di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Per comprendere il ruolo delle aziende di Stato cinesi (Soe), così come i principi della riforma in atto (da anni), occorre confrontarsi con alcuni numeri, indicativi del ruolo che esse rivestono nella crescente proiezione internazionale di Pechino. Nei primi otto mesi del 2015 gli investimenti esteri diretti non finanziari (Ied) cinesi hanno raggiunto la cifra di 74,3% miliardi di dollari, segnando un aumento di oltre il 18% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, del 7% nel solo mese di agosto [1]. Va sottolineato che un vero e proprio balzo è stato compiuto dagli investimenti indirizzati nei Paesi compresi nello sviluppo della nuova Via della seta: dai 10,73 miliardi ai 48,2.
L’incremento negli ultimi 10 anni è ancora più straordinario in termini numerici: dai 5,5 miliardi del 2004 si è arrivati agli oltre 100 miliardi a fine 2013. Un espansione guidata per il 70% degli investimenti non finanziari dalle aziende di Stato [2], un dato che la dice lunga sul ruolo che queste rivestono dal punto di vista strategico, della proiezione dell’influenza cinese in connessione con progetti ambiziosi come quello, marittimo e terrestre, della nuova via della Seta con i numerosi progetti infrastrutturali collegati.
A conferma cifre simili – e altrettanto simili considerazioni – sono quelle riportate in uno studio di Mei Lisa Wang, Zhen Qi e Jijing Zhang: “Secondo il Ministero del Commercio cinese, nel 2014, le imprese cinesi hanno investito 116 miliardi di dollari in 156 paesi – circa 45 volte in più rispetto al 2002. Il paese è al primo posto tra i paesi per il flusso di investimenti nei Paesi in via di sviluppo. E c’è un grande potenziale di crescita ulteriore Ied”. Su tutti un dato: “l’alta percentuale di Ied della Cina proviene dalle aziende di Stato cinesi. Ied cinesi sono infatti dominati dalle aziende di Stato, in particolare prima del 2009. Secondo i nostri calcoli, tra il 2005 e il 2013, l’89,4 per cento degli 807.500.000.000 dollari degli investimenti esteri e dei contratti sono riconducibili alle aziende statali” [3].
Come riporta il Financial Times, la Cina popolare conta oggi più di 155.000 aziende di Stato (banche, compagnie aeree, raffinerie di petrolio) che impiegano decine di milioni di persone. Accanto ad una maggioranza di aziende gestite dai diversi governi locali (molte di queste sono di dimensioni medio-piccole, quando non piccolissime), a livello nazionale opera un nucleo di un centinaio di gruppi strategici, tra i quali la ICBC (la più grande banca del mondo per asset) e la China Mobile ( il più grande network mondiale per abbonati) [4].
Con l’avvio, alla fine degli anni ’70, della politica denghiana di riforma e apertura le imprese statali hanno subito un processo di arretramento – ora coprono il 24% del fatturato industriale e circa il 22% dei profitti -, pur restando la spina dorsale nei settori considerati come strategici (su tutti quello del credito), e alcune di queste si sono imposte a livello internazionale tanto che in ben 88 figurano nella lista di Fortune delle prime 500 imprese del mondo per fatturato.
Negli ultimi trent’anni le riforme che le hanno interessate sono state diverse. All’inizio degli anni ’80 si è introdotta la gestione da parte di enti governativi, nel decennio successivo la gestione è stata separata dalla proprietà, sono stati aboliti una decina di enti governativi impegnati che ne erano incaricati e, in nome del motto “Afferrare il grande, rilasciare il piccolo”, avviate le prime importanti privatizzazioni (allora chiusero i battenti 60mila aziende); nel 2003 è stata costituita l’attuale Commissione di gestione e controllo delle attività di proprietà dello Stato. Organismo, quest’ultimo, che negli anni immediatamente successivi ha emesso una serie di pareri/inviti per avviare un processo di fusione e/o acquisizione delle aziende statali non leader nel proprio settore, al fine di ridurne il numero e concentrarsi sulle migliori. Nel 2013 il terzo plenum del Pcc – quello del rilancio di un processo di riforma incentrato sull’innalzamento del mercato a ruolo “decisivo” – ha lanciato di fatto la parola d’ordine dell’economia mista.
