Gli USA nelle Filippine: il “peccato originale” dell’imperialismo a stelle e strisce in Asia

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

usa portaereiNelle conclusioni del suo recente libro “Cina”, Henry Kissinger, sull’onda del “ritorno in Asia” annunciato a fine 2011 dall’amministrazione Obama, parla di Stati Uniti come di una potenza asiatica la cui presenza resta indispensabile per la sicurezza dei paesi che si trovano di fronte alla crescita della potenza cinese. Contrario allo sviluppo di un nuovo clima da guerra fredda, e quindi ad una aggressiva politica di containment anti-cinese, l’ex consigliere alla sicurezza del presidente Nixon si augura la nascita di un processo/rapporto di “coevoluzione” tra Stati Uniti e Cina Popolare che, con il tempo, porti alla costituzione di una comunità asiatica sull’esempio di quella atlantica: “Uno dei grandi successi della generazione che fondò il nuovo ordine internazionale alla fine della seconda guerra mondiale fu di delineare il concetto di «comunità atlantica». Non potrebbe, un concetto analogo, sostituirsi alle potenziali tensioni tra Stati Uniti e Cina, o almeno mitigarle? Esso si accorderebbe perfettamente con una realtà concreta: gli Stati Uniti sono una potenza asiatica, e molte potenze asiatiche auspicano che così sia; inoltre, risponderebbe all’aspirazione della Cina ad un ruolo internazionale”

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Mentre Kissinger entra con una posposta di collaborazione strategica tra Usa e Cina nel dibattito aperto sui rapporti sino-americani, escludendo comunque qualsiasi ritiro del complesso militare e della presenza tout-court a stelle e strisce in Estremo Oriente, l’amministrazione Obama – nella quale risaltano i toni perentori del segretario di Stato Hillary Clinton – prosegue nella sua opera di contenimento di Pechino e di rafforzamento del suo dispositivo militare in nome della libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale. Dopo l’annuncio della riapertura di una base a Darwin in Australia, lo stazionamento di navi da guerra a Singapore, si profila all’orizzonte una collaborazione sempre più stretta con le Filippine attraverso esercitazioni militari congiunte più frequenti e un aumento delle truppe presenti nel paese che, ad oggi, è limitata ai 600 soldati delle US Special Forces impegnati accanto all’esercito filippino nella lotta al terrorismo e al separatismo islamico targato Al Qaida1. Chiaro a questo proposito è stato il senatore filippino Richard J. Gordon, secondo il quale un maggior impegno militare americano è diventato di vitale importanza per i due paesi perché “gli Usa hanno perso terreno in questa regione e la Cina sta cominciando a mostrare i muscoli e ha rapporti non buoni con i vicini”1. Lo scambio di amorosi sensi tra le due capitali si svolge – e i diretti interessati lo sanno benissimo – con estrema cautela visto che dal 1991 una legge del Senato di Manila, sulla scia della rivolta popolare che aveva cacciato il presidente Marcos, ha votato per la chiusura di importanti basi militari americane nel paese (tra queste quella di Subic bay) e che viva è l’opposizione ad un nuovo aggancio filippino al carrozzone bellico statunitense. Basta pensare a quanto dichiara Lana Linaban, segretario generale dell’organizzazione per i diritti delle donne Gabriela, per la quale “l’esercito degli Stati Uniti sta violando la nostra sovranità e si intromette nei nostri affari interni. Sotto la forma del sostegno militare stanno influenzando il nostro governo”.

Una chiara posizione di difesa dell’indipendenza e della sovranità filippine di fronte alla superpotenza che, nello specifico, è anche ex potenza coloniale. Infatti, fin dalla fine del XIX secolo le Filippine, ancora colonia spagnola, erano viste negli Usa come la base naturale ideale per la proiezione dei propri interessi nel sud-est asiatico e, soprattutto, e la partecipare alla spartizione del mercato cinese, aperto con l’oppio e le cannoniere dalle potenze europee. La conquista statunitense delle Filippine avvenne nel segno del più brutale colonialismo e attraverso una sanguinosa repressione del locale movimento nazionalista e indipendentista. Questo articolo, partito da un veloce aggancio alla più stretta attualità, ha come scopo quello di ripercorrere il “peccato originale” dell’imperialismo a stelle e strisce, di fronte al quale la tematica dell’esportazione della civiltà e della democrazia possono sopravvivere solo grazie ad una pervicace propaganda

