di Giacomo Marchetti
Partiamo da un dato certo: la Cina è stato il primo Paese a doversi confrontare con la pandemia e a dovere affrontare le conseguenze economiche delle sue drastiche scelte per sconfiggere il contagio.
A conti fatti le scelte politiche effettuate hanno pagato, e secondo l’OCSE sarà l’unico Paese del G20 a raggiungere la crescita.
Mentre l’UE affronta drammaticamente la “seconda ondata” di contagi, e gli USA – da quando erano divenuti il primo epicentro mondiale della pandemia – non sono veramente mai usciti dalla prima, la Cina registra solo qualche caso “importato” dall’estero – per una decina di casi, la città portuale di Quingdao ha testato in tre giorni i suoi 9 milioni di abitanti! – e viaggia a gonfie vele verso una ripresa economica che non ha eguali.
I successi economici
La settimana di vacanza che si svolge nella prima settimana d’ottobre – la cosiddetta “settimana d’oro” – ha visto spostarsi all’interno dei confini della Repubblica Popolare ben 637 milioni di cittadini cinesi (più dell’intera Unione Europea…), migliorando di molto la performance positiva del lungo weekend di vacanza del Primo Maggio, e confermando gli aumenti dei consumi – rispetto al 2019 – già registrati a fine agosto nel 2019.
Già il Pil del secondo trimestre era aumentato del 3,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, dopo la contrazione del 6,8% nel primo, il periodo di maggiore incisività della Pandemia.
Questo trend positivo registra due importanti fattori di novità, oltre la ripresa dei consumi interni e delle importazioni: la valuta cinese si rafforza rispetto al dollaro, proprio quando si hanno risultati positivi sulla sperimentazione della sua cripto-valuta, che ha già 2 milioni di utenti e che avrà ad Hong Kong uno dei teatri più avanzati di test.
La Cina diventa sempre un polo d’attrazione per gli investitori internazionali facendo registrare, anche nelle borse lì basate, un picco di capitalizzazione – oltre i 10 mila miliardi – in grado di eguagliare la performance del 2015, ma in un contesto molto differente.
La Cina è il secondo mercato finanziario mondiale dopo gli USA, quattro volte più “ricco” ma molto più basato su capitale fittizio, mentre quello della Repubblica Popolare è per ora strutturalmente ancorato a solidi fondamentali economici, oltreché meno “volatile”.
In primis, il peso del retail (operatori “al dettaglio”, ossia su importi limitati) è notevolmente diminuito ed i possibili effetti di una “bolla finanziaria”, legati alla speculazione immobiliare, sono stati complessivamente sterilizzati (così come il peso politico di questo tipo di speculatori), mentre gli investitori internazionali, assenti dieci anni fa, ora costituiscono circa il 5% del totale, oltre ad essere sempre più presenti nel sistema finanziario cinese “riformato” .
Mentre nel 2010 il retail costituiva oltre il 60%, oggi pesa poco più del 20%. Il resto – a parte la fetta dei grandi nomi della finanzia internazionale – sono investitori istituzionali cinesi: un mercato finanziario di fatto dominato per più del 70% dal pubblico.
Come ha dichiarato un dirigente di Bank of America: “gli investitori sono alla ricerca della crescita e la vedono scarseggiare altrove, così vedono una enorme fetta di opportunità in Cina.”
In più, la Cina ha recentemente messo sul mercato una offerta di bond decennali che è andata ruba, per un valore totale di 27 miliardi di dollari, 10 in più del valore dell’asta dell’anno scorso. Circa il 15% dei compratori è di provenienza nord-americana, stando a ciò che riporta il «Financial Times», attirati dai maggiori tassi d’interessi offerti dalla Repubblica Popolare rispetto a quelli applicati in Europa e negli Stati Uniti.
Ma al di là del “differenziale” netto che orienta gli investimenti, vi è una sottostante fiducia nell’economia cinese, oggi un unicum nel panorama mondiale.
Ripetiamo meglio il concetto: i big della finanza USA comprano debito pubblico cinese alla faccia dell’ostilità che vorrebbe imporre l’attuale amministrazione statunitense.
Come ha brillantemente sintetizzato Diana Choyleva, economista-capo di Enodo Economics, in un articolo dal titolo illuminante, “Il Renmimbi si rafforza mentre la Cina si rafforza“:
«La Cina è sempre più irritata dalla dipendenza dal dollaro e desidera promuovere un maggiore utilizzo transfrontaliero del renminbi. La debolezza della valuta minerebbe questo obiettivo strategico, inviando un segnale sbagliato alle banche centrali e ai fondi sovrani, che potrebbero prendere in considerazione l’aumento delle loro partecipazioni in renminbi, soprattutto in un momento di turbolenza politica negli Stati Uniti. Anche la Cina spera particolarmente nell’adozione di una nuova valuta digitale, ora in fase di sperimentazione avanzata, da parte di altri paesi. Mantenere alta la fiducia nel renminbi “analogico” sarà fondamentale per ottenere molti ‘convertiti’ al suo gemello digitale. La forza del renminbi serve un altro importante scopo strategico: attrarre capitali stranieri.»
Questa condizione favorevole dal punto di vista economico è stata ottenuta grazie innanzitutto ad una precisa risposta sanitaria, che occorre analizzare.
La vittoria sulla pandemia e la ricerca del vaccino
La Repubblica Popolare si è trovata in una situazione in cui non poteva contare sui vantaggi gestionali e di esperienza disponibili per chi è stato colpito successivamente; ed è stata caratterizzata all’inizio da diversi errori che non solo sono stati riconosciuti a livello formale dalla propria dirigenza, ma che soprattutto non si sono ripetuti in seguito.
Il percorso “virtuoso” iniziato ai primi di gennaio non ha avuto poi alcuna defaillances e la trasparenza con cui ha socializzato le sue informazioni è stata complessivamente alta, nonostante una prima fase turbolenta con l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Infatti, sebbene la Cina abbia “bloccato” una delegazione dell’OMS che voleva visitare Wuhan nelle prime settimane dello scoppio del contagio, il segretario generale dell’OMS, T.A. Ghebreyesus, si è recato il 29 gennaio a Pechino per incontrare il premier cinese Xi Jinping e negoziare l’accesso e la condivisione delle informazioni.
“Un team di esperti internazionali, tra cui due statunitensi del CDC e del NIS, si è potuto recare nell’epicentro della pandemia il 22 febbraio, fornendo un chiaro esempio sia della capacità diplomatica dell’attuale direttore dell’OMS, sia della volontà della Cina di collaborare, dopo l’iniziale sottovalutazione della pericolosità del contagio”, Così avevamo ricordato su questo giornale quando Trump aveva dichiarato di volere tagliare i fondi all’OMS, da lui accusata già prima di essere sino-centrica.
Allo stesso tempo, la ricerca iniziale per un vaccino disponibile per tutti è stata resa possibile dal fatto che il Chinese Center for Disease Control and Prevention e la Chinese Accademy of Medical Science, il 10 gennaio di quest’anno, hanno reso pubbliche le 30.000 lettere “biochimiche” del codice genetico del virus.
Le cose sono abbastanza chiare, e c’è poco da speculare, a meno di non essere in cattiva fede.
Parliamoci chiaro: in Cina il contenimento della pandemia non è mai diventato “convivenza forzata con il virus”, ma azione per debellarlo, in attesa che venissero prodotti dei vaccini in grado di immunizzare la popolazione, spezzando innanzitutto la catena del contagio .
Già a metà aprile era possibile trarre un bilancio di ciò che la Repubblica Popolare aveva fatto fino ad allora, e già a fine marzo si poteva abbozzare un quadro comparativo piuttosto impietoso tra la gestione del primo focolaio del virus – Wuhan – e ciò che era diventato in quel momento più grande focolaio mondiale: la Lombardia.
I due territori infatti sono per molti versi omogenei per demografia e funzione economica che svolgono nei rispettivi Paesi.
Il “modello cinese” – come quello cubano, venezuelano, vietnamita o del Kerala in India – avrebbe dovuto fare scuola, quello lombardo va invece probabilmente scolpito nel marmo come imperituro monumento all’infamia: da un lato il privilegiare la salute e dall’altro il profitto, con le conseguenze che ancora oggi si riverberano su di noi.
Non importa poi se il tutto trova una sua teorizzazione nell’“immunità di gregge”, alla fine si tratta di una spietata concezione eugenetica: sono i più deboli a dover crepare.
Nella corsa al vaccino, poi, la Repubblica Popolare è in pole position, se si considera che sui 9 vaccini sperimentali attualmente alla terza fase – quella più avanzata – , 4 sono made in China: 2 da una industria pubblica (la China National Pharmaceutical Group) gli altri da aziende private: Sinovac e CanSino.
Cuba, con un proprio vaccino contro il Covid-19, è uno degli altri Paesi all’avanguardia nella sperimentazione .
Nell’ultima assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a maggio il premier cinese Xi Jinping è stato chiaro sul fatto che le eventuali scoperte cinesi in questo campo dovranno essere considerate un bene comune mondiale: “Lo sviluppo e la distribuzione di vaccini COVID-19 in Cina, ove disponibili, saranno resi pubblici a livello mondiale. Questo sarà il contributo della Cina per garantire l’accessibilità dei vaccini nei paesi in via di sviluppo”.
Recentemente la Pechino ha poi ha aderito al progetto COVAX dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che permetterà, attraverso una sessantina di Paesi donatori, di far avere il vaccino anche ai Paesi più poveri.
Venerdì scorso, uno dei porta-voce del Ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha spiegato che: “essendo la Cina in testa a livello mondiale, con numerosi vaccini in fase avanzata di ricerca e di sviluppo e con una grande capacità di produzione, ha deciso di aderire a Covax”.
Ritorniamo ai dati…
Quali sono stati i risultati? 90.925 contagiati e 4.739 morti in Cina (al 17 ottobre 2020).
In pratica, meno contagiati di quelli che stanno facendo registrare gli Stati Uniti in due giorni – 59.751 nella sola giornata del 14 ottobre, con una impennata del 23% rispetto a due settimane fa – ed il totale dei decessi che si registrano in meno di una settimana negli Usa. Erano 1.011 le morti in Nord-America il 14 di questo mese. Se guardiamo al totale il confronto è impressionante: oltre 8 milioni di contagi e più di 218mila morti negli USA (alla data di oggi).
Anche se si dovesse dubitare sui numeri cinesi, come fa una parte dell’informazione di questo Paese, l’ordine di grandezza resta invariato.
Stando al tracciamento del coronavirus della Johns Hopkins, gli USA hanno sofferto di 65,74 morti da Covid-19 ogni 100.000 abitanti, mentre la Cina 0,34 per 100 mila abitanti!
E sono tutte cifre in via di peggioramento…
La transizione Ecologica
L’annuncio del 22 settembre, fatto dal leader cinese, circa la volontà di abbandonare il carbone entro il 2060 è una vera e propria “bomba” che pone la Repubblica Popolare come uno dei principali player della transizione ecologica, inserendola in un consorzio multilaterale con un ruolo da protagonista. Anche perché è noto che quando il governo cinese decide di fare qualcosa, poi lo fa; non come certe potenze imperialiste che firmano gli accordi di Parigi e poi tornano indietro senza fare assolutamente nulla…
Si è insomma di fronte ad un nuovo ciclo di “distruzione creatrice”, con al centro le profonde trasformazioni della più importante economia mondiale in direzione della “green economy”, verso la quale stava peraltro già muovendo importanti passi.
«Il Partito e lo Stato», afferma Laurent Malvezin, consulente presso il Comité franco-chinois d’intelligence stratégique et d’innovation de CCI France, «stanno creando una nuova generazione di parchi industriali “inclusivi” per attrarre nuove tecnologie high-tech, “verdi” e soprattutto straniere, che vedranno riversarsi lì la maggior parte della concorrenza-mondo, per accelerare il trasferimento di tecnologie molto ambite.»
Una rivoluzione che si affianca alla sfida per la leadership dell’auto-motive elettrico.
Continua il consulente su Le Monde:
«L’obiettivo non è nuovo: creare nel suo territorio e nelle sue enclaves giurisdizionali quanti più centri decisionali e centri di ricerca e sviluppo possibili per diventare rapidamente il centro gravitazionale dell’innovazione globale nelle tecnologie carbon free in senso stretto, ma anche per quanto riguarda tutte le nuove tecnologie correlate, che contribuiscono allo stesso obiettivo di riduzione della bolletta energetica complessiva, ed in particolare l’intelligenza artificiale.
La Cina ha trovato nel clima globale la causa di un nuovo compagno di viaggio, per quarant’anni di ulteriori “riforme e aperture”, ma c’è da temere che in realtà siano appoggiate, o addirittura subordinate, a più obiettivi, rigorosamente nazionali rispetto a quelli esposti.
Il prossimo Plenum del Partito Comunista, che si terrà a fine ottobre a Pechino, fornirà una panoramica, dettagli altrimenti attesi, della realtà dell’impegno della Cina nella globalizzazione post-Covid-19 e post-carbone».