Un altro viaggio nel Donbass

post 17 02 8di Evdokija Sheremeteva
da littlehirosima.livejournal.com

Traduzione dal russo di Alena Afanasyeva per Marx21.it

Continuiamo a condividere le testimonianze di Evdokija Sheremeteva, una blogger di Mosca, che organizza i viaggi nella regione di Lugansk per portare l’aiuto umanitario nelle piccole città più colpite dai bombardamenti. Sotto ci sono alcuni dei suoi post pubblicati su littlehirosima.livejournal.com nei quali racconta il suo quarto viaggio nel Donbass (metà febbraio 2015, proprio nei giorni in cui doveva iniziare la tregua). Evdokija continua a raccogliere l’aiuto umanitario, molto richiesto nelle città come Pervomajsk e Krasnodon.

Se volete contribuire, potete contattare Evdokija direttamente tramite la sua pagina Facebook (il link è attivo) oppure per e-mail: [email protected]


Quarto viaggio nel Donbass: alla guerra
(post del 17 febbraio)

– I Grad sparano.

Andiamo a tutta velocità verso Lugansk. È notte. Io sono nella macchina di Rostislav, un combattente del comando di presidio di Pervomajsk, il quale ci ha incontrato alla frontiera per accompagnarci. Non si può viaggiare senza lasciapassare. Di notte è imposto il coprifuoco.

I ragazzi nella macchina sovraccarica di aiuti umanitarii ci seguono.

Rostislav preme il pedale al massimo. Il viso non dimostra nessuna reazione. C’è solo serenità, e una grande stanchezza. Accanto a lui c’è la sua fidanzata, le sta per iniziare un attacco di nervi. I ragazzi rimangono indietro.

Osservo un campo dal finestrino. E vedo delle scariche di fuoco. Una, due, tre, quattro… Come contare? La velocità è incredibile. Come in TV, solo che io non sto di fronte allo schermo, ma sono qui, nel campo, con i Grad e la mia vita minuscola che è diventata la cosa più importante del mondo.

Una convulsione mi scuote tutto il corpo e il viso viene paralizzato.

– Lo fanno in attesa della tregua, non ti preoccupare, non sparano qui, ma in un’altra direzione. Lontano. Sembra.

Il cielo è profondo, nero e limpido. E lontano nel campo ci sono delle vampate sanguinose.

Lontano. Sembra.

Le stelle si vedono benissimo, come al sud, in Crimea d’estate. Sono profonde e bellissime.

Mi si stringe il cuore…

I ragazzi sono rimasti dietro. Ci fermiamo per aspettarli. Sono saltata dalla macchina come un proiettile. Solo adesso capisco perché qui si guida senza cinture di sicurezza. Sono saltata fuori, il cuore mi batte fortemente, le vene pulsano, sento ogni loro movimento.

La tregua è solo dopodomani. Ancora mi sembra che significhi qualcosa. Ancora ho l’illusione che possano abbassare le armi.

La paura è selvaggia e istintiva. È già la quarta volta che sono qui. Ho sentito degli spari in lontananza centinaia di volte. Di notte martellavano in continuazione. Ma erano lontani, non arrivavano a Lugansk.

Invece adesso l’ho visto. È insopportabile.

Fuori fa gelo, sono scesa dalla macchina senza abbottonarmi, senza capire cosa sta succedendo. È un panico stupido. Il freddo mi penetra tutto il corpo, ma non lo sento. Il vento mi sbatte in faccia. Il fatto che sparavano in un’atra direzione non lo comprendo. Nel cervello c’è solo il pensiero che adesso ci saranno dei missili e bisogna fare in tempo a ripararsi in un fosso. La comprensione adeguata arriva solo più tardi.

Per adesso mi sembra che sono un bersaglio nudo e vivo.

Nel cielo si vede la via lattea. Il gelo ha fatto diventare l’aria pura e trasparente. Le stelle mi guardano con una fredda eternità. Dio mio, quanto sono belle. Dio mio, che cos’è? Dio mio, come vivere con tutto ciò?

