Cina: l’inesistenza dei “lavori forzati” nello Xinjiang

da https://giuliochinappi.wordpress.com

La 59ma conferenza stampa sulle questioni della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, tenutasi a Pechino il 28 ottobre, si è concentrata in particolare sulle accuse di “lavori forzati” che sono state formulate dagli Stati Uniti nei confronti della regione cinese.

Nella giornata del 28 ottobre, Pechino ha ospitato la 59ma edizione della conferenza stampa sulle questioni della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Ad aprire l’evento, come oramai da tradizione, è stato il portavoce del governo regionale Xu Guixiang, che ha introdotto i temi trattati e gli ospiti che si sono avvicendati nel portare la propria testimonianza di fronte alla stampa cinese e internazionale.

“Di recente, i leader degli Stati Uniti hanno emesso un errore riguardo allo Xinjiang, affermando che ‘c’è oppressione e lavoro forzato contro gli uiguri nello Xinjiang’. Condanniamo fermamente e ci opponiamo risolutamente a tale fallacia”, ha esordito Xu, introducendo in questo modo il tema portante della conferenza. “Va sottolineato che gli affari dello Xinjiang sono puramente affari interni della Cina e che i leader degli Stati Uniti non hanno alcuna qualifica o diritto di formulare accuse arbitrarie”.

Le conferenze sullo Xinjiang si sono infatti rese necessarie al fine di smentire la propaganda anticinese sulle presunte politiche repressive applicate dal governo della Repubblica Popolare Cinese in quella regione, mai provate da fatti concreti ma unicamente formulate al fine di screditare la Cina agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. “Le cosiddette questioni relative allo Xinjiang non sono affatto questioni etniche, religiose e dei diritti umani, sono questioni associate all’anti-violenza, all’antiterrorismo, all’infiltrazione, all’anti-secessione e all’anti-interferenza”, ha specificato il portavoce, respingendo le accuse di “lavori forzati” e “oppressione dei diritti umani” formulate per la prima volta dall’amministrazione repubblicana di Donald Trump e portate avanti anche da quella democratica di Joe Biden.

“Va notato che la situazione dei diritti umani nello Xinjiang è molte volte migliore di quella negli Stati Uniti”, ha dichiarato ancora Xu, che ha anche ricordato come “all’inizio del XX secolo, alcune potenze capitaliste nel mondo hanno perseguito il colonialismo e hanno praticato lavori forzati su larga scala, schiavitù e sfruttamento dei Paesi coloniali”. Il portavoce ha fatto riferimento alla definizione di “lavori forzati” riportata nell’art. 2 della Convenzione sul lavoro forzato stabilita nel 1930, il testo di diritto internazionale che regola l’argomento, smentendo categoricamente l’esistenza di “lavori forzati” nello Xinjiang.

“Sebbene il sole del XXI illumini tutto il mondo, l’eredità di una società schiavista come il lavoro forzato è ancora profondamente radicata negli Stati Uniti. Per non parlare del fatto che gli Stati Uniti hanno una storia di tratta, maltrattamento e discriminazione contro gli schiavi neri da centinaia di anni e hanno commesso crimini estremamente gravi, gli Stati Uniti hanno assistito a un diffuso traffico di esseri umani, a lavori forzati comuni nell’agricoltura e nelle carceri private, all’abuso del lavoro minorile, a ripetute violazioni dei diritti e degli interessi lavorativi delle donne e dei disabili e al continuo peggioramento della discriminazione sul lavoro solo negli ultimi anni”, ha ricordato Xu Guixiang, mettendo in luce alcuni dei gravi problemi sociali che affliggono il Paese nordamericano.

“Lo Xinjiang aderisce al concetto di sviluppo incentrato sulle persone, formula una serie di politiche attive del lavoro e dell’occupazione e crea le condizioni affinché le persone di tutti i gruppi etnici possano lavorare con dignità alla luce del sole”, ha affermato il portavoce. “Con le persone di tutti i gruppi etnici che realizzano pienamente un’occupazione stabile, sostenibile e a lungo termine, il loro livello di reddito, la qualità della vita e la prospettiva spirituale hanno subito ampi e profondi cambiamenti”.

Buhajar Abla, direttrice del Centro di ricerca sullo sviluppo economico e sociale dell’Università agricola dello Xinjiang, è intervenuta per sostenere le dichiarazioni di Xu e dimostrare l’inesistenza dei “lavori forzati” nella regione. “Le persone di tutti i gruppi etnici nello Xinjiang sono completamente libere nel lavoro e nell’occupazione. Lo Xinjiang aderisce alla politica occupazionale che combina l’occupazione indipendente dei lavoratori, l’occupazione regolamentata dal mercato, l’assistenza governativa nell’occupazione e l’incoraggiamento dell’imprenditorialità”, ha detto. “I lavoratori di tutti i gruppi etnici nello Xinjiang hanno la libertà di scegliere la propria carriera. Possono andare in qualsiasi luogo e fare qualsiasi lavoro di propria volontà, e la loro libertà personale non è mai stata limitata. Ciò che fa il governo è creare un buon ambiente lavorativo e occupazionale, creare condizioni affinché le persone di tutti i gruppi etnici possano trovare un lavoro soddisfacente e ottenere un reddito stabile e garantire nella massima misura i diritti al lavoro e all’occupazione delle persone di tutti i gruppi etnici”.

