Facciamo il punto sulla situazione in Ucraina

donetsk folla stellarossadi Flavio Pettinari per Marx21.it

Le manifestazioni che hanno portato, nel fine settimana del 5 e 6 di aprile, alla sollevazione dell’Ucraina sud-orientale hanno avuto una piattaforma politica molto ben definita, oltre che estremamente ragionevole.

La richiesta dei manifestanti, proveniente dalle città dei minatori delle regioni orientali come da Odessa, era chiara e, ripetiamo, estremamente ragionevole: indire in tempi brevi il referendum per far scegliere al popolo di modificare l’organizzazione dello stato in senso federale, il ripristino dello status della lingua russa come seconda lingua ufficiale (anche come lingua regionale), il vettore di integrazione estera del paese (in sintesi: Unione Europea o Unione Doganale con Russia, Bielorussia, Kazakistan). Ricordiamo che il Partito Comunista d’Ucraina aveva in realtà da mesi proposto il referendum sull’integrazione estera (proposta neanche presa in esame sotto Yanukovitch prima e con la giunta poi), e da gennaio aveva iniziato a proporre con forza la riforma federale del paese, per “salvaguardarne l’integrità territoriale”.


I tre temi referendari, portati in piazza da milioni di manifestanti sono stati stravolti a scopo repressivo dalla giunta di Kiev, dai suoi megafoni e dai giornalisti embedded che inoltrano i propri dispacci alle agenzie occidentali. Il federalismo è dunque stato trasformato in “separatismo”, e con una forzata interpretazione della legge riguardante l’integrità territoriale del paese, chi propone la riforma federale diventa automaticamente un “separatista” e rischia l’arresto. A Zaporozhie, per fare un esempio, è stata bloccata la pubblicazione del giornale dell’organizzazione locale del Partito Comunista d’Ucraina dopo che la redazione aveva rifiutato di togliere dal numero in uscita gli articoli riguardanti la proposta referendaria.

Il quesito sull’integrazione eurasiatica (ovvero l’adesione all’Unione Doganale con Russia, Bielorussia e Kazakistan) è stato invece interpretato come “volontà di adesione/annessione alla Russia” e i deputati della maggioranza nonché i massimi caporioni della giunta non si fanno tanti scrupoli a definire “terroristi” coloro che, magari semplicemente per motivi di lavoro o personali, manifestano per promuovere questa prospettiva (che è oggettivamente migliore del necrofilo desiderio europeista di alcuni).

Vi è poi il quesito sul ripristino dello status della lingua russa, parlata da secoli nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina (e non solo), che solo un governo di nazionalfascisti poteva vietare, contraddicendo sia la storia che la cultura del paese – oltre che i principi d’adesione dello stesso al Consiglio d’Europa. Ma evidentemente la violazione dei diritti dei cittadini russofoni poca importa agli sponsor occidentali della giunta, la quale “in volata” ha anche bloccato la diffusione dei canali TV russi (e il 15 aprile, in occasione delle operazioni militari contro il Donbass si sono registrati attacchi informatici ai siti dei canali russi che hanno portato all’oscuramento del portale di RT). La russofobia è comunque solo uno degli aspetti della campagna xenofoba della giunta, che colpisce anche le altre minoranze, come quella ungherese.

