“The wrong place” è un film sbagliato

andrea rocchelli 720x300di Alberto Fazolo

da https://contropiano.org

The Wrong Place è un documentario che indaga sull’uccisione di Andrea Rocchelli e di Andrej Mironov, due giornalisti per la cui morte è stato arrestato un militare ucraino con cittadinanza italiana, Vitaly Markiv, già volontario della famigerata Guardia Nazionale. 

L’uccisione dei due reporter è avvenuta nel 2014 nel corso della guerra del Donbass. Il documentario è stato realizzato da Cristiano Tinazzi, con il supporto di Danilo Elia, Ruben Lagattola e Olga Tokariuk.

Parlare di questo “documentario” è assai difficile, per una serie di ragioni; la prima tra tutte è che non si capisce quale sia il documentario. Finora sono circolati diversi estratti utilizzati a fini propagandistici – cioè per raccogliere fondi, il progetto conta su un crowdfunding – e per “animare” il dibattito politico.

Perplessità ci sono sull’uso politico di questo “documentario”: sembrerebbe che serva non tanto a informare, quanto a condizionare le scelte della corte chiamata a giudicare Markiv. 

Se ciò venisse fatto con un serio lavoro d’inchiesta sarebbe una cosa utile e buona, ma da quel che si è visto del documentario, sembra che si punti a creare confusione per dire che non ci siano gli elementi per esprimere un giudizio. 

Tanto gli autori, quanto il partito dei Radicali Italiani e i nazionalisti ucraini in Italia, che stanno sponsorizzando il documentario, dicono di battersi per ricercare la verità, eppure nei tre anni trascorsi tra il duplice omicidio e l’arresto di Markiv non si erano affatto impegnati in ciò. 

La campagna sul caso sembrerebbe essere stata attivata solo per liberare Markiv e garantire la non persecuzione dei soldati ucraini che, secondo la sentenza di primo grado, quel giorno uccisero Rocchelli e Mironov. 

Quello che non si tollera a Kiev non è tanto che un loro soldato sia imprigionato, quanto il fatto che si sia riconosciuto ufficialmente che le formazioni militari ucraine – sia l’esercito che le altre milizie come la Guardia Nazionale – abbiano commesso dei crimini. Ciò per l’Ucraina è una minaccia serissima, in quanto apre le porte a ulteriori indagini sui crimini che ha compiuto in questi sei anni di guerra.

Il posto sbagliato?

La tesi del documentario è che i giornalisti uccisi si siano trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Questa affermazione è tanto inopportuna quanto grave, quei giornalisti erano nel posto giusto nel momento giusto, stavano facendo coraggiosamente il proprio lavoro di testimonianza. 

Stavano documentando i crimini commessi dall’esercito ucraino e per chiudergli la bocca sono stati uccisi.

Ora, che qualcuno provi a dire il contrario potrebbe essere semplicemente archiviato tra le miserie del giornalismo nostrano, però il documentario si inserisce in una mastodontica campagna internazionale promossa dal Governo ucraino e che in Italia trova sponda nel partito dei Radicali Italiani.

I Radicali Italiani e gli ultra-nazionalisti

L’imputato Markiv è un ultra-nazionalista, uno che frequenta pub neonazisti in Ucraina e sul cui telefono, una volta arrestato, sono state trovate foto dei suoi commilitoni con svastiche e braccia tese. Era arruolato nella famigerata Guardia Nazionale ucraina, un corpo composto anche da neonazisti.

Ad alcuni può sembrare assurdo questo accostamento, eppure non è la prima volta che i Radicali Italiani collaborano con ultra-nazionalisti, è già successo negli anni ’90 durante la guerra in Jugoslavia.

Cristiano Tinazzi e l’indipendenza del documentario

A meno di omonimie, il regista del documentario, Cristiano Tinazzi, sembrerebbe essere stato giornalista della rivista di estrema destra Rinascita, nonché candidato alle elezioni amministrative del 1999 con il Fronte Nazionale, partito fondato da Adriano Tilgher, l’ex dirigente di Avanguardia Nazionale, movimento neofascista protagonista di alcune delle pagine più oscure della storia repubblicana. 