“Abbiamo spinto i nostri giovani perbene a imbracciare un moschetto screditato e fare il lavoro di un bandito sotto una bandiera che i banditi erano abituati a temere, non a seguire; abbiamo traviato l’onore dell’America e abbiamo annerito la sua faccia di fronte al mondo, ma ogni cosa è stata per il meglio. Questo noi lo sappiamo. Il capo di ogni Stato e sovranità nel cristianesimo e il novanta per cento di ogni corpo legislativo del cristianesimo, compresi il nostro Congresso e i parlamenti dei nostri cinquanta Stati, sono membri non solo della Chiesa ma anche del trust delle benedizioni della civiltà. Questa accumulazione planetaria di moralità ammaestrate, di principi elevati e di giustizia, non può fare una cosa non giusta, una cosa non onesta, una cosa non generosa, una cosa non pulita. Sa quello che sta facendo. Non sentirti a disagio; non c’è problema”1.

Con queste parole indignate, quanto ironiche, il giornalista e scrittore statunitense Mark Twain si rivolge al proprio governo impegnato dal 1898 nella violenta opera di pacificazione nelle Filippine appena conquistate ai danni della Spagna. La vittoria, oltre a sanzionare l’appartenenza dei Caraibi al cortile di casa di Zio Sam, segna l’ingresso della giovane potenza nella competizione per l’accesso al mercato cinese con il tipico bagaglio del colonialismo occidentale fatto di repressione, sfruttamento economico e strisciante razzismo.

Negli Stati Uniti la crisi di sovrapproduzione del 1893-96 dà forza alla convinzione maturata dalle élite politiche e finanziarie che la conquista dei mercati esteri rappresenti la soluzione al problema dello sbocco della produzione americana, così da prevenire altre crisi economiche e il conseguente acuirsi della conflittualità sociale. Chiarissimo il Dipartimento di Stato quando annuncia che “sembra sempre più certo che tutti gli anni dovremo affrontare una sovrapproduzione crescente di beni che dovranno essere piazzati su mercati esteri se noi vogliamo che i lavoratori americani lavorino tutto l’anno”. Chiusa la frontiera interna con il massacro di Wounded Knee del 1890, si pensa ad estendere l’influenza statunitense oltre il continente americano, verso il Pacifico. Un obiettivo ben presente nella politica Usa come ben testimonia il senatore Cabot Lodge: “Nell’interesse del nostro commercio [.] noi dovremmo costruire il canale di Panama e, per proteggere questo canale, così come per assicurare la nostra supremazia commerciale nel Pacifico, noi dovremmo controllare le isole Hawaii e rafforzare la nostra influenza su Samoa”. Sempre più sicuri di se stessi e spinti da un impetuoso sviluppo economico, gli Usa si lanciano nella competizione imperialistica nel sud-est asiatico dove da tempo ormai agiscono Gran Bretagna, Francia, Russia, Germania e Giappone per l’accesso e il controllo del mercato cinese. L’atmosfera generale è quella tipica di una nuova potenza che vuole mostrare i muscoli. Alla vigilia della guerra ispano-americana il Washington Post così scrive: “Un nuovo sentimento sembra abitare in noi: la consapevolezza della nostra forza. E, con questa, un nuovo appetito: il desiderio di darne dimostrazione. [.] Il gusto dell’impero regna su ciascuno di noi come il gusto del sangue regna sulla giungla”. Ad agire ci sono anche ben determinati gruppi di pressione, sorti sul finire del secolo, come l’ “American Asiatic Association” e l'”American China Developement Company”. Il Journal of Commerce di New York, prima su posizioni pacifiste, non esclude l’uso della forza per la conquista di spazi in Cina: “Considerando quanto il libero accesso al mercato cinese, con i suoi circa 400 milioni di abitanti, risolverebbe in gran parte il problema della sovrapproduzione americana, il Journal of commerce arrivò non solamente a reclamare vigorosamente una completa uguaglianza di diritti sulla Cina ma anche a sostenere senza riserve la costruzione di un canale istmico, l’acquisizione della Hawaii e il rafforzamento del potenziale della marina”. 

