Cina, 70 anni di socialismo e di illusioni dell’occidente

piazzarossa 70modi Francesco Maringiò
da lantidiplomatico.it

Con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese da parte di Mao, 70 anni fa, si apriva una nuova pagina della storia della Cina e del mondo.

Si affermava pienamente l’inizio della fase di risorgimento ed unità nazionale dopo il lungo secolo delle umiliazioni che aveva portato un paese ricco ed una civiltà antichissima a diventare il paese più povero del mondo, occupato da potenze straniere e mutilato nella sua integrità territoriale da trattati ineguali con le potenze occidentali. Quando Mao proclama la Repubblica Popolare, il paese è appena uscito dalla guerra civile e dalla resistenza all’invasione giapponese ed è pertanto piegato da anni di guerre e da una povertà estrema.

La lotta contro l’arretratezza ed i tentativi di minacce ed aggressioni da parte delle potenze imperialiste ha caratterizzato una lunga fase della storia cinese moderna e forse varrebbe la pena ripensare criticamente a quella storiografia che ha voluto individuare una cesura netta (o una contrapposizione) tra la Cina “pre” e quella “post” riforme avviate nel 1979, come se una fase fosse l’esatta negazione dell’altra o addirittura segnasse un vero e proprio passaggio di campo dal socialismo al capitalismo.

Questi 70 anni di storia della Repubblica Popolare vanno inseriti in un arco temporale più ampio della lunga storia cinese e va nel contempo colto il fil rouge che lega i vari momenti di questo sviluppo. L’epoca socialista è una tappa della lunga storia cinese che si è arricchita degli aspetti peculiari del paese (l’espressione “socialismo con caratteristiche cinesi” sta ad indicare proprio la ricerca di questa via nazionale al socialismo) che ha permesso alla nazione di riscattarsi dal lungo secolo delle umiliazioni e garantire l’unità del popolo e della nazione e l’uscita dalla condizione di indigenza. Sicuramente in questi 70 anni si sono sperimentate fasi diverse e scelte politiche conseguenti, andando incontro ad errori anche dolorosi, ma esse rappresentano tappe di un lungo “processo di apprendimento” che ha permesso alla classe dirigente cinese di guidare un immenso paese e le sue contraddizioni sulla via dello sviluppo e della rinascita. Per uscire dal sottosviluppo si è cercata la via per la crescita economica e quantitativa del paese ed oggi, dopo un periodo di sviluppo sfrenato, frutto di una lunga fase di “eccezionalità”, la classe dirigente cinese sta cercando di costruire una “nuova normalità” ed aprire una pagina nuova e più equilibrata della storia del paese.

Proprio questo richiamo alle varie fasi della Repubblica Popolare ed al contributo di ciascuna generazione ai successi dell’oggi, è stato un punto importante del discorso di Xi Jinping e della coreografia della parata in piazza Tienanmen a Pechino durante le celebrazioni per il 70 Anniversario della fondazione della Repubblica. All’inizio del suo intervento il presidente Cinese ha fatto riferimento ai “martiri ed ai padri” che col loro sacrificio hanno permesso alla Cina di raggiungere quei risultati che oggi tutto il mondo riconosce. Nelle conclusioni il leader cinese si è invece rivolto al popolo per esortarlo all’unità e chiedergli di “rimanere fedele alla missione originale”, come a dire che le conquiste dell’oggi sono il frutto del sacrificio di ieri, ma non sono date per assodate: per garantirle bisogna non smarrire la strada tracciata dai padri e ricordare il sacrificio di quella generazione che ha fondato la nuova Cina.

Questo aspetto è stato plasticamente rappresentato dalla parata, con le tre auto in corteo: la prima con Xi Jinping, la seconda con il comandante militare della parata e la terza vuota, che simbolicamente accompagnava lo spirito dei leader che non ci sono più. Un secondo momento altamente simbolico è stato quando il presidente cinese ha letto il suo discorso, con accanto gli altri due segretari di partito che lo hanno preceduto: Hu Jintao e Jiang Zemin.

Nel corso di questi anni (soprattutto negli ultimi 40, dopo la politica di riforme ed apertura), l’occidente si è illuso che lo sviluppo economico cinese fosse sinonimo di adozione del modello occidentale, prima dal punto di vista economico e, in un secondo momento, da un punto di vista politico. Dopo l’89 c’è stata la pretesa di una “vittoria definitiva” del liberalismo e della morte del socialismo e della pianificazione. La Cina oggi non ha soltanto rotto questa lettura dominante ma ha aperto una riflessione nel “campo avversario” che, investito in pieno dalla crisi (sono proprio Londra e Washington che non riescono più a difendere e garantire l’ordine sociale neoliberale che hanno costruito e propagandato in tutto il mondo per un’intera epoca storica), comincia a domandarsi come rapportarsi al gigante asiatico, memore della famosa frase di Napoleone: “Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà”.

È a partire da questa consapevolezza che bisogna riconoscere il diverso approccio delle varie frazioni della classe dominante nei vari paesi nei confronti della Cina. Evaporata l’illusione di una omologazione di Pechino al mondo occidentale, le classi dirigenti di questa parte del mondo stanno riconfigurando la propria strategia, tra coloro che riconoscono l’enorme contributo che lo sviluppo cinese ha dato al mondo intero (basterebbe solo ricordare che la Cina ha contribuito per un terzo alla crescita dell’economia globale negli ultimi trent’anni ed ai due terzi della riduzione della povertà del mondo negli ultimi quindici) e vogliono costruire opportunità di cooperazione e coloro che si richiamano alla “guerra santa” dell’occidente contro il pericolo di una Cina, descritta come la principale minaccia al benessere ed all’ordine sociale ed economico della parte ricca del mondo.

Dentro questa frattura nelle classi dirigenti delle democrazie liberali (in crisi di credibilità e consenso popolare, ma tutt’ora detentrici della primazia sul piano militare) e sulla possibilità di una politica mondiale che, col concorso dei singoli stati e dei movimenti sociali e popolari, sia capace di isolare le frazioni più aggressive e bellicose e costruire una politica di pace e cooperazione; è dentro questa dialettica, dicevamo, che si gioca la partita tra la pace e la guerra per la nostra epoca.