Nuova presidenza sudcoreana: speranze di dialogo?

Moon Jae in Coreadi Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

Mentre le elezioni presidenziali francesi hanno attirato una grande attenzione mediatica, con poco edificanti scivolamenti gossippari, quelle sudcoreane, terminate con la vittoria del candidato democratico Moon Jae-in, sono oggetto di riflessioni più specialistiche e solo superficialmente affrontate dalla stampa italiana. Eppure ci troviamo in un contesto geopolitico molto teso, quello che corre lungo il 38° parallelo, e sul quale, nelle settimane scorse, hanno soffiato venti di guerra, con tanto di movimenti di portaerei e minacce di attacco preventivo da parte degli Stati Uniti.

In questo contesto il risultato elettorale potrebbe avere proprio come conseguenza quella di “rasserenare” un poco il clima e abbassare il livello della tensione in un’area ad alta densità strategica. Il nuovo presidente sudcoreano non ha nascosto la volontà di riprendere il dialogo con la Corea del Nord, riadattando al nuovo contesto la linea diplomatica conosciuta come “Sunshine policy” che, annunciata nel 1997 dal progressista Kim Daejung, si proponeva di avviare una fase di coesistenza con la Corea popolare sulla base di tre principi: nessuna tolleranza nei confronti di provocazioni da parte del Nord; abbandono dell’idea di unificazione per “assorbimento” (diversamente, quindi, da quanto avvenuto in Germania) e di ogni altra misura che risultasse minacciosa; pacifico dialogo fra le due realtà statali della penisola coreana con promozione di scambi e cooperazione economica.

Di fatto si rinunciava pubblicamente a qualsiasi ipotesi di cambio di regime, tanto da porre le basi per lo storico incontro del giugno del 2000 con Kim Jong-il a Pyongyang con un comunicato finale favorevole all’obbiettivo della riunificazione pacifica. Poco prima le “misure del 30 aprile” avevano eliminato tutta una serie di limitazioni alla cooperazione economica, tra le quali la necessità di una approvazione preventiva del governo in materia di viaggi e soggiorni per affari.

Il tempo è passato e rispetto ad allora oggi la Corea popolare è di fatto uno Stato nucleare e si mostra politicamente stabile, nonostante le attese (e le speranze?) di un collasso imminente. Ma alcune dichiarazioni di Moon lasciano ben sperare. Se da una parte ha ribadito il secco no al programma nucleare nordcoreano e l’appoggio alle sanzioni decise in sede Onu, dall’altra ha manifestato l’intenzione di incontrare il giovane leader Kim Jong-un, per andare oltre la poco produttiva logica della contrapposizione totale, si è mostrato critico verso un eccessivo appiattimento sulla agenda di politica estera statunitense e, da questo punto di vista, critico nei confronti del dispiegamento del sistema antimissilistico Thaad – osteggiato anche a livello popolare – proprio perché rischia di riportare ad un clima da “cortina di ferro” con la vicina Cina popolare, principale partner economico di Seul e radicalmente contraria ad un sistema antimissilistico che ritiene indirizzato più contro di essa che alla difesa del territorio sudcoreano.

E proprio Pechino – nonostante recenti dissidi e accenni di boicottaggio economico – potrebbe essere un utile sostegno ad una versione aggiornata della “Sunshine policy” visto che quest’ultima da sempre sostiene un approccio meno muscolare alle questione del nucleare nordcoreano e propenso a chiedere lo stop a provocazioni di stampo militare a tutte le potenze interessate, riassunto recentemente con l’espressione/invito delle “due sospensioni”: la Corea del Nord sospende i test missilistici e nucleari, mentre Usa e Corea del Sud devono interrompere le esercitazioni militari congiunte.

Ma a pesare e limitare questo possibile sviluppo diplomatico c’è il fatto compiuto dell’installazione del sistema Thaad voluta dagli Usa pochi giorni prima delle elezioni. Non a caso, certamente.