Birmania: l’Occidente all’assalto del bottino

Traduzione dal francese di Massimo Marcori per Marx21.it

aung san suu kyi3Pubblichiamo stralci di un articolo del giornalista indipendente britannico David Cronin pubblicato sulla rivista News Europe e tradotto in francese dal sito http://www.michelcollon.info/. Il contributo di Cronin ci aiuta a comprendere meglio le reali ragioni di tanto entusiasmo in Occidente in merito ai recenti sviluppi della situazione politica in Birmania.

(…)

Il 1 aprile scorso, giorno dell’elezione di Suu Kyi, un hotel di 12 piani in stile coloniale a Phnom-Penh accoglieva il secondo Summit economico mondiale tra l’Unione europea e l’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (ASEAN). I partecipanti, in particolare il Commissario europeo al commercio Karel De Gutch, erano invitati ad un avvenimento a margine “Building Business Myanmar”, (nome ufficiale della Birmania).

Non essendo stato informato prima dagli organizzatori dell’evento, Vriens & Partners, ho passato qualche tempo per esaminare chi c’è dietro a questa scatola. Ho finito per trovare un articolo del 2009 della rivista Public Affaires Asia che dice che si tratta di un progetto congiunto tra Hans Vriens (ex pezzo grosso della ditta di comunicazioni APCO) e Noke Kiroyan, direttore indonesiano del gigante minerario Rio Tinto. Nel 2008, Rio Tinto era escluso dal fondo di pensione pubblico norvegese in ragione dei danni ambientali che la compagnia anglo-australiana aveva causato in Papuasia occidentale (parte ufficiale dell’Indonesia). Pensare che Vriens & Kiroyan hanno una motivazione altruista facendo la promozione delle possibilità d’investimento in Birmania, sarebbe dar prova di un’incredibile ingenuità.

All’inizio del mese, Human Rights Watch dichiarava che avrebbe favorito un graduale allentamento delle sanzioni dell’UE sulla Birmania ma che misure di restrizione dovevano rimanere al momento nei confronti di alcuni settori dell’economia birmana. Le miniere, le pietre preziose e il legname sono ancora monopoli detenuti dai militari.

Rio Tinto è il principale azionista individuale della ditta canadese Ivanhoe, che ha concluso nel 1994 un accordo per sfruttare il giacimento di rame Moyna in Birmania. Tredici anni dopo Ivanhoe si sarebbe ritirato dal progetto e avrebbe rivenduto le sue quote Moyna ad un trust indipendente registrato in Canada. Ma recentemente Wikileaks ha pubblicato un dispaccio diplomatico che rivela che la partecipazione del 50% a Moyna era in realtà venduta alla giunta militare birmana. Il regime ha in seguito rivenduto le quote ad un consorzio guidato da Norinco, impresa cinese di armamenti. Tay Za, “un amico del regime” (come lo descrive il dispaccio) è stato l’intermediario dell’accordo e doveva intascare 50 milioni di dollari; egli fu uno dei quadri dirigenti birmani ad essere oggetto delle sanzioni dell’UE.

Vriens & Partners possiede un ufficio a Rangoon (ora chiamata Yangon), la capitale birmana. In una lettera di febbraio indirizzata al Financial Times, il suo capo delegazione sul luogo Romani Caillaud scriveva: “Le società occidentali hanno chiaramente molti alleati in seno all’élite degli affari e della politica del Myanmar come nel resto della popolazione, e ne arriveranno molti altri una volta che queste società installeranno la loro presenza nel paese.

Avendo vissuto e lavorato a Yangon per oltre quattro anni ora, posso dire che le società occidentali hanno un’immagine positiva qui. I loro investimenti sono visti dai cittadini birmani come atti compiuti in modo più responsabile di quelli effettuati da certe compagnie asiatiche non frenate da sanzioni e che, a lungo termine, non dovranno probabilmente affrontare pressioni di politici e consumatori affinché esse si comportino in modo più responsabile nei confronti del Myanmar”.

Questa nozione che gli imprenditori europei possiedono maggiore etica rispetto ai loro omologhi cinesi o indiani è inconsistente.

Quando David Cameron ha fatto visita nel sud-est asiatico, specialmente in Birmania, all’inizio del mese, era accompagnato da quadri della Shell, BAE Systems e BHP Billinton. Ci vorrebbe un considerevole livello di faccia tosta per difendere il saccheggio del Delta del Niger da parte di Shell o le tangenti accordate alla famiglia reale saudita in cambio di contratti, con la scusa che i cinesi potrebbero fare peggio.

BHP Billinton, una fusione tra sfruttatori di risorse australiane e sudafricane, ha una forte connessione storica con l’apartheid. Gencor, la compagnia apparentata a Billinton, gestiva la miniera d’oro di Kingcross, là dove è avvenuto il peggior incidente di tutta la storia mineraria del Sud Africa, nel 1986. Circa 177 lavoratori sono rimasti uccisi in un incendio sotterraneo. Anche nella morte, sono stati condannati alla discriminazione: le vittime bianche sono state identificate, mentre il solo dettaglio fornito per i neri è stato il numero di coloro che appartenevano alle tribù Sotho, Xhosa ed altre.

Non ho obiezioni né circa la sospensione né circa la rimozione graduale delle sanzioni dell’UE sulla Birmania. E’ chiaro che il paese avrà bisogno sia di aiuti sia di investimenti se si tratta di una transizione riuscita dalla dittatura alla democrazia (o di ciò che passa per democrazia ai giorni nostri).

Ma non dovrebbero esserci illusioni su ciò che succede realmente qui. Lungi dal cercare di migliorare la sorte della popolazione birmana in generale, alcune società ambiscono con cupidigia alle risorse della Birmania. Nel mese di febbraio, Business Europe, il più potente gruppo di imprese a Bruxelles, premeva per togliere le sanzioni per ragioni pragmatiche. La sua argomentazione era sullo stile: Tutti ricevono una fetta della Birmania allora perché noi no?

“Chiamatemi semplicemente un Thatcherista” scherzava nel 1996 Thabo Mbeki, il successore di Mandela, quando annunciò i piani per ridurre la spesa pubblica e accrescere le privatizzazioni. Spero solo che la Birmania non abbia un Thatcherista che attenda sullo sfondo.