Il popolo dello jugo-vostok (sud-est) ha partecipato in massa alle manifestazioni del 5 e del 6 aprile spinto anche da altre motivazioni. In primo luogo, in questi mesi il tenore di vita dei lavoratori è incredibilmente peggiorato, e non solo per colpa “dei disordini”. Le condizioni di vita sono peggiorate per l’instabilità politica ed economica del paese, ma anche e soprattutto perché la giunta, per garantire coperture ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale ha immediatamente innalzato le tariffe dei servizi pubblici, a fronte peraltro del congelamento del salario minimo e delle pensioni. Stando ai dati diffusi dal Partito Comunista d’Ucraina, i prezzi degli alimenti hanno subito incrementi dal 3% al 10% mentre quelli dei medicinali sono aumentati in media dal 15% al 20%. Ben nota in occidente è la questione del costo del gas, su cui non ci soffermiamo. C’è però un aneddoto su cui vale la pena di soffermarsi, e che svela indirettamente la consapevolezza che gli ucraini hanno di cosa li aspetta nell’UE. La settimana successiva al golpe del 21-22 febbraio, il “premier” Yatsenjuk si apprestò a firmare coi rappresentanti dell’UE – e qui riportiamo la terminologia diffusa dalla stampa ucraina – “accordi”, a volte definiti “pre-accordi” di associazione all’UE, ma solo riguardanti “l’aspetto politico”, oppure “solo il pacchetto” riguardante “le questioni politiche”. Di ritorno da Bruxelles, il segretario comunista Simonenko ha però svelato alla stampa di aver saputo, durante la visita al gruppo parlamentare del GUE / NGL dei primi di aprile, che tale “pacchetto” in realtà non esiste, e che Yatseniuk ha firmato tutto: la giunta quindi voleva tenere nascoste le implicazioni economiche dell’associazione all’UE, raccontando di aver firmato solo i punti che avrebbero garantito riforme “democratiche”, “europee”, “libera circolazione”… tentando di celare il cappio delle condizioni economiche usuraie richieste dai “partner europei”.

Ricordiamo che l’associazione all’UE, gli accordi commerciali con l’UE, che pregiudicano il commercio con la Russia, significherebbero il tracollo per l’economia del Donbass e dell’Ucraina meridionale, i cui stabilimenti metallurgici e l’industria mineraria sono indissolubilmente legati alla cooperazione economica con Mosca: non è un caso dunque che operai e minatori siano stati in prima fila e lo siano tuttora contro la giunta di Kiev. In una conferenza stampa di ritorno dalla visita a Donetsk della scorsa settimana, la parlamentare comunista Oksana Kaletnyk ha riferito che la gente con cui ha parlato sventola il tricolore russo perché esso rappresenta “la stabilità”.

La protesta e la sollevazione popolare hanno una marcata matrice antifascista: di questo abbiamo parlato in precedenza (link: http://www.marx21.it/internazionale/area-ex-urss/23534-lucraina-che-resiste-ai-fascisti-e-allaggressione-imperialista.html ) e sulla pagina FB “Con l’Ucraina antifascista” (https://www.facebook.com/ucrainaantifascista) riportiamo costantemente i significativi richiami della lotta degli ucraini di oggi a quella dell’Ucraina sovietica (come accaduto a Odessa il 10 aprile, per i 70 anni della Liberazione).

Infine, un altro aspetto da considerare della sollevazione popolare del Donbass, riguarda la rappresentanza politica di questa regione al parlamento di Kiev: immediatamente dopo il golpe, il gruppo parlamentare del Partito delle Regioni è praticamente scomparso. Solo nei primi giorni, una settantina di parlamentari sono passati con la maggioranza golpista lasciando di fatto milioni di elettori senza rappresentanza in parlamento, e questo riguarda soprattutto le regioni dove questo partito era più forte – appunto, lo jugo-vostok. Da un lato, questo sta portando ad una crescita di iscritti e interesse verso il Partito Comunista d’Ucraina (che infatti nelle regioni di Lugansk e Donetsk sta reclutando centinaia di nuovi militanti), dall’altro aumenta le spinte autonomiste e il legame con la Russia.