La guerra con la Spagna, scoppiata a seguito dell’affondamento a L’Avana nel febbraio del 1898 della nave americana “Maine”, arriva nel momento giusto. Presentata come una lotta per la libertà a sostegno della volontà di indipendenza del popolo cubano, risponde senza dubbio a precisi interessi economici come, negli anni seguenti, preciserà il Dipartimento del Commercio: “la guerra ispano-americana non è stata che un avvenimento nella dinamica generale di espansione che aveva le sue radici nel cambiamento delle nostre capacità industriali che superavano di lungo la capacità del consumo interno. Era indispensabile trovare non solo degli acquirenti stranieri per i nostri prodotti, ma ugualmente i mezzi per rendere facile, economico e sicuro l’accesso a questi mercati stranieri”. E le Filippine rappresentano un ponte naturale per l’ingresso nel mercato cinese.

La guerra con la Spagna, una “splendida piccola guerra” secondo il ministro degli esteri Hay, vista la disparità delle forze in campo, si conclude con un facile successo per gli Usa: la marina americana si sbarazza di quella nemica sia nei Caraibi che nel porto di Manila e nelle Filippine il corpo di spedizione americano è sostenuto dagli insorti filippini. L’armistizio del 12 agosto consegna agli Usa Portorico, l’isola di Guam, il controllo su Cuba e l’occupazione del porto e della città di Manila. Il definitivo trattato di pace firmato a Parigi il 10 dicembre successivo prevede il trasferimento della sovranità sulle Filippine dalla Spagna agli Stati Uniti contro un compenso di venti milioni di dollari. Negli Stati Uniti si anima quello che passerà alla storia come il “great debate”, un appassionato dibattito sull’imperialismo che si catalizza sulla opportunità o meno dell’acquisizione delle Filippine.

Da una parte ci sono gli ambienti economici e i trust suggestionati dalle potenzialità del mercato cinese come valvola di sfogo per la crescente produzione; ai loro occhi un passo indietro avrebbe significato lasciare via libere ad altre potenze, Giappone e Germania su tutte, che avrebbero potuto tranquillamente impossessarsene. Favorevole è anche parte del movimento sindacale, convinto della possibilità di raccogliere i frutti della conquista. Dall’altra parte si agita il variegato e disomogeneo fronte “antimperialista” di cui fanno parte conservatori, radicali, intellettuali, democratici e repubblicani, ed industriali come Andrew Carnegie. La loro critica non tocca, comunque, l’ideologia di fondo della missione americana, da loro profondamente condivisa, e la necessità della supremazia economica a stelle e strisce, ma la forma coloniale in senso stretto. Una soluzione di questo tipo avrebbe, ai loro occhi, tradito la lettera e lo spirito della costituzione americana e macchiato la tradizione di libertà degli Stati Uniti. Non mancano neppure argomentazioni di stampo razzistico: le istituzioni americane si sarebbero corrotte e inceppate a causa dell’inserimento di popolazioni diverse per razza ed incapaci ad autogovernarsi. Distinti sulla questione dell’annessione, i due fronti, quindi, agiscono nello stesso spettro culturale.

Illuminante il modo in cui il presidente McKinley prende la decisione di procedere all’acquisizione delle Filippine, una sorte di illuminazione divina, nella quale appare, oltre alla consueta ideologia della missione, il topos coloniale della incapacità e inciviltà delle popolazioni locali: “In verità, io non volevo le Filippine e, nel momento in cui sono venute a noi come un regalo degli dei, non sapevo cosa farne. [.] Io percorrevo tutte le sere su e giù i corridoi della Casa Bianca fino a mezzanotte, e non provo vergogna nel confidarvi, signori miei, che più di una notte mi sono inginocchiato e ho pregato Dio onnipotente di darmi luce e sostegno. È così che una notte mi è apparsa la soluzione; non so come, ma è arrivata. Non si poteva restituire le Filippine agli spagnoli: sarebbe stato vile e disonorevole. Non potevano consegnarle alla Francia o alla Germania che sono nostri concorrenti in Oriente: sarebbe stato commercialmente un errore e avremmo perso credito. Non potevamo abbandonarli alla loro sorte (sono incapaci di governarsi da soli): ci sarebbe stata rapidamente l’anarchia e la situazione sarebbe stata peggiore che sotto l’autorità spagnola. Non ci restava dunque altro che prenderle e educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli. In breve, con l’aiuto di Dio, a fare del meglio per loro che sono nostri simili, per i quali Cristo è egualmente morto. Allora io sono andato a coricarmi e ho dormito. D’un sonno profondo”.

