di Michelangelo Cocco
Sulla quinta sessione plenaria (plenum) del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese, che si svolgerà a Pechino dal 26 al 29 ottobre, saranno puntati gli sguardi dei potenti del mondo, interessati a capire come la seconda economia del pianeta intenda reagire all’uno-due della guerra commerciale-tecnologica scatenata dall’Amministrazione Trump e della pandemia di coronavirus.
Dopo che il IV plenum (28-31 ottobre 2019) aveva decretato la linea dura contro i ribelli di Hong Kong, questa volta i 204 membri permanenti e i 172 supplenti del CC si concentreranno sulla discussione del XIV Piano quinquennale (2021-2025), che sarà formalmente approvato in primavera dall’Assemblea nazionale del popolo.
Nuova era cinese e opportunità nella crisi
L’economia si riprende dunque il centro della scena. Non poteva essere altrimenti in una fase segnata dal secondo shock globale del capitalismo in poco più di dieci anni. Come già in occasione della crisi finanziaria scoppiata nel 2007, il Pcc proverà a sfruttare la pandemia per rafforzare la sua legittimità a governare come partito unico, ma per riuscirci dovrà compiere decisivi passi avanti riguardo a problemi economici e sociali fondamentali, tuttora irrisolti.
Il 30 luglio scorso (nella riunione dell’Ufficio politico che ha convocato il quinto plenum), nonostante il crollo del prodotto interno lordo (-6,8% nel primo trimestre, +3,2% nel secondo), Xi Jinping e compagni avevano dichiarato centrato il primo dei due obiettivi dei centenari, ovvero la creazione di “una società moderatamente prospera in ogni ambito”, con un Pil pro capite di 10 mila dollari (raddoppiato rispetto al 2010) – in anticipo rispetto all’anniversario della fondazione del Partito, che il 23 luglio prossimo compierà 100 anni.
I 25 membri della leadership allargata avevano però aggiunto che permangono problemi economici di medio e lungo termine, fattori esogeni di «instabilità» e «incertezza» per fronteggiare i quali il Partito prevede una «guerra di lunga durata» (dall’omonimo scritto di Mao Zedong del 1938, nda), al fine di accelerare la formazione di un nuovo modello di sviluppo basato principalmente sulla circolazione interna e su un ciclo internazionale a due direzioni che si completino reciprocamente».
Parola d’ordine: “doppia circolazione”
In un simile contesto, il Partito ha chiarito che la “doppia circolazione” non rappresenta una misura di breve periodo per far fronte alle difficoltà post-Covid o alle tensioni con gli Stati Uniti, ma una nuova strategia economica: la Cina non si chiude agli investimenti, ai beni e ai servizi in arrivo dall’estero né rinuncia a esportare le sue merci, ma incardina il suo sviluppo dei prossimi anni sulla circolazione (produzione, distribuzione e consumo) interna, provando in tal modo a ridurre la sua dipendenza dalla tecnologia e dai mercati stranieri.
La globalizzazione sarà pure una «corrente inarrestabile della storia» – come ha più volte sostenuto Xi Jinping – ma sulla strategia di sviluppo che l’economista a capo della Società di Macroeconomia di Pechino, Wang Jian, ha definito “grande circolazione internazionale” – con al centro la Cina, che aveva prima preso ad assemblare componentistica per i mercati internazionali e, in seguito, si era aperta al grande capitale globale diventando la “fabbrica del mondo” – è calato il sipario.
Il trentennio (1981-2011) che aveva garantito al Paese una crescita media a doppia cifra è svanito per effetto dell’aumento dei costi di produzione in Cina e del rallentamento del commercio globale. Ma non solo…
Dopo un ventennio dall’ingresso (nel 2001) del Paese nell’Organizzazione mondiale per il commercio, la rincorsa cinese al traguardo agognato da oltre un secolo, quello della modernizzazione, è entrata nel vivo, e le economie avanzate, nel momento in cui sempre più prodotti cinesi iniziano a diventare competitivi con quelli statunitensi, tedeschi, giapponesi… non sono più disposte a tollerare gli stratosferici surplus commerciali della Cina (che comportano continua accumulazione di valuta estera e sempre maggiori possibilità di accesso a tecnologie avanzate), né l’acquisizione da parte di Pechino di compagnie “strategiche” nei paesi più sviluppati, ed erigono qua e là barriere inimmaginabili fino a pochi anni fa.
