di Carlos Martinez
Traduzione di Marco Pondrelli per Marx21.it
La Belt and Road Initiative (BRI) è una strategia globale di sviluppo delle infrastrutture proposta dalla Cina nel 2013.
Di portata senza precedenti, la BRI è modellata sulla Via della Seta – una vasta rete commerciale che sorse durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) e che collegava la Cina con l’India, l’Asia centrale ed oltre ancora.
La BRI cerca di promuovere l’integrazione economica globale e la cooperazione attraverso la costruzione di un gran numero di strade, ferrovie, ponti, fabbriche, porti, aeroporti, infrastrutture energetiche e sistemi di telecomunicazione, che consentiranno una più profonda integrazione dei mercati e una più efficiente allocazione delle risorse.
All’inizio del 2021, 140 paesi in Asia, Europa, Africa, America Latina e Caraibi hanno firmato i progetti della BRI.
Si stima che i progetti d’investimento della BRI aggiungeranno almeno un trilione di dollari di finanziamenti alle infrastrutture nei 10 anni a partire dal 2017.
La motivazione economica di base della BRI è di guidare la crescita attraverso l’espansione della cooperazione e del coordinamento attraverso i confini.
Politicamente, il progetto si inserisce nell’approccio di lunga data della Cina di utilizzare l’integrazione economica per aumentare il costo (e quindi ridurre la probabilità) di un conflitto.
L’accademico Peter Nolan scrive che “la Cina è in grado di utilizzare la sua ricca esperienza nella costruzione di infrastrutture interne per dare un contributo importante allo sviluppo della Via della Seta nell’Asia centrale e sudorientale”.
Una conseguenza politica centrale di questo è “stimolare relazioni armoniose tra i paesi”. (Understanding China: The Silk Road and the Communist Manifesto, 2016).
La Cina è in una posizione unica per essere la forza trainante di un tale progetto, date le sue dimensioni, la sua posizione e la natura della sua economia.
Il politico e accademico portoghese Bruno Macaes osserva che la natura essenzialmente pianificata dell’economia cinese, con lo Stato “saldamente al comando del sistema finanziario”, ha permesso alla Cina di agire rapidamente e con decisione, dirigendo immense risorse finanziarie verso i progetti della BRI. (Belt and Road: A Chinese World Order, 2018).
Tuttavia, la BRI è stata etichettata da una serie di forze politiche come un progetto neocoloniale.
Il think tank di destra Lowy Institute lo descrive come “colonialismo con caratteristiche cinesi”.
Nel frattempo Ashley Smith e Kevin Lin, scrivendo nel Forum Socialista del Democratic Socialists of America, lo considerano “inequivocabilmente imperialista”.
Essi sostengono che la Cina sta bloccando interi paesi in uno “sviluppo dipendente”, anche “deindustrializzando alcuni paesi come il Brasile e riducendo tutti a servire le esigenze del capitalismo cinese”.
Quest’ultima critica è più Mike Pompeo che Vladimir Lenin, e si collega a una nuova politica da guerra fredda che da la colpa di tutti i problemi economici alla Cina.
È certamente il caso che mercati più aperti rendano alcune imprese non redditizie, ma nel complesso l’emergere della Cina come il più grande partner commerciale del Brasile è stato vantaggioso per la gente di entrambi i paesi.
Infatti il ministro degli Esteri del Brasile nel governo Lula, Celso Amorim, considerò la fiorente relazione Cina-Brasile come il cuore di una “riconfigurazione della geografia commerciale e diplomatica del mondo”.
Se la BRI cerca veramente di imporre uno “sviluppo dipendente”, è sorprendente che quasi tutti i paesi del Sud globale l’abbiano sottoscritta – compresi 42 dei 56 paesi africani. Sicuramente non tutti i tacchini votano per il Natale?
I progetti Belt and Road stanno stabilendo un quadro essenziale per lo sviluppo economico e stanno quindi creando le condizioni per i paesi precedentemente colonizzati per uscire dalla dipendenza, per sottrarsi alla coercizione economica perpetrata dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
Un fattore importante nel declino del Washington Consensus – l’imposizione della “dottrina dello shock” economico – è stata la disponibilità di finanziamenti alternativi, in particolare dalle banche di sviluppo cinesi o guidate dalla Cina; anche il FMI e la Banca Mondiale hanno dovuto ridimensionare le loro condizioni di prestito, poiché i paesi debitori ora hanno opzioni migliori.
Lo scrittore Kevin Gallagher nota che, per esempio, i leader latinoamericani “sono stati riluttanti a legare ulteriormente le loro economie alle politiche del Washington Consensus – in gran parte perché credono di avere un’alternativa in Cina.” (The China Triangle, 2016).
Inoltre la traiettoria degli investimenti della BRI è verso progetti ecologici, per esempio l’eolico, il solare e l’idroelettrico che hanno costituito il 57% degli investimenti energetici della BRI nel 2020, rispetto al 38% del 2019.
Mentre molto rumore è stato fatto in Occidente in relazione alla “diplomazia della trappola del debito” lungo la Belt and Road, la situazione reale è che “praticamente ogni studio che esamina i termini del debito dei paesi in via di sviluppo vede i prestiti dei paesi sviluppati come più onerosi di quelli della Cina”, scrive Brad Glosserman sul Japan Times.
Rispondendo alle accuse che la Cina ha creato una “trappola del debito” della Belt and Road in Pakistan, l’ambasciatore cinese ha osservato che il 42 per cento del debito del Pakistan è verso istituzioni multilaterali e che i prestiti preferenziali cinesi costituiscono solo il 10 per cento.
Scrivendo recentemente su The Atlantic, Deborah Brautigam e Meg Rithmire sfatano la narrativa della trappola del debito, esaminando scientificamente l’esempio canonico: quello del porto di Hambantota in Sri Lanka.
Brautigam e Rithmire osservano che l’idea di una Cina cinica che inganna i governi ingenui del Sud del mondo “ritrae erroneamente sia Pechino che i paesi in via di sviluppo con cui ha a che fare” – infatti contiene un elemento di razzismo, l’idea che la maggior parte dei paesi in Africa, Asia e America Latina siano in fila per essere ingannati da un colonialismo cinese che è così astuto da non richiedere nemmeno le cannoniere.
La BRI promuove indiscutibilmente la globalizzazione, ma globalizzazione e imperialismo non sono la stessa cosa.
La Via della Seta originale è stata “l’epicentro di una delle prime ondate di globalizzazione, collegando i mercati orientali e occidentali, stimolando un’immensa ricchezza e mescolando le tradizioni culturali e religiose”. (CFR: La massiccia Belt and Road Initiative della Cina).
Questa è evidentemente una forma di globalizzazione, ma senza il dominio e la coercizione che caratterizzano l’imperialismo.
Lo sviluppo del commercio, la costruzione di infrastrutture e l’espansione della cooperazione amichevole sono tutti nell’interesse dei popoli dei paesi partecipanti.
Paragonare un tale processo all’imperialismo praticato dall’Europa occidentale, dal Nord America e dal Giappone è un insulto alle centinaia di milioni di persone in Africa, Asia, America Latina, Caraibi, Medio Oriente e Pacifico che hanno sopportato la miseria della sottomissione coloniale e neocoloniale.
Le potenze occidentali sono certamente preoccupate per la Belt and Road, dato il suo “significato pratico di spostare il centro di gravità del mondo dall’Atlantico al Pacifico”, secondo le parole di Henry Kissinger.
Ma questo non dovrebbe essere qualcosa di cui i socialisti abbiano paura.