– Rostik, portiamo gli aiuti a Pervomajsk. Mi sa che dopodomani inizia la tregua, lo porteremo per i rifugi…

– La tregua… Penso che sicuramente sarà più tranquillo… Andremo per una strada sicura.

I ragazzi ci raggiungono. Non hanno visto il Grad. Ma io sì.

Lontano. Sembra…

Avanti ci aspetta Pervomajsk… città bombardata e bombardata senza sosta per sei mesi. Dove una settimana fa ci sono stati cinque colpi precisi, diretti contro l’ospedale. Ma l’ospedale ancora resiste e continuerà a ricevere tutti i malati e feriti. Lì lavorano degli eroi che non sono andati via e continuano a fare il loro dovere. A Prevomajsk, dove alcune persone non sono uscite dai rifugi sotterranei da mesi. Dove i missili continuavano a colpire tutta la notte della tregua. Martellavano e martellavano, martellavano e martellavano. A Donbass dicono proprio così.

Col tempo uno smette di notare il costante rumore dei missili in arrivo. Diventa una specie di norma. Persino durante il nostro soggiorno di tre giorni ci siamo stancati di reagire e notare. Bum, bum, bum…

Lontano. Sembra.

Un paio di giorni fa un missile ha colpito un edificio nel centro di Pervomajsk.

http://littlehirosima.livejournal.com/50897.html

Tregua sanguinosa
(post del 18 febbraio)

Nella piazza centrale di Pervomajsk il numero dei missili raccolti è raddoppiato dal nostro viaggio precedente. (gli abitanti portano i proiettili e missili che trovano al monumento di Lenin nella piazza centrale come un ricordo di quello che ha subito la città- NdT)

È solo una piccola parte di tutti i missili che hanno colpito la città.

Sasha, un ragazzo dal comando di presidio, commenta passando:

– Molti sono arrivati stanotte…

  • Ma la tregua non è iniziata a mezzanotte?

– Proprio 5 minuti prima (di mezzanotte) hanno “arato” metà del centro della città con i Grad… Probabilmente stavano festeggiando la tregua. Bombardavano fino alle tre di notte dalla gioia.

Nella lontananza si sente il rumore dei colpi.

post 17 02 2

  • Il calderone (Debaltsevo, NdT) sta bollendo. Bombardano principalmente lì.

Ci sono rumori diversi, da forti e sibilanti a bassissimi come se dei giganti facessero cadere per terra un sacco di farina.

In città quasi non c’è gente. C’è un vuoto che risuona. Si sentono solo esplosioni, esplosioni, esplosioni.

Ogni 5 minuti si sentono i tuoni da qualche parte. La città sembra morta e riprende solo durante la distribuzione del cibo. La gente si raduna e poi si sfolla di nuovo.

La città vive in questo stato ormai da più di sei mesi. Sotto un bombardamento continuo.

La casa vicino alla piazza centrale è stata bombardata qualche giorno fa.

Portiamo gli aiuti umanitari per i rifugi.

Di giorno la gente va a casa e di notte dorme nei sotterranei. E chi è rimasto senza tetto vive lì. Alcune persone non escono dai rifugi da mesi. Perché hanno paura. Hanno paura persino di andare a fare la spesa. Molti sono stati colpiti così dai missili o dalle schegge, quando sono saliti fuori per pochi minuti. Alcuni sono ormai stanchi e dormono a casa propria: “Se sono destinato a morire, morirò. È Dio che lo vuole.”

Avviciniamo il rifugio di una fabbrica. A pochi metri dall’ingresso c’è un buco lasciato da un Grad.

  • È arrivato stanotte. Il missile è stato già estratto.

Tatjana Leonidovna, la responsabile del rifugio, ci indica la strada e ci accompagna per i corridoi lunghi del rifugio. Ci sono tantissime camere, vicoli, corridoi. Come se fossimo nella tana di un hobbit, solo che invece delle stanzette accoglienti ci incontrano degli spazi umidi, molti sono senza luce.