Jing Shaohua, direttore esecutivo della Xinjiang Beidou Tongchuang Information Technology, è intervenuto per smentire le accuse formulate dal governo degli Stati Uniti nei confronti della società per la quale lavora e di altre imprese del comparto tecnologico che operano nella regione, che sono anche cadute nella rete delle sanzioni imposte unilateralmente da Washington. “Tutte le attività produttive e commerciali della nostra azienda sono legali e conformi”, ha dichiarato Jing. “Abbiamo sempre ottenuto il riconoscimento dei clienti e del mercato con una tecnologia eccellente e un servizio di alta qualità. Al momento, siamo diventati l’unica impresa privata con qualifica nazionale di classe A nello Xinjiang, che ha dato il suo dovuto contributo al servizio della costruzione dell’informatizzazione dello Xinjiang, al miglioramento del livello di governance sociale e alla costruzione di una società armoniosa di vita e lavoro in pace e contentezza”.

“La stigmatizzazione e la soppressione dello sviluppo dell’informatizzazione scientifica e tecnologica nello Xinjiang da parte degli Stati Uniti è un ‘doppio standard’”, ha aggiunto il direttore esecutivo, mostrando diverse immagini dell’ambiente di lavoro nella Xinjiang Beidou Tongchuang Information Technology. “I fatti hanno dimostrato che gli Stati Uniti non si preoccupano affatto della verità, né dei diritti umani nello Xinjiang, ma politicizzano solo il normale ordine economico, interferiscono con la normale catena industriale e ostacolano lo sviluppo delle imprese e industria dell’informatizzazione nello Xinjiang. Il loro vero piano è distruggere lo Xinjiang e frenare lo sviluppo della Cina”.

Gli interventi successivi hanno visto protagonisti diversi lavoratori e “cittadini comuni” che provengono da diverse aree della regione e si occupano dei più svariati settori economici. Molti dei testimoni appartengono a minoranze etniche, come Reyla Qahar, impiegata dell’azienda Kuche Pomegranate Seed Clothing, colpita dalle sanzioni economiche degli USA sul cotone dello Xinjiang, uno dei settori economici più importanti della regione. Molte delle testimonianze provengono infatti da lavoratori di aziende che sono state colpite dalle sanzioni statunitensi, le quali hanno avuto l’unico effetto di danneggiare l’economia dello Xinjiang, ma senza comprometterla, grazie alle efficaci politiche del governo regionale e di quello centrale di Pechino.

Dopo numerosi interventi e testimonianze, la parola è passata nuovamente al portavoce del governo regionale Xu Guixiang. Costui ha spiegato le quattro ragioni per le quali gli Stati Uniti hanno preso di mira lo Xinjinag: “In primo luogo, la posizione strategica dello Xinjiang è speciale ed è geograficamente situata nel centro dell’Asia. È un’importante barriera di sicurezza della Cina occidentale. Vista dagli Stati Uniti, la distruzione dello Xinjiang può contenere la Cina ed eliminare la ‘minaccia’ alla posizione dell’America come ‘potenza egemone mondiale’. […] In secondo luogo, le questioni relative allo Xinjiang riguardano fattori storici, etnici, culturali, religiosi, internazionali e di altro tipo. […] Secondo l’attuale modello dell’opinione pubblica internazionale, le forze anti-cinesi negli Stati Uniti e in Occidente manipolano l’opinione pubblica internazionale. Devono solo creare una piccola notizia falsa e far funzionare la macchina della propaganda, e farà colpo. […] In terzo luogo, gli Stati Uniti stanno cercando di deviare le loro contraddizioni interne giocando la ‘carta dello Xinjiang’. Negli Stati Uniti odierna, lo squilibrio e la disuguaglianza dello sviluppo economico e sociale si stanno intensificando e la lotta tra razzismo e antirazzismo è feroce. Inoltre, l’ipocrisia dei valori universali americani è prominente e l’intera società è in uno stato di lacerazione. Ma quando si tratta di distruggere lo Xinjiang e sopprimere la Cina, sono molto uniti. In tal modo, non solo possono ottenere un ‘consenso’ interno, ma anche ottenere ‘punti politici’ […]. In quarto luogo, gli Stati Uniti hanno utilizzato le questioni relative allo Xinjiang per chiedere ai propri alleati, compresi i Five Eyes [1] e l’UE, di schierarsi e tracciare una linea chiara con la Cina, che non solo ha rafforzato il suo sistema di alleanze affermandosi come ‘egemone’, ma ha anche ulteriormente isolato e represso la Cina nella comunità internazionale”.

“Lo Xinjiang continuerà a rispettare i principi e lo spirito degli statuti e delle convenzioni pertinenti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali, seguire la costituzione e le disposizioni legali della Cina, promuovere attivamente la legislazione locale, portare a livello legale l’effettiva esperienza di successo nel lavoro pratico, garantire che tutto il lavoro si svolga nel rispetto dello stato di diritto e fornire una migliore protezione legale per i diritti umani delle persone di tutti i gruppi etnici”, ha concluso.

NOTE

[1] I Five Eyes (“Cinque Occhi”) è un’alleanza di sorveglianza e intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti.