“C’è gente, non sparate!” – una testimonianza dal Donbass

da littlehirosima.livejournal.com

Traduzione di Alena Afanasyeva per Marx21.it

Evdokija Sheremeteva è una blogger di Mosca. Questo racconto è stato postato sul suo blog littlehirosima.livejournal.com il 4 gennaio 2015, dopo il suo primo viaggio a Pervomaisk dove ha portato aiuti umanitari raccolti con l’aiuto dei suoi amici e conoscenti. Dopo questo viaggio ce ne sono stati altri due – Pervomaisk, Krasnodon, piccole città nella regione di Lugansk dove l’aiuto umanitario non arriva e dove la situazione è pessima.

– Ira, non piangere! Non stanno sparando, ti è sembrato!
In cucina si svolge la distribuzione del cibo. La gente è venuta con vasetti di vetro a una mensa sociale.
Avvicino le donne che lavorano in mensa e dò degli assorbenti igienici. La seconda di loro, l’amica di Ira, si mette a piangere.
– Cari miei, grazie!
– Non dovete. È da molto che hanno sparato?
– Ma, sembra che ieri hanno sparato con i Grad.
– Ma c’è la tregua, no?
Il cuore stringe. E se lo faranno ancora?
Loro invece ridono. E poi piangeranno di nuovo.
– Oh mio Dio, ma loro sanno che ci stanno martellando! Ma non ce l’hanno delle madri e dei figli?

Tutti a Pervomaisk sono vicini alle lacrime. Manca poco. Quasi tutti hanno il cuore straziato dal dolore. Il dolore che non si può descrivere, né trasmettere. La città è stata assediata ancora il 22 luglio. Da quel giorno fino al 9 dicembre ha vissuto sotto un costante bombardamento quotidiano. Adesso c’è una tregua, ma i cittadini dicono che sempre sentono delle salve o dei tiri. A volte vengono bombardati. Già da sei mesi vivono in terrore, paura e morte.

– Nonostante la tregua, i nipoti dormono sempre vestiti. E con i documenti.
L’amica la spinge.
– E tu mica non dormi vestita?
Nel frattempo in fila ci sono quasi esclusivamente dei pensionati. Salgono con fatica le scale e dopo aver mostrato il passaporto e messo la firma ricevono da mangiare. Gli sguardi sono pesanti, come i passi e le parole.
– Perché non andate via che è pericoloso qui?
– E dove andiamo? Chi ha bisogno di noi? D’estate molti sono partiti. Adesso stanno tornando indietro. Qui c’è la nostra casa. Dove andiamo da qui?
Mi sento come mi avessero messo sopra un masso e mi avessero schiacciato.
D’estate, di 60 mila abitanti ne sono rimasti 5 mila, adesso già sono circa 15 mila. La gente è tornata nella città che è costantemente bombardata.

– Per fortuna, non soffriamo più di fame. Ma il cibo basta appena.
Tengo la porta aperta, c’è una signora anziana.
– Siete voi che ci avete portato da mangiare?
– Sì, noi.
Ha le lacrime negli occhi.
– Carissima, grazie a te! Dio esiste!
Questa è già la terza mensa e dappertutto piangono tutti. Poi ci baciano le guance e piangono di nuovo. E grazie, grazie, grazie. Il cuore è alla rovescia. Sono stata sviscerata, sono stata sventrata e adesso dentro c’è solo un vuoto infinito.

Entrare a Pervomaisk non si può. La città è in un ferro di cavallo, circondata da tutte le parti dalle forze armate ucraine e dalla guardia nazionale. Per arrivare qui da Lugansk bisogna passare più di un posto do blocco. Ma è impossibile entrare in città se non sei residente. Il passaggio è chiuso. Il nostro carico umanitario era scortato da Rostislav, un bel miliziano altissimo.
– Rostislav, come ti fai chiamare?
– Non ho uno pseudonimo. Sono Rostislav, Rostik. Sono nato e ho vissuto qui. Non ho bisogno di aver paura. In rete e dappertutto scrivo il mio indirizzo, dico – vieni e parliamo.
Rostislav ci fa salire nella sua macchina. Guardo giù – c’è una granata con attorno il filo dell’iphone, come con il cordone ombelicale di un bambino.