Qui ci sono circa 150 persone, 18 di loro sono bambini.

  • Posso fare delle foto?

Le persone acconsentono, con dei gesti indifferenti.

La maggior parte di loro sono anziani.

Ci vengono spesso a trovare dei giornalisti, l’OSCE, gli stranieri. Fanno una escursione… E che senso fa? Vengono, fanno delle foto e spariscono. Voi invece avete portato degli aiuti.

Tatjana Leonidovna si mette a piangere e mi abbraccia. Con dolcezza, come una mamma.

  • Grazie, cari miei, grazie che vi ricordate di noi. Grazie.

  • Grazie a voi…

– Sono un medico, terapeuta. Il mio appartamento si affacciava su via Popasnaja. Sulla linea del fuoco. Adesso è appeso nell’aria… La mia casa…

Andiamo avanti, nel rifugio successivo. È più piccolo, la luce qui non c’è per niente. Qui vivono circa 35 persone.

Proseguiamo con le torce nel buio. L’umidità è fortissima. Andiamo verso una luce debole.

  • Posso fotografarvi?

Un gruppo di donne anziane sogghignano.

  • I nostri saluti a tutti.

  • A chi?

  • Ma a tutti quanti. A Ljashko e tutta quella banda di feccia nella Rada. Che sappiano che siamo tanti. Non riusciranno a uccidere tutti.

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Il gruppo si è radunato attorno l’unica candela nella camera. Risparmiano il più possibile.

  • Vi abbiamo portato aiuti. Da Mosca.

  • Non avete paura di venire da noi?

  • Eccome no.

  • Bravi, grazie. Molti hanno paura.

Spazi enormi, soffitti altissimi, umidità. E gente persa in queste catacombe.

Il rifugio successivo è pieno di bambini. Sono tanti e corrono senza sosta.

Zheka sussurra:

– Vivono qui già da sei mesi. Sono rimasti senza un tetto. Adesso la loro casa è questo posto…

E noi, come deficienti, abbiamo scordato le caramelle. Femmine e maschi, tutti bellissimi. Il cuore si spezza…

Ovviamente, come sempre, ci sono tante lacrime. Sempre il dolore, sempre la gratitudine.

– Di recente sono venuti da Novgorod, Grazie che non ci dimenticate, che ci ricordate…

Hanno raccontato che un signore di Tjumen con la propria macchina ha raccolto insieme con i suoi amici del cibo e l’ha portato fino al Donbass. (Tjumen è una città in Siberia, più di 1700 km da Mosca – NdT)

Sento una vergogna indescrivibile. Che sto a posto, che tutti mi ringraziano, accarezzano i miei capelli, baciano, abbracciano. Come se fossi un parente vicino… Non è solo vergogna, ma anche un dolore straziante e un forte senso di colpa.

Abbiamo portato 2,5 tonnellate di alimentari a Pervomajsk e quando abbiamo diviso tra mense e rifugi ci siamo resi conto che diamo molto poco. Pochissimo.

Da loro vengono dei giornalisti. Filmano, esprimono il loro dispiacere con degli “Ah!” e “Oh!”, come con degli aborigeni. Fanno le foto e poi se ne vanno. E loro rimangono così.

In ogni sotterraneo la prima reazione al nostro arrivo era :”Ecco, di nuovo sono venuti a filmare”, ma quando vedono gli aiuti piangono…

post 17 02 7

– La tregua. Tutta la notte facevano la tregua. Oddio, ma quando finirà? Quando? Ma siamo uomini. Non lo sanno?

Ancora più spesso si può sentire la rabbia e condanne:

– Dannata tregua. Non ci crediamo. Loro allungano la presa in giro. L’abbiamo già visto, sappiamo come funziona.