Così, su quel comodo cuscino, viene cancellata la storia della nazione filippina e la sua lunga lotta per l’indipendenza. Inutile aggiungere che a cristianizzarli ci aveva pensato, e con indubbi risultati, la precedente dominazione spagnola. Molto simili le argomentazioni del romanziere Kipling: “Quello che l’America vuole non è l’espansione territoriale, ma l’espansione della civiltà. Non vogliamo prendere le Filippine per noi stessi, ma dare ai filippini scuole libere, la libertà di culto, udienze giudiziarie pubbliche, l’abolizione delle caste, uguali diritti per tutti”. Sono questi gli argomenti alla base del programma di governo nelle Filippine proclamato dal Presidente statunitense nel dicembre del 1898 e noto con la definizione di “Benevolent assimilation”: “L’autorità degli Stati Uniti va esercitata per la sicurezza delle persone e della proprietà degli abitanti delle isole e per la conferma dei diritti e dei rapporti privati. Sarà dovere del comando delle forze di occupazione annunciare e proclamare nella maniera più pubblica possibile che noi arriviamo, non come invasori o conquistatori, ma come amici per proteggere i nativi nelle loro case, nelle loro occupazioni e nei loro diritti personali e religiosi”.

La pretesa missione di civilizzazione americana presenta anche toni scopertamente razzisti, tipici del socialdarwinismo in voga alla fine dell’Ottocento. Basti, come esempio, la posizione del deputato Cochran che, suscitando l’applauso del Congresso, lega “l’avanzata della libertà e della civiltà” alla “conquista del mondo da parte delle razze ariane”. I filippini, inoltre, vengono apertamente equiparati ad un’altra razza inferiore, quella dei neri d’America segregati e linciati, tanto che il senatore virginiano Proctor raccomanda caldamente di “evitare l’errore criminale fatto in passato, quando con sconsiderata liberalità abbiamo concesso il supremo privilegio della libertà anglosassone a una razza analfabeta e straniera”.

Per la vittoria americana sulla Spagna, un ruolo fondamentale è svolto dai nazionalisti filippini guidati da Aguinaldo e fatti sbarcare dagli americani a Manila il 19 maggio del 1898 con la promessa dell’indipendenza. Sconfitti gli spagnoli, i nazionalisti danno vita ad un repubblica democratica con una costituzione ispirata alle rivoluzioni americana e francese. Ma vengono esclusi dalle trattative di pace che consegnano le Filippine agli Usa.

Il 1° gennaio del 1899 Aguinaldo viene eletto da una convezione Presidente della Repubblica delle Filippine – la seconda volta nella sua vita di ribelle – e riprende la lotta per l’indipendenza. Nonostante una potenza militare ed economica di tutt’altro tenore di quella spagnola, costringerà l’esercito americano, forte di 70 mila soldati, a combattere per tre anni mettendo in pratica un repressione spietata e spesso indiscriminata e, occorre sottolinearlo, in aperta contraddizione con la propaganda della missione di libertà. Alla fine si conteranno dai seicento mila al milione di morti filippini.

Di fronte all’occupante americano non ci sono solo i resistenti filippini, ma anche l’ostilità di gran parte della popolazione come ammette il generale Arthur MacArthur secondo il quale la tattica di guerriglia filippina “riposa su di una pressoché perfetta unità d’azione della popolazione indigena nel suo insieme”. Da qui, anche, la pratica di trasferire villaggi e concentrare la popolazione, poco prima condannata quando ad eseguirla erano gli spagnoli a Cuba.

Questo è quanto riporta il corrispondente del Filadelfia Ledger: “questa non è una guerra d’operetta condotta con i guanti bianchi. I nostri uomini sono stati spietati. Hanno ucciso per sterminare uomini, donne, bambini, prigionieri e ostaggi, ribelli attivi e semplici sospetti dai dieci anni in su. L’idea che è prevalsa è che un filippino in quanto tale non ha maggior valore di un cane. [.] I nostri soldati hanno fatto ingoiare acqua salata ad uomini per farli parlare. Hanno fatto prigionieri degli uomini che si arrendevano pacificamente, con le mani in aria, e, un’ora dopo, senza un minimo di prova sulla loro condizione di ribelli, li hanno condotti su un ponte e li hanno abbattuti uno dopo l’altro. Infine, li hanno gettati nel fiume, lasciandoli andare a filo della corrente affinché servissero da esempio a coloro che avrebbero trovato i corpi crivellati di piombo”. 