Questi elementi di sicuro non bastano a ipotizzare una sorta di “Soccorso nero internazionale”, ma aiutano a inquadrare i termini della vicenda.

Il documentario viene spacciato per “indipendente”, ma ha goduto del supporto, quantomeno tecnico, della Guardia Nazionale ucraina, il corpo paramilitare a cui apparteneva Markiv. Non può essere considerata “indipendente” una indagine svolta con il supporto di una delle parti in causa.

Sarebbe molto interessante avere qualche informazione anche su chi abbia contribuito economicamente al documentario, visto che si poggiava su un crowdfunding che ha apportato ingenti risorse.

Il documentario sintetizza molto sommariamente dei concetti e delle ricerche svolte dagli autori, quindi non si capisce bene quale sia il metodo di lavoro e quanto siano affidabili le prove. A questo livello di sintesi è difficile sollevare delle obiezioni tecniche, in quanto, alcuni necessari passaggi potrebbero essere stati omessi nel video e sarebbe opportuno che gli autori fornissero una relazione tecnica scritta su cui poter fare le obiezioni.

Le prove tecniche

Dal punto di vista tecnico il video può essere sintetizzato in due tesi messe in piedi per scagionare Markiv: dalle postazioni ucraine non si vedeva il bersaglio e le armi di Markiv non erano in grado di colpire alla distanza a cui si trovavano le vittime. Entrambe le tesi sono assolutamente inconsistenti.

Per sostenere la tesi che dalle postazioni ucraine era impossibile vedere il bersaglio, gli autori hanno fatto una dettagliata ricostruzione cartografica, omettendo però di inserirvi la torre di un ripetitore radio alta diverse decine di metri che svettava al centro del caposaldo degli ucraini e dalla cui sommità verosimilmente riuscivano a vedere benissimo il luogo del delitto.

Per sostenere la tesi che l’arma di Markiv non fosse in grado di colpire a quella distanza sono state fatte delle ridicole prove balistiche (gli aspetti più grotteschi sono descritti in calce). Premesso che, a differenza da quanto sostenuto nel documentario ,le armi dei fanti ucraini a quella distanza possono uccidere, va ricordato che le vittime furono assassinate con colpi di artiglieria sparati intenzionalmente contro di loro e non a colpi di fucile. 

Infatti, l’accusa non è di aver sparato ai giornalisti, cosa che comunque non è possibile escludere, ma di aver partecipato attivamente ad un’azione criminale finalizzata all’uccisione di civili.

Il documentario non sembrerebbe cercare la verità, ma solo generare confusione per arrivare ad un’assoluzione per mancanza di prove. Non si può negare che il processo abbia assunto degli aspetti politici, oltretutto è giusto così: ha rotto il silenzio sui crimini delle autorità ucraine. 

Tuttavia, sono state proprio le istituzioni ucraine – e compagnia – a caricare ulteriormente di valenza politica il caso, a montare una enorme campagna che passa anche per gesti molto inopportuni, come la presenza in aula del ministro degli Interni dell’Ucraina, Arsen Avakov, noto per i suoi contatti con gli ambienti neonazisti ucraini. 

A questo punto si è costruito un caso politico-mediatico e non si può pretendere di poter tornare indietro.

Nota tecnica sul documentario

Come prima cosa bisogna ricordare che le vittime sono state uccise con colpi di mortaio sparati da una postazione ucraina e che vennero sparati contro di loro anche numerosi colpi di fucile e mitragliatrice. A Markiv viene contestato di aver partecipato attivamente all’azione finalizzata all’uccisione di civili e non necessariamente di aver premuto il grilletto dell’arma che li ha colpiti.

Il documentario sostiene che la postazione di Markiv fosse troppo lontana per riuscire a centrare un bersaglio con un AK-74. Ciò è parzialmente vero, a quella distanza quell’arma può tranquillamente uccidere, però è molto difficile centrare il bersaglio: anche con una buona ottica si tratta di una distanza estremamente elevata per riuscire a colpire una persona. 