Sempre chiedo perché non vanno via. Ormai non so nemmeno perché lo chiedo. Le risposte sono sempre le stesse. ma chiedo, perché al mio ritorno a casa me lo chiedono tutti: perché non se ne vanno? Come se fosse una conoscenza sacrale.

Chi ha potuto e ha voluto è andato via. Sono rimasti degli anziani, bambini, i disabili, le persone che non hanno un posto dove andare. Qualcuno se n’è andato, ma è tornato indietro perché non ha un posto per vivere e soldi. Sono rimasti gli orfanotrofi e convitti con dei bambini disabili. Chi ha bisogno di loro? Molti sono rimasti con i loro genitori anziani che non possono andare da nessuna parte e i figli non si possono permettere lasciarli da soli. Molti hanno lasciato i loro genitori e sono andati via. E quelli invece… Aspettano i figli e non capiscono… E poi sono rimasti quelli che non vogliono andare perché questa è la loro terra.

Passiamo per le vie della città e pure io vedo quante nuove rovine ci sono. Qualcosa è stato riparato, sistemato. I servizi funzionano molto efficacemente.

– Andiamo, ti faccio vedere un missile accanto a una chiesa. È arrivato prima dell’alba.

Sasha ci porta nei pressi della chiesa e vediamo lì un buco nell’asfalto.

– I genieri hanno reagito velocemente. Poco fa il missile era ancora dentro.

Alla fermata ci sono un po’ di persone.

Chiedo a Sasha:

– Stanno aspettando l’autobus?

– No, il pane. La gente non esce quasi mai senza averne bisogno. Hanno paura.

– E tu non hai paura?

– Anch’io ho paura. Ma che fare? Sono abituato.

post 17 02 8

Torniamo nella piazza centrale.

Quando siamo arrivati a Pervomajsk c’era una nebbia fitta. Gli alberi paralizzati dalla neve, il vento penetrava nelle ossa.

In piazza c’erano delle persone che erano venute a prendere il pane.

La gente si raggrinzava e camminava nervosamente su e giù per la piazza. Qualcuno fumava. Qualcuno stava silenzioso accanto al monumento e osservava, abbassando la testa, i pezzi distorti di ferro che hanno portato via la vita di così tante persone, che hanno rovinato la vita di tutta questa gente. Qualcuno piangeva.

post 17 02 9

Dopo aver attraversato tutta la città di Pervomajsk, siamo tornati in centro. Ed è uscito il sole.

Stavamo in una piazza grandissima. Le luci ci scaldavano ed era strano e inconsueto che con un tempo così bello le vie erano quasi vuote. Il gelo e il sole portano sempre fuori le neomamme con i bimbi nei passeggini, le signore anziane e le giovani coppie.

La brina sugli alberi ha iniziato a sciogliersi. Stava diventando più caldo.

Il rumore dei bombardamento sull’orizzonte si sentiva più spesso, ma non sentivamo e non facevamo caso ai colpi che arrivavano. Come la gente locale, siamo entrati nello stato in cui sembra che qui non può arrivare mai. Può colpire da qualsiasi altra parte, ma non qui.

E poi abbiamo visto un ragazzino che girava vicino al monumento.

Ha passato sei mesi nei rifugi insieme con la sua famiglia.

Nella macchina abbiamo trovato un peluche. Non ho visto così tanta felicità negli occhi da tanto tempo.

Questo sguardo è ancora con me.

http://littlehirosima.livejournal.com/51155.html

Salvando le vite
(post del 4 marzo)

– Una settimana fa ci sono stati cinque colpi diretti, oltre la sala caldaie.

La visita all’ospedale di Pervomajsk ci ha lasciato l’impressione più forte di tutto ciò che ho visto a Donbass. Ed anche l’impressione più terrificante e pesante.

All’ingresso principale dell’ospedale c’è una giovane infermiera.

– Chi volete vedere?

– Abbiamo portato gli aiuti umanitari. Avete delle persone nel rifugio?

Lei sorride.