A fine 2014 il Consiglio di Stato cinese si è impegnato a sostenere finanziariamente – e diplomaticamente – la proiezione e l’investimento estero delle imprese con lo scopo di aumentare la competitività e la qualità dei prodotti in settori di produzione medio-alti e a tecnologia avanzata. Il pensiero delle autorità di Pechino è rivolto, soprattutto, al comparto energetico e a quello dei trasporti, con le aziende statali in posizione di avanguardia. In cifre si prevedono quasi 1.000 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi anni. In questa fusione tra obiettivi strategici e investimenti esteri, sono destinate a svolgere un ruolo di primo piano ancora le aziende statali. Secondo quanto riportato a fine aprile dell’autorevole Economic Information Daily, ci si avvia ad una notevole riduzione dei colossi pubblici che stanno guidando la proiezione estera della Cina popolare: dalle attuali 122, le aziende di Stato – con un profitto che nel 2014 ha sfiorato i 230 milioni di dollari – saranno ridotte, attraverso fusioni e acquisizioni, ad una quarantina. Le risorse del Paese saranno così concentrate sulle industrie più competitive sul mercato internazionale.
Non sono mancate le prime grandi operazioni in questo senso: nel marzo scorso è stato approvato un progetto di fusione tra la China South Locomotive & rotabile Corporation e la China North Locomotive and Rolling Stock Industry Corporation – entrambe sotto controllo statale – che porterà alla nascita del più grande costruttore di ferrovie al mondo con un fatturato annuo superiore ai 30 miliardi di dollari. Per le attività cosiddette non “core” di queste aziende – soprattutto legate al terziario – si ipotizzava già una graduale vendita al mercato.
All’ordine del giorno ormai da tempo, la riforma delle aziende statali cinesi ha segnato ora una tappa importante con l’indicazione di un preciso traguardo temporale. Il comitato centrale del Partito comunista cinese e il Consiglio di Stato hanno infatti rilasciato il 13 settembre un documento contenente le linee guida di una riforma che – nel rispetto di una tradizione consolidata di sperimentazioni graduali – prevede importanti interventi da qui al 2020 [5]. Secondo quanto riportato da agenzie e organi ufficiali, la nuova fase di riforma che riguarda l’economia statale cinese ha come obiettivi principali la promozione dell’economia mista, una migliore tutela dei beni dello Stato (contro svendite e corruzione), migliorarne la gestione e renderla più competitiva sul mercato globale (continuazione della politica tradotta come “Go Global” [6]). Evitando – è stato più volte rimarcato – la svendita di un patrimonio ritenuto indispensabile e caratterizzante il modello di sviluppo cinese.
È opportuno sgombrare il campo da ogni possibile equivoco: in base alle linee guide e alle diverse indiscrezioni e analisi uscite in questi giorni – insieme alle prime reprimende nei confronti di decisioni ritenute troppo timide e poco coraggiose o, perfino, una “virata conservatrice” [7] per l’eccessiva enfasi posta sulla sicurezza dei beni dello Stato! – il futuro prossimo non riserva alcun processo di privatizzazione generale, ancor meno selvaggia. “Vittime” di una graduale politica di privatizzazione saranno le aziende definite “zombie”, vale a dire meno efficienti e che generano pochi utili, quando non perdite. Ad oggi, senza avventurarci in previsioni ed ipotesi che potrebbero essere presto smentite, le indicazioni esplicitate sono queste: gli enti statali di supervisione dovranno abbandonare la gestione delle singole imprese per dedicarsi a quella del capitale statale; saranno allestite società di investimento del capitale di proprietà statale per gestire fondi e investimenti; il governo incoraggerà i privati ad entrare nella Soe attraverso l’acquisto di azioni o bond; sarà concessa una maggiore libertà di azione ai consigli di amministrazione mentre, in parallelo, saranno rafforzate le attività di ispezione statali per prevenire abusi di potere o “l’erosione” di beni dello Stato; introduzione per i dipendenti di un salario flessibile, in linea con l’andamento del mercato e le performance aziendali; infine, sempre in base alle linee guida e in vista degli interventi previsti, le Soe saranno suddivise in due macrogruppi: quelle indirizzate al profitto – che agiranno in base alle regole di mercato e che saranno aperte all’investimento privato – e quelle orientate alla produzione di beni e servizi pubblici per garantire qualità di vita alle persone che saranno esclusivamente di proprietà statale.