Quando, il 5 e i 6 aprile, i manifestanti dei capoluoghi del Donbass hanno iniziato a manifestare chiedendo il referendum e la risposta di Kiev è stata la minaccia di “colpire i terroristi e i separatisti”, sono partite a catena le occupazioni degli edifici pubblici: Donetsk, Lugansk, poi Kharkov, Mariupol (e nei giorni successivi i centri minori) hanno visto in breve tempo l’occupazione delle sedi regionali dell’amministrazione statale (ovvero la sede del governatore regionale, nominato dal governo), del Ministero dell’Interno o della polizia, pressoché senza incidenti, anzi con l’avallo delle forze di polizia locali che sono passate dalla parte dei manifestanti. Il cuore della sollevazione è stato il capoluogo Donetsk, dove la sede del governatorato è diventata la sede del coordinamento di circa 200 persone (in larga parte operai e sindacalisti) che lunedì 7 aprile ha proclamato la Repubblica Popolare di Donetsk. Nei giorni successivi, nonostante le minacce e vari ultimatum della giunta, non solo le sedi occupate non sono state evacuate, ma ne sono state prese delle altre, tra cui alcuni arsenali, che hanno rifornito di armi le milizie popolari.

Un paio di episodi significativi: il 10 aprile a Kharkov, Andrej Chujkov, tenente colonnello, si è dimesso pubblicamente dall’incarico dopo 18 anni nella polizia. Chujkov ha dichiarato di aver ricevuto l’ordine dal Ministero degli Interni di evacuare la sede regionale dell’amministrazione statale dagli occupanti, nell’ambito delle “operazioni antiterrorismo” varate dalla giunta. Una volta dentro, Chujkov e i suoi uomini hanno trovato studenti, pensionati, lavoratori disarmati. Chujkov e i suoi uomini hanno abbandonato l’operazione, e intervento pubblicamente, ha definito come criminale l’ordine ricevuto da Kiev.

L’11 aprile, alla scadenza dell’ultimatum del Ministero degli Interni golpista Avakov, i reparti del corpo speciale ALFA, inviati a Donetsk e Lugansk, si sono rifiutati di eseguire le operazioni antiterrorismo per sgombrare i palazzi governativi occupati. Alla stampa locale, poliziotti del corpo speciale hanno dichiarato di non assaltare gli edifici in quanto il loro scopo è agire contro il terrorismo nei limiti della legge – contraddicendo dunque le direttive di Kiev.

Il 10 aprile è stata lanciata una nuova mobilitazione, in risposta alle sempre più minacciose dichiarazioni della giunta e di vari esponenti (Irina Farion, parlamentare di Svoboda, sui media dichiarava di “sparare sui manifestanti a Kharkov, Donetsk e Lugansk”). Gli eletti comunisti della regione di Lugansk invitavano lo stesso giorno i colleghi degli altri partiti a raggiungere le barricate degli edifici occupati per difendere i manifestanti con un appello dal titolo “Il mandato elettorale deve servire gli interessi popolari”.

La nuova ondata di sollevazioni popolari ha portato alla presa di altre città del Donbass: Sloviansk, 117mila, importante centro metallurgico; Kraskyj Liman, 23mila abitanti; Kramatorsk, 170mila abitanti, importante centro metallurgico; Artyomovsk, 77mila abitanti; Gorlovka, 300mila abitanti; Hartzysk, 60mila abitanti, e altri centri minori. Il 14 aprile, Zhdanovka, cittadina operaia di 12.500 abitanti. Il 15 aprile, sono passate sotto il controllo della Repubblica Popolare di Donetsk Torez, Shahtersk e Kirovskoe.

Mentre scriviamo, il rischio che scoppi la guerra civile è reale. L’invio della truppe voluto da Kiev ha causato in poche ore del pomeriggio del 15 aprile 30 morti. Gli scontri sono iniziati a Kramatorsk per la presa dell’aerodromo militare e successivamente per smantellare alcune postazioni della milizia popolare.

È risaputo, anche per via delle dichiarazione di vari esponenti della giunta golpista, che l’esercito ucraino di fatto non esiste e che la cosiddetta Guardia Nazionale (le bande del majdan, reclutate e istituzionalizzate dalla giunta dopo il golpe) non può far fronte ad operazioni di guerra, e speriamo che la mossa azzardata della giunta di Kiev di inviare le truppe nel Donbass non sia altro che il colpo di coda di un regime che in meno di due mesi non ha dimostrato altro che la sua ferocia e la sua incapacità.