– È vera?
Ride.
– Prendila. Tu guarda dietro.
La prendo in mano e le mani tremano. Dietro c’è un oggetto molto grande. Ovviamente più grande di un mitra. Vorrei proprio sapere che cos’è.
– Mamma mia, ma che cos’è?
Il mio amico che accompagna il carico umanitario, Ruben, risponde:
– Mukha (“Mosca” nome del RPG-18, un razzo anticarro sovietico – NdT).
– No, è un RPG-26. Andiamo, vi faccio vedere che hanno fatto con la nostra città.

Rostislav con calma fuma una sigaretta dopo l’altra. è più giovane di me, ma mi sento accanto a lui una bambina – uno sguardo preciso e chiaro.
Guardo dal finestrino e cerco di trovare almeno una casa che non è stata colpita. Dove non sono state rotte almeno le finestre. E non riesco a farlo.
– Tanto è stato già ricostruito. Vedi quel tetto? È stato messo qualche giorno fa. E qui – vedi? – hanno messo dei sacchi di plastica sulle finestre. Hanno fatto già tanto. Ma puoi vedere da sola che sta succedendo. ecco, vedi, un cratere – proprio qui una famiglia è uscita per preparare sul fuoco da mangiare… Vedi quella casa? – un uomo non ha fatto in tempo nemmeno a saltare giù nella cantina, la porta è rimasta aperta. Ed i resti sono dappertutto. Con il primo colpo.
Dopo qualche minuto la mano è già stanca di fare le foto ed aprire il finestrino. Non ho le forze per uscire. Rimane solo l’impotenza e la debilitazione. Una debilitazione svogliata e cupa. Quante volte ho visto nei giornali e in rete delle innumerevoli foto dopo i bombardamenti, ma niente aiuta a comprenderlo quando lo vedi con i propri occhi.
Non ci sono dei vaccini speciali che aiuterebbero ad osservarlo con calma.

– Ma lo fanno apposta?
– Ma no, mica apposta. Il bombardamento non è preciso.
– I correttori lavorano?
– Prima sì, ma adesso non più.

– Cercano di colpire la milizia, voi?
– Sai, li catturavamo. Tra loro ci sono dei ragazzi, persone in gamba. Quando hanno visto che non combattono l’esercito russo, ma colpiscono anziani e bambini, molti hanno cercato di scappare. Erano stati tutti zombizzati, convinti che liberavano la gente da Putin. Ma insomma, semplicemente bombardano la città a mazzo. Scuole, istituti, il palazzo dello sport – tutto senza discriminazione. Hanno crivellato la città…

Rostik fa un tiro di sigaretta, socchiude gli occhi.
– Entriamo nel portone.
Con passi lenti saliamo le scale.
– Mio Dio, che cos’è?
– I nostri figli tutti sanno distinguere dal suono che cosa spara – un obice, un grad, un mortaio. Questo viene dall’aria, da un aereo…



– Ma che razza di roba è? I bambini, i vecchi – perché loro?
– A tutti loro hanno lavato il cervello. Ma ci sono delle persone normali. Una volta hanno bombardato un campo. Quindi è rimasto qualcosa di umano. Non possono non adempiere ad un ordine, ma capiscono che ad ogni cluster va via una vita oppure qualcuno perde per sempre la propria casa.
– Magari è meglio lasciare la città in modo che la gente può vivere? Ciò vale la vita di centinaia di persone?
Rostislav mi guarda e questo sguardo mi penetra fino alle ossa:
– Uccideranno la metà qui oppure la metteranno in prigione. Non sai mica che siamo tutti “terroristi” qui. Non tradiremo la gente.
Nel centro di Pervomaisk di recente, dopo l’annuncio di tregua, la gente ha iniziato a portare dei proiettili conservati. Proprio al monumento di Lenin.
Accanto c’è una bandiera ucraina, calpestata nella neve e fango.