Nel 1901 è un generale, appena rientrato in Usa dal servizio nel sud di Luzon, che spiega come “un sesto degli abitanti di Luzon sono stati uccisi o sono morti per la febbre nel corso degli ultimi anni. Le esecuzioni sono state molto numerose ma io penso che tutte queste morti sono state necessarie per il perseguimento dei nostri obiettivi di guerra. Era necessario adottare ciò che in altri paesi avremmo potuto qualificare come misure crudeli”. E, nonostante tutto questo, il segretario alla guerra Root sottolinea come l’esercito americano abbia fatto “prova di ponderazione e umanità”! Esplicativa della tattica da terra bruciata è la testimonianza del marine Walzer, capo di squadrone: «il maggiore disse che il gen. Smith lo istruì di uccidere e bruciare e disse che più uccideva e bruciava e più avrebbe provato piacere. Il maggiore disse che non c’era tempo per far prigionieri ed egli doveva rendere Samar un terribile deserto. Il Maggiore chiese al gen. Smith quale fosse l’età limite della vittima ed egli rispose qualunque cosa sopra i dieci».

Mentre gran parte della classe operaia e del sindacalismo appoggiano il governo, abbagliati dagli alti salari e dalle promesse di benessere, la più viva, e perché no, commovente presa di posizione contro la guerra nelle Filippine viene dai soldati neri là impegnati nella repressione e nell’occupazione. Vittime del razzismo e dei linciaggi nel proprio paese, si vedono accomunati dalla pelle nera ai ribelli filippini. Alcuni si uniranno proprio a questi ultimi; il più noto è il caso di David Fagan, del 24° reggimento di fanteria, che accetta un ruolo di comando nell’esercito ribelle causando gravi problemi a quello statunitense. Emblematica è una lettera scritta dal sergente Mason al direttore della Gazette di Cleveland: “io sono dispiaciuto per questa gente e per tutto quello che gli Stati Uniti hanno fatto. Io non penso che agiremo con giustizia nei loro confronti. La prima cosa che noi ascoltiamo il mattino è la parola negro e l’ultima cosa che noi ascoltiamo la sera è la parola negro”. Più esplicito, sempre in una lettera dal fronte, è il soldato Fulbright: “la guerra in queste isole non è nient’altro che un gigantesco progetto di rapina e oppressione”.

Sull’onda di simili notizie e testimonianze, Mark Twain lancia una provocatoria proposta: “E per quanto concerne una bandiera per la Provincia delle Filippine, si può facilmente risolvere. Possiamo farne una apposita: i nostri Stati lo fanno. Prendiamo la nostra bandiera normale, dipingiamo di nero le strisce bianche e al posto delle stelle mettiamo un teschio e le ossa incrociate”. Quanto accade nel sud-est asiatico è, per lo scrittore e giornalista statunitense, la negazione della missione americana, la caduta dell’America sul “piano europeo”, il risultato della sua volontà di adeguarsi alla politica di potenza.

Repressa la ribellione indipendentista, anche grazie alla cattura nel marzo del 1901 di Aguinaldo, gli Usa danno una sanzione formale e istituzionale alla propria occupazione promulgando nel luglio del 1902 il “Philippine Bill”, un complesso normativo che prevede il conferimento del potere esecutivo ad un governatore generale americano e quello legislativo ad un organo bicamerale composto da una assemblea elettiva e dalla statunitense Commissione per le Filippine, presieduta dal governatore stesso. Gli elettivi consigli municipali, inoltre, sono sotto il controllo delle amministrazioni provinciali in cui la presenza americana è marcata. Alla base c’è un suffragio molto ristretto: a partecipare alle elezioni è il tre per cento della popolazione. Una percentuale che rappresenta una subalterna elite filippina costituita da grandi proprietari di orientamento conservatore che, come nel periodo della dominazione spagnola, garantiscono un controllo di stampo feudale sulle popolazioni locali. Dal punto di vista economico le Filippine diventano un mercato protetto per i produttori americani e fonte di approvvigionamento di materie prime e derrate alimentari non concorrenza con quelle della metropoli, anche grazie all’introduzione di dazi.
 

Per l’arcipelago è l’inizio di una forte dipendenza dal mercato americano. L’indipendenza arriverà solamente nel 1946 con le Filippine inserite nel dispositivo di accerchiamento anti-sovietico degli Stati Uniti.

1 Kissinger H., “Cina”, Mondadori, Milano, 2011.
2 “Containing China: Washington increases US Military presence in the Philippine”, www.globalresearch.ca, 30 gennaio 2012.
3 “Manila negotiates broader military ties with US”, International Herald Tribune, 26 gennaio 2012.
4 Twain M., Alla persona che siede nelle tenebre, Edizioni Spartaco 2003.