Tutto ciò ha l’effetto di accelerare la riduzione della dipendenza della Cina dal suo export, in corso da tempo. L’anno scorso, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006.
Inoltre il progressivo accorciamento delle catene globali di fornitura – in conseguenza sia della guerra commerciale che della pandemia – sta cambiando le alleanze economico-commerciali globali. Nei primi otto mesi di quest’anno, a causa dei prolungati lockdown, l’Unione europea ha ceduto lo scettro di primo partner commerciale della Cina all’Associazione degli stati del Sud-est asiatico (Asean), con la quale Pechino ha scambiato beni e servizi per 416 miliardi di dollari. Per aggirare l’embargo voluto da Trump, compagnie giapponesi e coreane hanno spostato la produzione in paesi come Vietnam, Malesia e Thailandia, pronti a soddisfare le esigenze di “componenti chiave” per lo sviluppo industriale cinese.
Infine – passando dal materiale al simbolico – l’immagine internazionale di una Cina che avanza pacifica lungo la nuova via della Seta aiutando i paesi in via di sviluppo è stata incrinata dalla propaganda dell’Amministrazione Trump su presunte responsabilità di Pechino nella diffusione globale del Covid-19.
L’imperativo della riduzione delle disuguaglianze
È in questo quadro globale in rapida evoluzione – e in parte ostile alla Cina – la leadership del Partito è costretta a inseguire il secondo degli obiettivi dei centenari: quello della costruzione di “un Paese socialista moderno” entro il 2049, quando la Repubblica popolare cinese avrà cento anni. A tal fine, dopo anni di proclami in tal senso, si dovrà accelerare la transizione da una crescita quantitativa del Pil a quello che l’economista Justin Lin Yifu ha definito sviluppo «di alta qualità», per evitare la cosiddetta “trappola del reddito medio” nella quale sono rimasti prigionieri paesi come Brasile, Argentina e Sudafrica, che non sono riusciti ad aumentare la produttività e il valore dei loro prodotti e il cui Pil procapite non ha raggiunto i 12.535 dollari Usa procapite a partire dai quale – secondo la Banca Mondiale – un paese può essere definito ad alto reddito.
Con ogni probabilità, per rincorrere questo traguardo il nuovo Piano continuerà a indicare un obiettivo di crescita media (tra il 5% e il 5,5% secondo le indiscrezioni) da centrare nel prossimo lustro.
Grazie al governo del partito unico, al controllo assoluto dello stato su tutti i settori strategici (energia, telecomunicazioni, credito, trasporti…) e alla sua sovranità monetaria, la Cina può riuscire nell’impresa di passare dalla catena di montaggio simbolo dell’industria 2.0 a quella 4.0, avendo però saltato la fase intermedia, caratterizzata dall’impiego di automazione, computer ed elettronica negli stabilimenti, quell’industria 3.0 sperimentata dai paesi avanzati a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.
Ma per mantenere la stabilità sociale a dispetto degli inevitabili costi sociali di una simile metamorfosi, sarà necessaria una “svolta politica”, una decisa oscillazione del tradizionale pendolo che segnala il clima politico all’interno del Partito dal mercato verso lo stato. In questa nuova fase di «instabilità» e «incertezza» i 400 milioni di persone diventati classe media negli ultimi anni non sono più sufficienti ad alimentare il “sogno cinese” promosso da Xi Jinping. Nel 2019, i consumi hanno rappresentato il il 55,4% del Pil (contro il 49.3% nel 2010), ancora decisamente inferiori rispetto al 70-80% tipico delle economie avanzate. E, più che in tanti altri paesi – a causa della loro spiccata tendenza al risparmio – quella post-Covid si preannuncia come una lunga fase di stagnazione dei consumi dei cinesi, particolarmente restii a spendere nel clima d’insicurezza determinato dalla pandemia e dalla guerra commerciale-tecnologica.
