’anno: da parte del Premier italiano Silvio Berlusconi a Bengasi, con la firma di un Trattato di particolare amicizia con la Libia; e da parte di Sarkozy ad Algeri, per chiudere finalmente le ferite ancora aperte della decolonizzazione. Il Presidente americano George Bush vedeva di buon occhio la stabilizzazione del Mediterraneo, sosteneva la presenza militare degli occidentali nell’hearland asiatico per ostacolare l’espansione geopolitica della Cina e della Russia, presidiando Iraq ed Afganistan, e teneva alta la pressione sull’Iran. Nel 2009 gli subentrò Barack Obama, che aveva tutt’altra strategia: l’America si ritirava militarmente, lasciando spazio al disordine. Non soltanto ne suscitava dell’altro in tutto il Mediterraneo, ma a conclusione del suo mandato tolse le sanzioni all’Iran con un trattato che Donald Trump ha subito strappato.
L’Europa ha deluso le aspettative dei Paesi del Mediterraneo, che pure aveva suscitato con solennità nel 2008. Gli Usa, proclamando di promuovere la democrazia, hanno seminato l’instabilità. Se ora la Cina si presenta dappertutto come un interlocutore affidabile, è soprattutto perché siamo stati noi occidentali ad averle spianato la strada.