di Manolo Monereo, dirigente storico del movimento comunista spagnolo, collaboratore di “Cumpanis”. Traduzione di Liliana Calabrese, della redazione di “Cumpanis”
“La Cina non minaccia gli Stati Uniti. Nessuno può minacciare gli Stati Uniti… La Cina ha commesso, agli occhi degli Stati Uniti, un grande peccato: sviluppare la sua economia fino a raggiungere le stesse dimensioni di quella degli Stati Uniti” (Paul Keating, ex primo ministro australiano, marzo 2023)
Ávila, 26 marzo 2023
La verità di Taiwan è in Ucraina; la verità dell’Ucraina è a Taiwan. Non si tratta né di un gioco di parole né di un indovinello. Entrambe le questioni sono dialetticamente correlate e fanno parte di una strategia globale, con differenze e somiglianze. Cosa dà loro un significato?: la (contro)offensiva statunitense. La crisi dell’egemonia e l’offensiva statunitense segneranno questa fase storica. Gli Stati Uniti devono essere sempre presi sul serio, studiati con attenzione e bisogna sapere cosa dicono, cosa fanno e quanto tacciono. Quando Biden dice che gli Stati Uniti sono tornati, significa che la grande potenza del Nord non è disposta ad ammettere alcuna messa in discussione del suo dominio e che difenderà il suo “ordine” e le sue “regole” con le unghie e con i denti.
Il fattore tempo è decisivo. Il gruppo dirigente organizzato intorno a Biden vive in modo drammatico l’attuale situazione mondiale e teme la transizione verso un mondo multipolare. Le differenze con Donald Trump hanno a che fare con la sua incapacità di definire una strategia operativa all’altezza delle sfide del tempo, con le sue decisioni errate e incoerenti, con il suo disprezzo per gli alleati e con le sue relazioni con la Russia. Ha parlato molto, ha fatto poco e non ha affrontato con decisione i problemi. Spodestarlo dal potere è stata una vera e propria crociata; ci sono riusciti utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione, tutti i mezzi di comunicazione; finirà in prigione o peggio. Biden e la sua squadra avevano fretta, molta fretta. I problemi si stavano accumulando; la società americana mostrava segni di crisi; le fratture sociali e territoriali si facevano sempre più evidenti; l’involuzione politica e i conflitti di identità stavano rivelando una guerra civile latente. Bisognava prendere l’iniziativa e contrattaccare prima che fosse troppo tardi.
La crisi sistemica del 2008 è stata il segnale che gli strati tettonici che organizzano le relazioni internazionali si stavano muovendo in una direzione contraria agli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Ancora una volta, l’epicentro della crisi economica stava nel “Paese indispensabile” e la Cina ha finito per salvare l’economia internazionale. È stata la prova decisiva che il mondo stava cambiando le sue basi e che non poteva più essere governato senza l’impero di mezzo. Allo stesso tempo, la Russia stava ricostruendo la sua economia, il suo tessuto produttivo, il suo efficiente complesso militare-industriale e, cosa fondamentale, stava riconquistando la sua centralità in una Eurasia in via di riorganizzazione. L’Iran stava emergendo – con non poche difficoltà e problemi – come il grande beneficiario delle fallimentari guerre statunitensi in Afghanistan, Iraq, Libano, Libia e Siria. Altri – India, Germania, Indonesia, Turchia – guardavano alla grande potenza emergente e cercavano accordi economici vantaggiosi. Biden doveva rompere questa dinamica, sfruttando appieno il suo controllo sulle istituzioni internazionali, il peso del dollaro e, cosa fondamentale, la sua chiara superiorità politico-militare.