Non a caso il premier Li Keqiang ha ricordato – in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo della primavera scorsa – che ci sono circa 600 milioni di cinesi che guadagnano meno di 140 dollari al mese: è a vantaggio di questi poveri che potrebbe essere indirizzata una politica fiscale espansiva che aumenti la spesa pubblica al fine di garantire loro sanità, istruzione, pensioni e sussidi dignitosi, e che tassi maggiormente i ricchi.
I lavoratori migranti (attualmente circa 290 milioni) che negli ultimi anni hanno ottenuto parziali diritti potrebbero trarre vantaggio da ulteriori riforme dello hukou (il permesso di residenza che ne limita gli spostamenti), nell’ambito di un’accelerazione del processo di urbanizzazione – magnificamente descritto in un libro intitolato China’s Urban Billion (ZED Books) – che potrà trasferire in città fino a 300 milioni di contadini (in Cina la popolazione rurale ammonta ancora al 40%, molto più che nelle economie avanzate).
Un cluster dell’innovazione di 70 milioni di abitanti
Con il piano “Made in China 2025” (varato nel 2015) la leadership cinese aveva individuato nella nuova manifattura – la cosiddetta industria 4.0 – il suo prossimo motore per trainare la crescita. In linea con quel progetto, con il recente viaggio al Sud di Xi «il Comitato centrale del Partito comunista – ha dichiarato il presidente cinese – ha affidato a Shenzhen (la città dove 40 anni fa fu istituita la prima zona economica speciale, nda) la missione storica di assumere l’iniziativa della realizzazione della modernizzazione socialista», assegnandole di fatto la guida di un cluster di undici metropoli e oltre 70 milioni di abitanti all’interno e intorno alla provincia del Guangdong dedicato all’innovazione tecnologica.
Il viaggio di Xi è servito a spronare le élite locali della tradizionale locomotiva industriale cinese ad applicare le direttive del centro in una fase critica, e a stimolare la collaborazione degli imprenditori privati (che nel Paese garantiscono il 90% degli impieghi e il 60% del Pil), definiti «una forza importante che il Partito deve unire e sulla quale deve poter contare per la governance di lungo periodo», che va «educata e guidata, e che deve ascoltare e seguire scrupolosamente il Partito» che negli ultimi anni ha istituito sue cellule in tutte le aziende private della Cina.
Il segretario del Partito a Shenzhen, Wang Weizhong, ha dichiarato che la sua città entrerà in una «terra di nessuno», che «la parte più difficile» di riforme finora mai realizzate consisterà nel «mangiare la torta di qualcun altro», un riferimento evidente a quegli interessi consolidati (potentati locali politico-affaristici) che verrebbero intaccati dalle nuove politiche promosse da Pechino.
Alla città di Huawei, ZTE e Tencent verranno attribuiti poteri simili a quelli delle quattro municipalità (Pechino, Shanghai, Tianjin, Chongqing) della Cina, che fanno riferimento direttamente al governo centrale, senza “interferenze” da parte delle autorità provinciali. In particolare Shenzhen potrà allentare le restrizioni sui visti per attirare talenti dall’estero, varare leggi sui settori dell’intelligenza artificiale e dei big data, e istituire una nuova borsa di titoli future per sostenere il suo sviluppo tecnologico-industriale. Inoltre avrà il potere di scegliere da sé le aree di sviluppo industriale, potere precedentemente appannaggio del governo centrale.
Shenzhen sarà la “regina” dell’Area della Grande baia, il cluster di undici metropoli incardinato sulla provincia del Guandong che – se/quando realizzato – ridurrà inevitabilmente il peso specifico di Hong Kong sull’intera regione.
Il presupposto è che la concentrazione di attività industriali diversificate in mega aree da circa 100 milioni abitanti funga da volano per la produttività e l’innovazione. Queste aggregazioni saranno incentrate su una megalopoli principale – la cui popolazione dovrebbe mantenersi stabile rispetto ai livelli attuali – attorno alla quale ruoteranno metropoli “minori” in grado di accogliere, entro il 2030, altri 200 milioni di migranti. In ognuno di questi cluster, le aziende potranno attingere a un mercato del lavoro integrato di oltre 50 milioni di unità, che dovrebbe favorire lo sviluppo della manifattura e dei servizi.
