di Maria Morigi
La “Dichiarazione Universale dei diritti umani” del 1948 proietta su scala globale un insieme di “Valori” che sono in gran parte il frutto della sola cultura occidentale, riflettendo l’aspirazione dell’Occidente a dominare il mondo attraverso il proprio linguaggio e la propria cultura. Molti autori ne hanno discusso criticamente[1], rilevando come la Dichiarazione si sia prestata a giustificare guerre umanitarie, “esportazione di democrazia” e ingerenze per nulla rispettose della sovranità degli Stati. Si tratta, in sostanza, di un ordinamento dal carattere asimmetrico, che risulta inapplicabile a domare le forze che minacciano la pace mondiale,nonostante l’elenco di buone intenzioni e le proibizioni solenni presenti nello statuto di fondazione.
La strategia del controllo statunitense si è infatti dispiegata come arma di distruzione del presunto nemico,proprio grazie al capillare utilizzo di accuse di violazione dei Diritti Umani, fornite da una ben collaudata organizzazione.
Ed ecco come funziona questa “macchina”: l’ONU delega ad un’istituzione indipendente (Committee on the Elimination of Racial Discrimination -CERD) il monitoraggio della discriminazione razziale, le relazioni dei vari Stati e l’ascolto dei contributi delle ONG. Nella relazione finale i 18 membri nazionali inseriscono i propri rilievi; acquisita la relazione finale, la teoria diventa pratica e viene lanciata la campagna di delegittimazione intensivamente diffusa dai media. [N.d.r.: gli USA non accettano la supervisione del CERD sul loro territorio]
Contro le presunte violazioni di diritti (anche nel caso della Cina), l’ONU si avvale del metodo di inchiesta organizzato da enti e associazioni che sono una galassia ben sostenuta dal National Endowment for Democracy (NED), il cui database a partire dal 2014 mostra finanziamenti a centinaia di progetti finalizzati a “sostenere il lavoro dei difensori dei diritti umani in Cina”. Quasi tutti i cosiddetti “rapporti credibili” provengono da un gruppo finanziato dai governi occidentali, ovvero la Rete dei Difensori dei Diritti Umani in Cina (China Human Rights Defenders, CHRD) creata nei primi anni Ottanta con l’ obiettivo di rendere “efficaci” le organizzazioni “pro-democrazia” nel mondo, eattiva nei confronti dei Paesi individuati dalle linee di politica estera di Washington come nemici o competitor.
CHRD, come si evince dal modulo fiscale, nel 2015 ha goduto per il 99,94% di finanziamenti da istituti governativi, in particolare dal NED. D’altronde basterebbe la dichiarazione (Washington Post 1991) di Allen Weinstein, uno dei fondatore della NED: “Un sacco di cose che facciamo oggi è stato fatto clandestinamente dalla CIA per 25 anni”. Il Consiglio di CHRD è costituito da attivisti cinesi esiliati: il presidente Su Xiaokang, ha ammesso di “essere deluso” quando Washington fallisce l’obiettivo; uno dei direttori, il dissidente Teng Biao si è vantato di essere stato definito un “reazionario” dal PCC; uno dei segretari, Prof. Perry Link, ha stilato una “lista nera” di accademici favorevoli alla Cina e sostenuto la necessità di chiudere ogni finanziamento agli Istituti Confucio.
Passiamo ora sul campo avverso. Benché poco noto al grande pubblico, anche in Cina si è discusso di Diritti e Valori, fin dalle Riforme dei 100 giorni (1898), quando il mondo cinese si confrontò con la colonizzazione occidentale e la polemica verteva sulla promozione dell’ occidentalizzazione o, in alternativa, sulla difesa dei valori autoctoni della tradizione cinese di Stato-civiltà. Secondo il principio “Sapere cinese come sostanza, Sapere occidentale come mezzo”, la Cina della Repubblica accogliendo il sapere occidentale sul piano strumentale, cercava di difendere e preservare la peculiarità cinese sul piano etico-politico.
L’ideologia neo-confuciana dei “Tre Cardini”, che sanciva la sottomissione dell’individuo all’ ordine sociale, venne riproposta per superare la frattura tra i fautori della totale occidentalizzazione (Quanpan xihua) e i difensori della base cinese (Zhongguo benweilun). E ricordiamo che nel dicembre 1953, il primo ministro Zhou Enlai sostenne i Cinque Princìpi di coesistenza pacifica: rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza, vantaggio reciproco e coesistenza pacifica.