Una grande potenza come gli Stati Uniti ha per definizione la capacità di operare in una varietà di scenari e con agende multiple. Basta leggere i rapporti periodici del suo National Intelligence Centre per constatare la sua precisa conoscenza delle tendenze di fondo che governano questa transizione geopolitica, del pericolo rappresentato dal consolidamento della Cina come potenza rivale economica, politica e militare. Da anni l’amministrazione statunitense ha una strategia – articolata, complessa, multipla – per rallentarla, indebolirla e provocare una crisi nella sua leadership. Le hanno dedicato molto denaro, molti sforzi organizzativi, un intervento tenace e permanente sulle élite critiche e una strategia di comunicazione vigorosa e sistematica. L’imperialismo collettivo dell’Occidente non riposa mai; è sempre vigile, soprattutto quando è in gioco la sua egemonia.
Il modello ucraino si ripeterà, in una forma o nell’altra, con Taiwan. Chiunque abbia il predominio nel sistema mondiale ha il potere di definire le linee di frattura e di lavorare su di esse. Ci sono, di fatto, tre scenari interconnessi che esprimono questa offensiva statunitense. Il primo è l’Europa, una linea di demarcazione definita almeno dal 2014 in Ucraina. Il secondo è il Mar Cinese meridionale, con Taiwan come linea di separazione e conflitto politico-militare; e il terzo è l’Africa subsahariana, con il Sahel come fronte mobile che definisce territori contesi e il luogo di confronto tra le grandi potenze.
Il Medio Oriente sta vivendo un processo di cambiamento accelerato, una radicale ridefinizione delle alleanze interne e dei suoi tradizionali meccanismi di inserimento nell’economia internazionale. L’accordo tra Iran e Arabia Saudita, gestito dalla Cina, riassume e sintetizza questi cambiamenti. Non insisterò sul suo significato, è sotto i nostri occhi e pone fine a una storia di controllo e potere. Vanno sottolineati due aspetti particolarmente significativi: la capacità della Cina di creare consenso e di offrire soluzioni a vecchi conflitti e, fondamentalmente, i progressi che ha compiuto per il multipolarismo – come realtà e come progetto – percepito come opportunità di liberarsi dai vecchi legami con le potenze coloniali e come autonomia di definizione delle politiche in base agli interessi nazionali di ciascun Paese. La guerra in Ucraina, il conflitto tra la NATO e la Russia non è visto nello stesso modo nell’Occidente collettivo come nel Sud globale. Cosa c’è alla base? Che dietro la crisi dell’egemonia statunitense c’è qualcosa di più decisivo, di maggiore portata storica: la fine del dominio politico-militare e culturale dell’Occidente.
Perché Taiwan? Fondamentalmente, per tre motivi: 1) Per la Cina, la riunificazione con quest’isola è un elemento determinante – sicuramente il più importante oggi – per superare un lungo secolo di umiliazioni e guerre civili che l’hanno quasi distrutta come Stato-civiltà; 2) La Cina non potrà mai essere una grande potenza se non sarà in grado di controllare il suo Mediterraneo, cioè il Mar della Cina (meridionale e orientale); Taiwan ne è il centro. 3) Quest’isola è l’asse di riorganizzazione della prima (e decisiva) linea di assedio e contenimento della potenza navale cinese e un dispositivo-trappola per gestire il conflitto con il vecchio Impero di Mezzo.
La strategia, insisto, è stata ben studiata ed è in pieno svolgimento. La priorità è rafforzare e strutturare un insieme di alleanze politico-militari che progressivamente accerchieranno la Cina. Il che viene articolato in cerchi concentrici: il nucleo decisivo è l’AUKUS, l’accordo tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti: gli anglosassoni al comando senza interferenze europee. Il cerchio successivo è costituito dai protettorati militari, Giappone, Corea del Sud e, ora più chiaramente, le Filippine. A un terzo livello si trova un gruppo di Paesi che, senza essere definiti, sono fondamentali per il posizionamento finale; al centro si trovano India, Indonesia e Malesia. Gli Stati Uniti stanno giocando duro, militarizzando la regione, favorendo un riarmo di grandi dimensioni e nuclearizzando ulteriormente l’area. La consegna all’Australia di B-52 e B-1 con armamento nucleare e lo sviluppo congiunto di sottomarini a propulsione nucleare sono la prova di un salto di qualità e della ferma determinazione americana.