Il piano che Pechino proverà a implementare muove dal presupposto che mercati del lavoro di grandi dimensioni sono più produttivi di quelli piccoli, perché possono contare su economia di scala, economia di agglomerazione e spillover di conoscenza, proprio come la Silicon Valley californiana.
Questi giganteschi agglomerati avranno a portata di mano forza lavoro abbondante e diversificata, mentre la compresenza nello stesso cluster di tante differenti compagnie creerà supply chain altamente specializzate. Se e quando saranno ultimati, i cluster cinesi faranno impallidire al confronto l’Area della grande Tokyo, che con i suoi circa 40 milioni di abitanti è la più grande del mondo.
Il Partito, una guida sempre più “perfetta”
Il combinato disposto della pandemia e della guerra tecnologico-commerciale con gli Stati Uniti ha proiettato la Cina in una nuova realtà nella quale la sfida maggiore per lo sviluppo nei prossimi cinque anni arriverà da «fattori esterni al di fuori del nostro controllo» ha spiegato Justin Lin Yifu. Secondo il fondatore del China Center for Economic Research saranno «il protezionismo e l’unilateralismo» di altri governi e «l’instabilità politica» derivante dai populismi all’estero a guidare in gran parte le prossime mosse della Cina.
Gli economisti Andrew Sheng e Xiao Geng hanno concluso così un loro recente articolo scritto a quattro mani: «Detto semplicemente, se il mondo non è pronto per la cooperazione, la Cina si adatterà alla polarizzazione. Da ‘Made in China 2025’ alla nuova via della Seta, il mondo ha spesso frainteso politiche strategiche e progetti pragmatici cinesi interpretandoli come schemi subdoli e distruttivi. Ma la Cina non può controllare come gli altri interpretano le sue azioni e non cambierà le sue politiche per tranquillizzare i suoi critici. Con la Cina che – secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale – sarà l’unica grande economia a registrare una crescita positiva nel 2020 e nel 2021, non c’è alcun motivo perché dovrebbe farlo». Che il 3 novembre prossimo vinca Biden o che alla Casa Bianca venga riconfermato Trump, per i cinesi cambierebbe la forma ma non la sostanza: il primo contrasterebbe l’ascesa della Cina cercando la collaborazione degli alleati degli Stati Uniti, il secondo attraverso azioni unilaterali.
A guidare questa nuova svolta che potrebbe portare la Cina – non soltanto la sua economia – a guardare di più dentro di sé e meno all’estero sarà comunque un Partito in gran parte rinnovato dalle riforme, dalle campagne e dalle epurazioni degli ultimi anni di Xi, più efficiente grazie agli immensi poteri attribuiti a organismi apicali vecchi e nuovi, al segretario generale anzitutto.
Durante il quinto plenum è prevista l’approvazione di nuove “regole di lavoro del Comitato centrale” che dettaglieranno non solo il funzionamento del CC ma anche alcune funzioni del segretario generale del Partito e nuove regole sulle riunioni dei 25 componenti l’Ufficio politico e dei sette del Comitato permanente dell’Ufficio politico.
Secondo la bozza, per la validità delle riunioni del Comitato centrale, dell’Ufficio politico e del suo Comitato permanente basterà che sia presente la metà più uno dei rispettivi componenti. E al segretario generale(a cui già era riservato il potere di convocarli) verrà attribuito il potere esclusivo di fissare l’agenda delle riunioni dell’Ufficio politico e del suo Comitato permanente.
Si tratta di provvedimenti che – oltre a rafforzare ulteriormente la leadership del segretario generale – contribuiscono a istituzionalizzare (nel quadro di quello “stato di diritto socialista” promosso da Xi) passaggi, prassi e convenzioni rimasti nell’opacità fin dalla fondazione del Partito. In questo modo, Xi Jinping solidifica la sua leadership promuovendo al contempo ulteriori regole certe e codificate nel quadro del continuo perfezionamento di quella che si sta affermando come una sempre più efficiente macchina di governance del XXI secolo: il Partito comunista cinese.
Michelangelo Cocco è autore di Una Cina “perfetta” La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci editore), in libreria e nei negozi online.