Negli anni ’80, dopo la stretta della Rivoluzione culturale, è ritornata l’idea di occidentalizzazione, lanciata da Deng Xiaoping e dal progetto “Quattro Maggio” con propositi di emancipazione individuale, autodeterminazione politica, fiducia in scienza e tecnologia occidentali. Ma si riaccendeva anche, intercettato e fatto proprio dal PCC, l’interesse per le tradizioni nazionali che vide un nuovo connubio fra confucianesimo e potere, in cui il confucianesimo forniva il valore di “Armonia” (Hé), per regolare l’ordine sociale, ricomporre le fratture provocate dal Mercato, superare le disparità e sconfiggere la povertà. Si tenga anche presente che dal 25 ottobre 1971 la RPC occupa un seggio alle Nazioni Unite, trovandosi a cooperare per il rispetto dei Diritti con la Dichiarazione del 1948.
Con la Cina ormai divenuta protagonista globale grazie alla crescita economica, si è dimostrata la validità della via cinese allo sviluppo e il diritto ad affermare nel mondo la soggettività cinese. La questione dei Valori dibattuta tra studiosi della Chinese Academy of Social Sciences (CASS) sfociò così nella promozione ufficiale della “eccellenza della cultura cinese tradizionale”, formulata da Xi Jinping.
Nel Discorso (esplicitamente ispirato al Classico Guanzi del periodo pre-imperiale) “I giovani devono consapevolmente mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo” – conferenza all’Università di Pechino del maggio 2014 – Xi Jinping afferma i valori fondamentali che la Nazione e lo Stato cinese difendono: “abbiamo scelto di promuovere i valori di prosperità, democrazia, civiltà e armonia; quindi libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge; quindi patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amichevolezza, al fine di coltivare e mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo”. (Xinhua, 4 maggio 2014). Una lista che include democrazia, libertà, uguaglianza, giustizia, governo della legge e offre l’interpretazione cinese aggiornata dei “Valori universali”.
Esponente dell’ideologia di Partito in una visione culturalista e tradizionalista è Chen Lai, studioso di “Saperi Nazionali” all’Università Qinghua di Pechino. Nell’articolo “Conosciamo a fondo i valori distintivi della Cina”, pubblicato dal Quotidiano del Popolo il 4 marzo 2015, Chen Lai contrappone i valori occidentali ai valori cinesi, identificando i primi nell’individualismo della modernità liberale che, incapace di promuovere un’etica della responsabilità fra cittadini, antepone l’interesse privato al bene sociale. Scrive Chen Lai: “…Se confrontati con quelli della modernità occidentale, i valori cinesi evidenziano quattro caratteristiche: 1-La responsabilità viene prima della libertà, 2-Il dovere viene prima dei diritti, 3-Il gruppo è superiore all’ individuo, 4-L’armonia è superiore al conflitto”.
Indico ora le organizzazioni cinesi che conosco per serietà e attendibilità, operanti in ambito ONU e attive in campo progettuale con obiettivi specifici di sviluppo e con il compito di fornire monitoraggio e dati documentari: China Association for Preservation and Development of Tibetan Culture (CAPDTC), China Ethnic Minorities’ Association for External Exchanges (CEMAFEE), China Tibetology Research Center (CTRC).
Va da sé che tali associazioni sono effettivamente governative, sovvenzionate dallo Stato e legate ad istituzioni universitarie e di ricerca. Non godono di finanziamenti privati. Ho potuto in più occasioni seguire a distanza i lavori di seminari e congressi, cuiosservatori e giornalisti stranieri partecipavano come invitati, e sono rimasta impressionata dalla capacità organizzativa e dal fatto che in quelle sedi non si fanno teorie, libri dei sogni o discussioni accademiche, ma ogni relazione, orientata verso una apprezzabile concretezza di obiettivo-progetto, fornisce dati reali e affronta ipotesi di sviluppo in territori specifici anche presso singole comunità.
Note:
1. Segnalo lo studio di Ai Silin e Qu Weijie “Critica della dottrina occidentale dei diritti umani” (N°1 Rivista Marx ventuno, pag 127) e il saggio fondamentale di Danilo Zolo, filosofo e giurista scomparso nel 2018, “La giustizia dei vincitori: Da Norimberga a Baghdad” (Laterza 2014)