La gente costantemente viene e resta a lungo. Poi va via in silenzio. Verso il cimitero.
– Faremo un monumento con questi. Che si sappia
Ancora due settimane fa non usciva nessuno di casa.
– Venivamo a distribuire il pane, chiamavamo, e la gente gridava dai sotterranei – “Butta qua giù”. Avevano paura di uscire fuori. A volte, durante le pause, alcuni, che avevano ancora appartamenti intatti, correvano a casa per lavarsi e prendere delle cose necessarie. Molti erano colpiti così. E tutti stavano nelle cantine e nei rifugi.
Con un dito mostra dei proiettili.
– Questi sono di un grad, questi di un mortaio, questi invece sono proiettili dirompenti. Questi sono dall’aria…
Un mucchio di tubi mezzo arrugginiti. Come se avessero tagliato decine di grondaie, se non porre l’occhio. Ognuno di loro è una morte o una disgrazia.

Adesso c’è già gente per le strade. Ma in generale la città sembra morta. Sembra che sei arrivato a Pripiat dopo l’esplosione (la città ucraina 3 km dalla nucleare di Cernobyl, abbandonata dopo l’incidente del 1986- NdT).
Rostik ci porta per cortili, ma non si vede ormai niente. Come se gli occhi fossero coperti con un velo. Non ci sono delle persone. Non ci sono delle case. Parchi con giochi storti. Morte.
Su tante case è scritto: “GENTE”.
– Rostik, che cos’è?
– La gente lo ha scritto, ma mica aiuta…
La gente ha scritto, per chi – per la gente?

Un grido dal fondo del cuore scritto con il sangue. Quasi su ogni casa.
Un grido scritto con lacrime e dolore. Siamo UOMINI. Non uccidete! UOMINI.
Questa scritta sarà con me per sempre. è stata incisa con l’acido, non è più rimovibile. Sta sempre davanti agli occhi.
– Andiamo nel rifugio. Ti faccio vedere dove vivono quelli che sono rimasti senza niente e dove si nascondono.

Scendiamo in un sotterraneo. Dappertutto ci sono appese delle coperte. In mezzo c’è una stufetta panciuta. Materassi, coperte, sacchi con vestiti, taniche dell’acqua. La gente inizia ad agitarsi. Hanno visto il miliziano e subito l’hanno circondato e riempito con tante domande. Si è unito a noi un amico di Rostik, Sania. Il suo nomignolo è “Velocità”. Sania, circondato dalle donne, cerca di difendersi.
– Ci sono tante persone che vivono qui?
Una donna mi guarda attraverso.
– Quando bombardano il rifugio è pieno. Adesso noi viviamo qui.
Vedo un ambiente a parte, separato a mezzo di panni. Li sposto per vedere una donna anziana che mi guarda spaventata. Appena vede che siamo venuti con del cibo, i suoi occhi diventano colmi di lacrime.

– Lei è da sola qui?
– I figli sono andati via e la casa è stata distrutta da due razzi. Vivo qui.
– Perché i figli non la portano via?
– Non lo so. Ma io non andrò da nessuna parte. La mia casa è qui, qui morirò.
E lacrime, lacrime, lacrime. E un dolore straziante.

Nei sotterranei di questo genere vivono in comune. Mangiano e fanno tutto insieme.
I miei occhi sono gonfi. Rostik mi guarda:
– Non sei abituata. Non fa niente. Andiamo avanti.
La conversazione è caotica, ci sono mille domande – che cosa, chi, perché. E negli occhi c’è solo quella anziana e la scritta “GENTE”.
– Prima la gente si comportava orribilmente – toglievano l’uno all’altro delle razioni, litigavano. Tutti cercavano di afferrare qualcosa per se stessi. Adesso tutto è cambiato. La guerra ha svegliato nelle persone il lato umano. Adesso portiamo il cibo e versano l’olio nei bicchieri, chiamano l’uno l’altro. Tutti condividono tutto.
Ma bisogna vivere per sei mesi sotto bombardamenti per diventare Uomo?

All’uscita dalla città, al posto di blocco c’è un ragazzo. Ha 18 anni, non di più. Gli diamo delle caramelle e sorride felicemente.
– Nella vostra città hanno messo l’albero di Natale?
– Si, l’hanno messo.
– Anche da noi. è Capodanno alla fine!
Eravamo poche persone che hanno portato a Pervomaisk l’aiuto umanitario da Mosca. L’abbiamo raccolto con l’aiuto degli amici, conoscenti, tramite internet. Siamo di posizioni politiche molto diverse,ma non c’era nessuno che non piangeva sulla strada del ritorno. Piangevamo, soffocandoci, girandoci, inghiottendo le lacrime dall’impotenza totale davanti a questo orrore.