Ma dato che i soldati ucraini si trovavano dentro delle trincee e che non avevano problemi di munizioni, è plausibile che si siano messi a sparare in una direzione un gran quantitativo di colpi, sperando che qualcuno colpisse il bersaglio.

Il video non fa un buon servigio a Markiv quando dice che le vittime non erano visibili in quanto coperte dalla vegetazione: è assolutamente vietato sparare a bersagli che non si vedono, il tiro indiscriminato è un reato.

Viene fatta una minuziosa ricostruzione del terreno per dimostrare che dalla posizione degli ucraini (non solo da quella di Markiv) fosse impossibile vedere le vittime che si trovavano in un fosso. Inoltre, la visuale era parzialmente ostruita da un treno usato a mo’ di barricata. 

Non si dispone di elementi per mettere in discussione la bontà della ricostruzione cartografica, ma si può tranquillamente dire che l’uso che se ne fa si basa su una premessa assurda. Come si evince dalle immagini, le posizioni ucraine si trovavano su di una collina sulla quale spicca un’altissima torre radio (verosimilmente un ripetitore televisivo). Dalla cima della torre si possono certamente osservare tutte le posizioni ribelli fino alle retrovie. 

Pare inverosimile che gli ucraini non avessero sfruttato quel prezioso punto di osservazione posizionandoci almeno un soldato e/o una telecamera. Quindi, quando si parla di visuale, andrebbe presa in considerazione l’esistenza della torre. Ovviamente gli ucraini non ammetteranno mai di averla usata (anche se è inverosimile che non lo abbiano fatto) in quanto non stanno cooperando con le indagini.

La ricostruzione cartografica mette in luce che ci fosse una differenza di quota tra le posizioni ucraine e le vittime. Sebbene si tratti di una ricostruzione molto puntigliosa, si omette di dire quale sia questa differenza di quota (da contro-inchieste giornalistiche sembrerebbe una novantina di metri). 

Non si tratta di un dettaglio trascurabile, perché ciò influisce sulle gittate e quindi potrebbe allargare lo spettro delle possibili armi utilizzabili. Un esempio può aiutare a capire: si ha un sasso pesante, lo si riesce a tirare fino a 10 metri di distanza. Ora, mettiamo di tirare lo stesso sasso da sopra un palazzo, questo riuscirà ad arrivare ben oltre i 10 metri di distanza sul terreno. Questa banale osservazione vale per qualsiasi oggetto che viene lanciato, anche per i proiettili: una piccola differenza di quota aumenta la gittata delle armi.

Bisogna però capire dove si trovasse Markiv il giorno del fatto. Da quanto si evince nel documentario, quella sulla collina dovrebbe essere una sorta di base da cui dipendono diverse posizioni, come fortificazioni o trincee. 

Nel documentario si dice che Markiv si trovava in una delle postazioni più lontana dalle vittime, a 1.860 metri, e per dimostrarlo si fa vedere un video girato con il telefonino di Markiv. Il video in questione però è di giugno, cioè diversi giorni dopo il fatto e di norma i soldati di una base non stanno mai nella stessa posizione, c’è una rotazione costante: per questa ragione durante le indagini sono stati anche richiesti i verbali sulle rotazioni, mai fornite da parte ucraina.

Il 24 maggio, Markiv si sarebbe potuto anche trovare in una postazione più vicina. In conclusione il video girato con il telefonino non dimostra nulla, ad eccezione del fatto che Markiv si trovasse effettivamente su quella collina.

Si deve anche confutare la tesi – sostenuta nel documentario – che le armi individuali presenti nella posizione di Markiv non fossero in grado di colpire le vittime. Per sostenere questa assurda tesi (confutata anche dalle specifiche tecniche fornite dai produttori delle armi) gli autori svolgono delle prove balistiche, effettuate in un poligono della Guardia Nazionale dell’Ucraina, che verosimilmente mette anche a disposizione le armi. Si tratta cioè del corpo a cui appartiene Markiv, che quindi non ha alcun interesse a dimostrarne la colpevolezza.