La filosofia complessiva resta comunque quella della difesa delle aziende statali (ripetiamo: nessuna svendita del patrimonio) e della centralità, soprattutto in settori strategici (petrolio, gas, energia, ferrovie, telecomunicazioni) – del controllo pubblico dell’economia.
A questo va aggiunto che l’enfasi posta sulla separazione tra proprietà e gestione oltre rispondere all’esigenza, più volte dichiarata, della lotta al malcostume e alla corruzione (“la leadership del partito è la valvola di sicurezza per le imprese statali”[8]), potrebbe essere la soluzione – o comunque un tentativo in questo senso – ad un problema “politico” che riguarda alcune delle aziende statali nell’accesso in alcuni mercati (si pensi a quello statunitense, britannico o australiano): l’accusa di essere solo ed esclusivamente arma economica in mano al partito comunista cinese.
Difficile dare torto, con queste premesse, a Chi Lo, economista senior per la Cina di BNP Paribas: “Pechino non venderà i suoi gioielli della corona vista l’importanza che rivestono per la strategia del Partito comunista”[9].
Anche per il prestigio che questi hanno guadagnato a livello internazionale, come motore della graduale uscita della Cina dal club dei Paesi in via di sviluppo. Si pensi a come, nel luglio scorso, la visita del vice-presidente del Sudafrica a Pechino abbia avuto al centro delle discussioni proprio l’attività delle imprese statali cinesi la cui storia è considerata al contempo un “esempio nella lotta alla povertà e alla disoccupazione” e un solido precedente per re-industrializzare il Paese africano [10].
Gioielli di famiglia, appunto, di una famiglia piuttosto allargata (ben oltre 1 miliardi di cinesi) che sostengono il “soft power” o, per chi dall’inglese volesse un poco liberarsi, l’”effetto di irradiamento” della Cina popolare a livello internazionale, per quanto costruito: lotta alla povertà, modernizzazione e garanzia di un’autonoma via di sviluppo.
NOTE
1. Xinhua, “China outbound direct investment jumps 18.2 pct”, 16 settembre 2015
2. Quotidiano del Popolo, “China’s outward FDI grows 47.4 pct in January-May”, 23 giugno 2015
3. East Asia Forum, “China needs to turn its capital ideas into SOE reform”, 29 luglio 2015
4. Financial Times, China plans shake-up of state-owned enterprises to boost growth, 13 settembre 2015
5. Xinhua, “China issues guideline to deepen SOE reforms”, 13 settembre 2015
6. L’invito del governo cinese alle proprie aziende di competere sempre di più sul palcoscenico internazionale
7. South China Morning Post, “Beijing takes more conservative tack in reform of China’s state firms” 14 settembre 2015
8. Dichiarazione della commissione centrale di controllo e disciplina del Pcc riportata da Xinhua il 15 settembre 2015.
9. Bloomberg, “State Companies: Back on China’s To Do List”, 30 luglio 2015.
10. The Brics Post, “SA Vice President in China to boost ties”, 19 luglio 2015