– Noi viviamo qui. Avete bisogno di Nikolaj Aleksandrovich?

Ci accompagnano nelle stanze vuote dell’ospedale. Sembrano assolutamente nuove – le mura sono pulite, gli spazi sono rifiniti con piastrelle. Non hanno niente a che fare con il mondo attorno.

All’orizzonte compare Nikolaj Aleksandrovich. Prima è stato il capo del servizio sanitario pubblico della città e adesso sostituisce il medico primario, il quale se n’è andato.

Ci presentiamo, stringiamo le mani, consegniamo gli aiuti.

– Volete una visita guidata?

La sua voce è stanca, ma sorridente. Nascondo gli occhi. Una visita guidata. Da queste parole mi stringe la gola. Mi vergogno.

Passa un medico, basso, con uno stetoscopio. Si vede che è impegnato. Nikolaj Aleksandrovich lo presenta.

– Questo è il mio amico, il mio fratello, un compagno. Tutta la guerra è con noi. Sta sull’ambulanza durante ogni bombardamento. Tira fuori le persone da sotto le macerie. Il nostro pronto soccorso…

Cerco di ricordare il suo viso.

– Posso farLe una foto?

Imbarazzato ritrae lo sguardo.

– Va bene…

– Non avete paura di venire? Ci martellano in continuazione.

Lui fa una pausa, come suggerendoci di ascoltare. Nell’edificio l’arrivo dei missili non si sente, ma ci sono di sicuro, anche se lontano.

– Si, abbiamo paura.

Ridono.

– I giovani vengono. C’è stata qui da noi una missione dell’OSCE. Quando hanno iniziato ad arrivare i colpi, loro sono scappati in cinque minuti. Dico – rimanete, vi faccio vedere che cosa è stato fatto con l’ospedale. E loro rispondono: no, grazie. Questa è l’OSCE.

E si mettono di nuovo a ridere.

Andiamo avanti come dei fantasmi, dissolvendo nei corridoi vuoti che prima erano pieni di vita…

Cerco di non stare troppo indietro a Nikolaj Aleksandrovich

– E i pazienti adesso dove sono?

– Una settimana fa ci hanno bombardato e la gente è stata evacuata all’ospedale di Stakhanov, ma questi giorni ricominceremo a ricevere i pazienti.

– Ho sentito che ci sono stati cinque colpi?

– Il reparto ostetrico è stato colpito ancora 6 settimane fa. E adesso sono stati colpiti cinque reparti – pediatria, cardiologia, reparto malattie infettive, urologia…

– C’erano tante persone?

– Parecchie. Principalmente anziani. Nel reparto pediatrico c’erano dei bambini…Andiamo al primo e secondo piano, vi faccio vedere. Ecco, vedete? Uno è arrivato direttamente da sopra. Insieme con la soffitta. Dopo il primo colpo sono uscito fuori, tre minuti dopo che sono rientrato c’è stato un altro colpo. L’edificio si è scosso. E qui il colpo è arrivato in una camera.

– Quando è arrivato il primo missile, in quella stanza uno dei nostri medici stava ricevendo i pazienti. È vivo per miracolo. Potete immaginare come si sentiva?

Tutti i missili sono stati portati via, alla piazza centrale, sotto il monumento di Lenin.

– Quando stavano bombardando avevamo 11 persone trattato con trazione transcheletrica. Chi con le braccia, chi con le gambe.

Noto che nelle camere colpite le mura sono riparate alla meglio, con quello che poteva trovarsi.

  • Abbiamo chiuso quasi tutti i buchi per non perdere il caldo. Domani la cardiologia si riavvia.

– E voi dove vivete?

– Io?

Nikolaj Aleksandrovich fa finta di non sentire. Gli impiegati lo circondano e parlano della sala caldaie. Quella dov’è arrivata la mina durante il bombardamento.