Nelle prove si sostiene che un tiratore non sia in grado di colpire un bersaglio da quella distanza. Ma se armi e munizioni sono fornite dalla Guardia Nazionale, la prova perde di credibilità: basterebbe che questi abbiano fornito armi o munizioni inadeguate per centrare i bersagli e/o con sufficiente forza. 

Basterebbe cioè aver dato armi con la canna consumata, queste perdono di precisione e di “forza”: il proiettile va lontano e va preciso per una serie di forze che agiscono su di lui, le principali, tolta la forza di gravità e l’attrito, sono la spinta data dalla carica e la rotazione data dalla rigatura della canna. 

La rigatura della canna è fondamentale, questa fa ruotare il proiettile lungo il proprio asse, lo fa essere stabile e andar lontano. Se la canna è consumata, o sabotata, il proiettile non va lontano e non andrà mai preciso. Discorso analogo vale per le munizioni. Se viene fornita una munizione sabotata, il colpo non andrà lontano e/o preciso. 

Detto ciò, al poligono si fa la prova di colpire la sagoma di un’automobile posta a 1,5 km e lo si fa con 3 armi: AK-74 (fucile d’assalto), PKM (mitragliatrice) e Dragunov (fucile di precisione). Verosimilmente quelle sono le armi di cui disponeva la squadra di Markiv, ma potrebbero aver anche avuto armi di posizione come AGS o razzi, e pare difficile che non ci fosse neanche un Utyos, con il quale si può distruggere un’automobile da quella distanza.

Il video non fa un buon servigio a Markiv quando dice che le vittime non erano visibili in quanto coperte dalla vegetazione: è assolutamente vietato sparare a bersagli che non si vedono, il tiro indiscriminato è un reato.

Viene fatta una minuziosa ricostruzione del terreno per dimostrare che dalla posizione degli ucraini (non solo da quella di Markiv) fosse impossibile vedere le vittime che si trovavano in un fosso. Inoltre, la visuale era parzialmente ostruita da un treno usato a mo’ di barricata. 

Non si dispone di elementi per mettere in discussione la bontà della ricostruzione cartografica, ma si può tranquillamente dire che l’uso che se ne fa si basa su una premessa assurda. Come si evince dalle immagini, le posizioni ucraine si trovavano su di una collina sulla quale spicca un’altissima torre radio (verosimilmente un ripetitore televisivo). Dalla cima della torre si possono certamente osservare tutte le posizioni ribelli fino alle retrovie. 

Pare inverosimile che gli ucraini non avessero sfruttato quel prezioso punto di osservazione posizionandoci almeno un soldato e/o una telecamera. Quindi, quando si parla di visuale, andrebbe presa in considerazione l’esistenza della torre. Ovviamente gli ucraini non ammetteranno mai di averla usata (anche se è inverosimile che non lo abbiano fatto) in quanto non stanno cooperando con le indagini.

La ricostruzione cartografica mette in luce che ci fosse una differenza di quota tra le posizioni ucraine e le vittime. Sebbene si tratti di una ricostruzione molto puntigliosa, si omette di dire quale sia questa differenza di quota (da contro-inchieste giornalistiche sembrerebbe una novantina di metri). 

Non si tratta di un dettaglio trascurabile, perché ciò influisce sulle gittate e quindi potrebbe allargare lo spettro delle possibili armi utilizzabili. Un esempio può aiutare a capire: si ha un sasso pesante, lo si riesce a tirare fino a 10 metri di distanza. Ora, mettiamo di tirare lo stesso sasso da sopra un palazzo, questo riuscirà ad arrivare ben oltre i 10 metri di distanza sul terreno. Questa banale osservazione vale per qualsiasi oggetto che viene lanciato, anche per i proiettili: una piccola differenza di quota aumenta la gittata delle armi.

Bisogna però capire dove si trovasse Markiv il giorno del fatto. Da quanto si evince nel documentario, quella sulla collina dovrebbe essere una sorta di base da cui dipendono diverse posizioni, come fortificazioni o trincee. 

