di Alessandro di Battista
da il fatto quotidiano 17 luglio 2022
“Govorì pravdu”. “Racconta la verità”. È ciò che mi chiedono i profughi del Donbass che ho incontrato a Belgorod. Non credo esista la verità assoluta, ancor meno in mezzo ad una guerra fratricida. Esistono singole verità. È vero che in Russia il dissenso viene soffocato ancor prima che possa irrobustirsi. È vero che c’è chi teme che criticare il governo possa provocare ritorsioni. È vero che Putin ha cambiato la Costituzione per continuare a dettar legge nel Paese più grande al mondo. È altrettanto vero che le riforme costituzionali volute dal Cremlino sono state votate dalla maggioranza dei russi, che in molti più che Putin sono terrorizzati dal dopo-putin e che, per adesso, le sanzioni non stanno provocando gli effetti desiderati. Sono vere anche le storie dei rifugiati di Belgorod.
Belgorod è una delle città gloriose per i russi. Qui si tennero violenti combattimenti tra la Wehrmacht e l’armata Rossa. Belgorod resistette strenuamente prima di capitolare. A Prochorovka, a pochi km da Belgorod, nel
1943, avvenne il più feroce scontro tra mezzi corazzati della storia. Anche grazie alla vittoria di Prochorovka l’armata
Rossa riuscì, nonostante un numero di vittime indicibile, a sconfiggere la Wehrmacht nella battaglia di Kursk che segnò la fine dell’avanzata nazista e l’inizio della controffensiva sovietica. A Prochorovka un’imponente torre celebra la vittoria. Sotto ad essa, a pochi metri da decine di carri-armati sovietici, ci sono le statue dei tre principali liberatori della Paese. Demetrio di Russia che respinse tatari e mongoli a Kulinovo, il generale Kutuzov che decimò l’esercito napoleonico durante la ritirata e Žukov, il Maresciallo dell’urss che dopo le vittorie a Stalingrado e a Kursk guidò l’armata Rossa fino a Berlino.
Da queste parti la maggior parte della popolazione ha un parente ucciso dai nazisti. Da queste parti le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra patriottica sono particolarmente sentite. Da queste parti quando Putin parla di “denazificazione dell’ucraina” in molti gli credono, anche perché di rifugiati in fuga dai battaglioni neonazisti ne sono arrivati molti anche prima dell’invasione russa.
Oggi coloro che vivono nel campi e negli hotel della città sono soprattutto profughi che hanno lasciato l’ucraina nei giorni precedenti l’invasione o durante il primi due mesi di guerra.
Ho visitato uno dei campi. Ospita circa 50 persone. Solitamente chi arriva qui resta un paio di settimane prima che gli venga assegnata un’altra sistemazione. Dimitrij arriva dal Donbass. Parla russo ma è l’ucraino la sua prima lingua. Sua moglie ha perso una gamba ed è in ospedale. Scoppia in lacrime quando parla di suo figlio morto durante un bombardamento ucraino. Il responsabile del campo, un omone dagli occhi azzurri che sembra un militare più che un assistente sociale non mi perde mai di vista. Non mi piace questa cosa. Vorrei parlare con le persone che vivono nel campo e basta. Al contrario lui sembra più interessato a volermi convincere della giustezza dell’“operazione speciale” come la chiama lui. Non mi convince. “Prohorovka è qui vicino”. Dice “Gli europei qui sono arrivati e ci hanno ucciso, eppure siamo tornati ad essere amici. Perché sostenete gruppi neonazisti sapendo cosa hanno fatto i nazisti in questa città? Perché a Belgorod arrivano bombe ucraine se qui non ci sono soldati ma civili?”. “Perché è la guerra” gli rispondo io.
L’hotel che ospita i rifugiati si trova in centro a pochi metri da una grande e propagandistica Z posta al lato di una via trafficata e sotto un’imponente statua di Vladimiro I, colui che favorì il “battesimo della Russia”, la conversione al cristianesimo.
L’hotel è affollato di bambini e ragazzi. I piccoli hanno a disposizione una stanza giochi dove lavorano due animatrici. Gli adolescenti passano il tempo nei corridoi giocando con il cellulare o provando balletti. Postano i video su Tiktok come qualsiasi altro adolescente al mondo e vogliono tutti tornare a casa.
Oleg, un uomo sulla sessantina, abitava a Severodoneck. “Da otto anni abbiamo paura di morire sotto le bombe, da otto sentiamo esplosioni vicino casa, da otto anni ci nascondiamo nei rifugi. Non ci hanno consentito di vivere in pace. A noi russi hanno tolto il lavoro, hanno vietato la nostra lingua nelle scuole. Ci chiamano separatisti ma non ce l’abbiamo con gli ucraini, ce l’abbiamo con i nazisti”. Gli domando quale possa essere la soluzione. “Vogliamo decidere noi come e con chi vivere”. Per Oleg l’intervento militare era la sola soluzione possibile e Putin è un liberatore. È l’unico che lo dice espressamente. Le donne preferiscono raccontare quel che hanno vissuto.
Valentina, una maestra di scuola, è arrivata a Belgorod il 24 febbraio da un villaggio vicino a Donetsk. La scuola dove insegnava non esiste più. Olga viveva a Rubižne, vicino a Severodoneck. Racconta che l’esercito ucraino sta bombardando case ed infrastrutture della zona perché sapendo di non poter riconquistare quelle terre preferisce distruggerle.
Tatjana ha lasciato Donbass il 22 febbraio scorso. Mi racconta che i soldati della Repubblica Popolare di Doneck le hanno consigliato di andarsene alla svelta perché i russi sarebbero entrati i giorni successivi. Ha attraversato il confine in bus poi ha preso un treno per Belgorod. Nel 2014 una famiglia di suoi amici è stata uccisa da miliziani ucraini a Marinka mentre cercava di raggiungere Doneck in macchina. Tutte mi mostrano sul cellulare le foto delle loro case distrutte, dei villaggi bombardati oltre a macabre immagini di cadaveri ai bordi delle strade. “Questo succede da 8 anni, da 8 anni”. Parlano tutte di nazismo. “Ci sono nazisti in Ucraina e per loro noi siamo solo animali”. C’è chi mi parla di stupri e violenze commessi dai miliziani di Azov. Alcune hanno i mariti al fronte e sperano che la guerra finisca al più presto per poter rivederli ritrovare vivi.
Qual è la differenza tra queste donne e quelle che si sono rifugiate in Polonia per sfuggire alle bombe di Putin? Hanno gli stessi volti, conoscono la stessa lingua, hanno la stessa religione e spesso vivono nelle stesse drammatiche condizioni. Le loro storie non meritano di essere raccontate come quelle ucraine? Il sangue versato dalle loro famiglie vale meno? Ascoltare l’altra parte non serve a giustificare un’ingiustificabile guerra d’invasione. Serve a comprendere come si sia sviluppata, per dirla alla Barbero, la “memoria collettiva di un popolo”, quello del Donbass che, come qualsiasi altro popolo, vorrebbe vivere in pace. Serve a capire che se si vuole davvero porre fine alla guerra occorre comprendere quel che è avvenuto prima che questa scoppiasse otto anni fa.
Se, come dice Papa Francesco la guerra in Ucraina non si può ridurre a una distinzione tra buoni e cattivi allora tutte le vittime meritano lo stesso rispetto. Tutte le tragedie meritano la stessa attenzione e tutte le storie meritano uguale dignità.
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