– Io vivo nel mio studio. Quasi tutti noi viviamo qui. Adesso è tranquillo, tutti sono andati per i fatti loro, ma verso la sera si raduneranno. Molti sono rimasti senza casa. Andiamo nel sotterraneo, vi faccio vedere come viviamo.

Per strada incontriamo un giovane ragazzo .Nikolaj Aleksandrovich reagisce subito:

– Questo è Artiom, un futuro accademico. È chirurgo.

Penso che Artiom sia mio coetaneo. Sopra la divisa di medico ha un giubbotto. Nell’edificio non hanno ancora acceso il riscaldamento. Fa freddo. È stato qui tutta la guerra, non se n’è andato. Artiom e Nikolaj Aleksandrovich ridono:

– Artiom è un futuro luminare di medicina. Ma quanto ci piacerebbe fare degli interventi pacifici!

– Già, poco fa abbiamo avuto un’ernia – quanta gioia! Se no, tutti feriti dalle schegge…

Artiom vive nell’ospedale e dorme direttamente nella sala medici. Nikolaj Aleksandrovich alza minacciosamente le sopracciglia:

– E quando c’è un bombardamento, non scende mai nel rifugio. Dice sempre: “Tutto è nelle mani del Signore”. Ecco com’è fatto. Non è andato via. Tutta la guerra, 7 mesi sotto i bombardamenti continui…

Cerco di ricordare anche il suo viso. È così giovane, chiaro, sorridente. Di nuovo mi si stringe la gola e non trovo le parole.

Mamma mia, quanto è giovane.

Tutta la guerra.

Scendiamo nel rifugio e si sente un forte profumo di zuppa. Buono.

– Queste sono le nostre ragazze, l’anestesista e la cardiologa.

Cerco di ricordare ognuna di loro, guardare nei loro occhi.

Loro ridono, sorridono, immaginate?

Molte, ovviamente, sono andate via. Sono rimaste poche.

– Abbiamo una ragazza, come Lei, giovanissima. Anche lei vive e lavora qui. Non è partita. Fa il suo dovere, è ecografista. Riceve i suoi pazienti direttamente qui.

Passiamo per le stanze sotterranee. Ci sono delle persone – pazienti rimasti senza tetto. Ci sono dei bambini.

– Siamo civilizzati qui – guardate, c’è la TV!

Le giovani mediche ridono.

– Nell’ospedale sono morte 81 persone, e i feriti non si possono nemmeno contare. Una volta stavamo facendo contemporaneamente otto interventi, uno di loro era un bambino. Erano tutti civili. E tutto ciò con il rumore costante dei Grad e delle mine che cadono. Anche i nostri ragazzi sull’ambulanza lavorano sotto ogni bombardamento. Ma non se ne vanno dalla città. Tutta la guerra stanno qui.

Ha ripetuto “civili” due volte, come se avesse paura di non essere compreso correttamente.

– Ho sentito che sono morte 500 persone, tutti civili, in tutto il periodo.

– Io parlo solo di chi è stato portato da noi. E gli altri sono trasportati direttamente alla polizia scientifica, non è il nostro reparto.

– Bombardavano specificamente l’ospedale? Perché i colpi sono diretti.

Non ci sono obiettivi strategicamente importanti, a parte il quartiere residenziale, nelle vicinanze. Non c’è niente.

Nikolaj Aleksandrovich non mi ha sentito. Oppure ha fatto finta di non sentire.

Lo seguo e mi sembra che sono in una realtà parallela. Mosca non c’è. Non c’è la mia casa, né il mio lavoro, non c’è niente.

Oh Signore, che sta succedendo?

C’è solo questo ospedale. Ci sono solo queste persone. UOMINI. EROI.

Quante persone come me vengono qui per le “visite guidate”?

Vengono, guardano, vengono impressionati?

Allargano le braccia. Stringono le mani.

E vanno via.

E questi rimangono. E fanno il loro lavoro. Guidano le macchine sotto bombardamenti.

Tutta la guerra.

Nikolaj Aleksandrovich.