Questa politica di alleanze si concretizza in quella che è stata definita la “strategia della catena di isole”. La prima coinvolge Corea del Sud, Giappone, Filippine, Taiwan e Singapore. La seconda comprenderebbe, oltre al Giappone, le Isole Bonin, le Marianne (USA), Guam e le Caroline, e ce ne sarebbe una terza, molto più ampia, che partirebbe dalle Aleutine, dalle Hawaii e dall’Oceania. Come si può vedere, gli Stati Uniti sono seriamente consapevoli del fatto che il centro di gravità del potere mondiale si sta spostando verso l’Oriente e che non sono disposti ad accettare o a negoziare la fine della loro egemonia in quell’emisfero. Si sta preparando alla guerra e la provocherà se lo riterrà necessario. Ciò richiederà tempo, un’efficace politica di alleanze, l’isolamento economico e tecnologico della Cina e la promozione di una strategia comunicativa-cognitiva che criminalizzi la Cina e il suo Presidente agli occhi del mondo.
Taiwan è la linea di frattura e di conflitto organizzata dagli Stati Uniti. Da molti anni lavorano in questa direzione. La prima mossa è stata quella di stimolare il separatismo sull’isola. Il Partito Progressista Democratico (PPD) traccia politicamente un progetto di “costruzione nazionale” che minimizza il peso della tradizione cinese, crea una complessa “comunità immaginaria” che determina e rende necessario – questo è l’obiettivo – un Paese indipendente. In secondo luogo, i Paesi dell’AUKUS stanno intensificando il riarmo dell’isola addestrando i suoi militari e stringendo relazioni con altri eserciti, in particolare con quello giapponese e quello filippino. In terzo luogo, in maniera calcolata, gli Stati Uniti stanno integrando, in un modo o nell’altro, Taiwan nelle relazioni economiche, politiche e diplomatiche internazionali. Il suo “status speciale” viene esteso e sviluppato come se fosse un Paese realmente indipendente.
Taiwan è un termostato strategico governato dagli Stati Uniti. Ha la capacità di graduare l’intensità del conflitto, cioè sarà più o meno grave a seconda dei suoi interessi. Il gioco di potere è definito. La Cina (come la comunità internazionale sa) vuole una riunificazione pacifica con l’isola; tuttavia, entrerà in guerra se Taiwan dichiarerà unilateralmente la propria indipendenza. L’attuale presidenza dell’isola pensa e agisce come se Taiwan fosse già un Paese indipendente e quindi non ha motivo di dichiararlo. Gli Stati Uniti sono in grado di governare il conflitto alzando al massimo la posta in gioco. Che cosa significa? Aumentare considerevolmente gli aiuti militari, svincolare economicamente Taiwan dalla Cina, dotarla di armamenti sempre più sofisticati e rafforzare il suo ruolo internazionale come Paese indipendente. Quando il cerchio si chiuderà, costringerà la Cina a scegliere se accettare la propria sconfitta strategica o rispondere militarmente. Non dimentichiamolo mai: per ora, gli Stati Uniti, l’imperialismo collettivo dell’Occidente, hanno la supremazia politica e militare e cercheranno di approfittarne.
Questo, è bene capirlo, non dipende solo dagli Stati Uniti, ma anche da una Cina che ha forza, saggezza storica e una crescente capacità di stringere alleanze. Il fattore tempo, come sempre, sarà decisivo. Gli Stati Uniti non hanno tempo da perdere; la Cina ha un suo tempo che le fa guadagnare ogni giorno proiezione strategica e autonomia. Presto, tutta una serie di politici europei, a partire da Pedro Sánchez, si faranno fotografare con Xi Jinping; è logico. Tuttavia, non va dimenticato che il progetto strategico della NATO approvato a Madrid presuppone la politica degli Stati Uniti contro la Cina e trasforma, di fatto, l’UE in un alleato subalterno dell’Amministrazione statunitense.
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