di A.C. | da solidarite-internationale-pcf.over-blog.net
Traduzione a cura di Marx21.it
Sono più di 50 milioni i lavoratori che hanno risposto giovedì 20 settembre all’appello allo sciopero generale (hartal) lanciato dai sindacati indiani. Diversi milioni di loro sono scesi in piazza.
Le attività commerciali, le amministrazioni, ma anche le scuole e i trasporti sono stati paralizzati da questo movimento di protesta contro le ultime misure di liberalizzazione annunciate dal governo di centro-sinistra, diretto dal Partito del Congresso.
Misure di liberalizzazione che vogliono colpire i più poveri e aprire ancora di più l’economia indiana al capitale straniero:
aumento del 14% dei prezzi dei combustibili sovvenzionati;
limitazione dei volumi di gas sovvenzionati allo stretto necessario, mentre il resto dovrà essere acquistato a prezzi di mercato;
massiccia cessione al capitale privato di quote delle aziende pubbliche più redditizie, come NALCO (alluminio) e Oil India (petrolio);
infine soprattutto, l’apertura dell’immenso mercato del commercio al dettaglio al grande capitale straniero.
Il movimento è partito dalla rabbia di 25 milioni di piccoli commercianti indiani – alla testa di una fitta rete di 12 milioni di piccole botteghe (le kiranas) – che si oppongono all’apertura del mercato indiano ai giganti mondiali della distribuzione, come l’americana Wal-Mart, ma anche i francesi Auchan e Carrefour.
Lo sciopero proclamato dalla Confederazione sindacale dei commercianti indiani (CAIT) è stato rilanciato dalle principali centrali sindacali , in particolare dal Congresso sindacale indiano (AITUC) e dalla Centrale dei sindacati indiani (CITU), i due principali sindacati legati storicamente ai due partiti comunisti indiani.
E’ dunque logicamente nelle regioni dove i comunisti hanno storicamente un’influenza di massa che lo sciopero è stato più massicciamente seguito: in particolare nel Tripura e soprattutto nel Bengala Occidentale – con la sua capitale Calcutta – dove negozi, uffici e trasporti sono stati totalmente paralizzati giovedì.
Nelle grandi città del paese, lo sciopero ha avuto un seguito ineguale. Se la capitale economica Mumbai e la capitale politica Delhi sono state relativamente risparmiate, gli altri poli economici, Calcutta e Bangalore, sono stati fortemente segnati dallo sciopero.
A New Delhi ha avuto luogo il raduno centrale della giornata di protesta, con una manifestazione davanti al Parlamento indiano guidata dai dirigenti di molti partiti di sinistra, tra cui i due Partiti comunisti.
Per il dirigente del Partito Comunista dell’India (Marxista), Prakash Karat, è chiaro: “Noi non vogliamo dei Wall-Mart in India. Non sosterremo l’apertura della benché minima insegna Wall-Mart in India”.
Secondo i sindacati lo sciopero ha avuto un seguito anche in una decina di altri Stati tra cui l’Uttar Pradesh, il Bihar, il Madhya Pradesh, l’Orissa, l’Andra Pradesh, il Karnataka, il Tamilnadu, il Punjab e ancora il Jharkhand, Stati in cui si concentrano più di 700 milioni di abitanti, vale a dire la metà della popolazione indiana.
Lo sciopero è stato salutato dal Partito Comunista dell’India (Marxista) che ha sottolineato la necessità di proseguire la lotta:
“Il sostegno massiccio allo sciopero generale è stato l’espressione della rabbia del popolo indirizzata contro le misure anti-popolari prese dal governo di coalizione del Partito del Congresso. L’ufficio politico del Partito Comunista esige dal governo di Manmohan Sing che ritiri il suo progetto di legge sul commercio al dettaglio, di vendita di quote pubbliche nelle imprese pubbliche, che receda dall’aumento dei prezzi dei combustibili e dalla restrizione delle bombole di gas sovvenzionate. La lotta contro le misure antipopolari dovrà intensificarsi nei giorni che ci stanno di fronte”.