Nel documentario si dice che Markiv si trovava in una delle postazioni più lontana dalle vittime, a 1.860 metri, e per dimostrarlo si fa vedere un video girato con il telefonino di Markiv. Il video in questione però è di giugno, cioè diversi giorni dopo il fatto e di norma i soldati di una base non stanno mai nella stessa posizione, c’è una rotazione costante: per questa ragione durante le indagini sono stati anche richiesti i verbali sulle rotazioni, mai fornite da parte ucraina.

Il 24 maggio, Markiv si sarebbe potuto anche trovare in una postazione più vicina. In conclusione il video girato con il telefonino non dimostra nulla, ad eccezione del fatto che Markiv si trovasse effettivamente su quella collina.

Si deve anche confutare la tesi – sostenuta nel documentario – che le armi individuali presenti nella posizione di Markiv non fossero in grado di colpire le vittime. Per sostenere questa assurda tesi (confutata anche dalle specifiche tecniche fornite dai produttori delle armi) gli autori svolgono delle prove balistiche, effettuate in un poligono della Guardia Nazionale dell’Ucraina, che verosimilmente mette anche a disposizione le armi. Si tratta cioè del corpo a cui appartiene Markiv, che quindi non ha alcun interesse a dimostrarne la colpevolezza.

Nelle prove si sostiene che un tiratore non sia in grado di colpire un bersaglio da quella distanza. Ma se armi e munizioni sono fornite dalla Guardia Nazionale, la prova perde di credibilità: basterebbe che questi abbiano fornito armi o munizioni inadeguate per centrare i bersagli e/o con sufficiente forza. 

Basterebbe cioè aver dato armi con la canna consumata, queste perdono di precisione e di “forza”: il proiettile va lontano e va preciso per una serie di forze che agiscono su di lui, le principali, tolta la forza di gravità e l’attrito, sono la spinta data dalla carica e la rotazione data dalla rigatura della canna. 

La rigatura della canna è fondamentale, questa fa ruotare il proiettile lungo il proprio asse, lo fa essere stabile e andar lontano. Se la canna è consumata, o sabotata, il proiettile non va lontano e non andrà mai preciso. Discorso analogo vale per le munizioni. Se viene fornita una munizione sabotata, il colpo non andrà lontano e/o preciso. 

Detto ciò, al poligono si fa la prova di colpire la sagoma di un’automobile posta a 1,5 km e lo si fa con 3 armi: AK-74 (fucile d’assalto), PKM (mitragliatrice) e Dragunov (fucile di precisione). Verosimilmente quelle sono le armi di cui disponeva la squadra di Markiv, ma potrebbero aver anche avuto armi di posizione come AGS o razzi, e pare difficile che non ci fosse neanche un Utyos, con il quale si può distruggere un’automobile da quella distanza.

Infine, è stata effettuata una prova con un Dragunov e anche in questo caso non è stato colpito il bersaglio. Se con un Dragunov un tiratore scelto non colpisce un’automobile ferma a 1,5 km, il problema che ha è molto serio. Tuttavia anche in questo caso c’è da tenere in conto il rischio di sabotaggio, cioè non è detto che l’operatore mancasse intenzionalmente il bersaglio o che non avesse le competenze per colpirlo (anche se si tratta di qualcuno che ha accettato di tirare a quella distanza da una piattaforma traballante), bisogna cioè ricordarsi che l’arma è stata fornita dalla Guardia Nazionale. 

Oltre a esserci l’evenienza di avere la canna o le munizioni fallate, potrebbe anche essere che gli organi di mira – quindi, in questo specifico caso, una mira telescopica – non fossero correttamente tarati. Per starare una mira telescopica basta girare una vitarella, discorso analogo vale per gli altri mirini. 

Se chi ha sparato con il Dragunov a 1,5 km – cioè un colpo difficile, a lunga distanza – non ha provato l’arma anche con molti colpi a distanza crescente, non può sapere se l’ottica sia stata correttamente tarata. 

In definitiva, le prove al poligono sono sicuramente viziate dalla posizione di tiro e potrebbero essere viziate dalla bontà delle armi e/o munizioni, in quanto danno delle risultanze inverosimili.