Cosa significa lo sciopero della fame?

filospinato fiorerossoriceviamo e volentieri pubblichiamo

di Sabo’nun kizi

Lo sciopero della fame non è un digiuno, non è una dieta, non è un suicidio.

Lo sciopero della fame è una forte azione di lotta politica per il raggiungimento deidiritti fondamentali negati dallo stato o da chi governa il popolo.

Gli scioperi della fame sono forme di resistenza per la vita, sono molto materiali perché implicano una resistenza portata avanti usando il proprio corpo.


È un processo estremamente doloroso e sicuramente un atto materiale, ma nell’uso del proprio corpo come arma, ci sono anche molti elementi metafisici sul significato della vita. Lo sciopero della fame è un attacco vero e proprio contro qualcosa. In queste azioni, che pongono una vita al limite, c’è lo scopo anche di fare un commento sul proprio sacrificio, il che lo discosta da un suicidio o da un attacco Kamikaze. Di solito si chiede giustizia, o diritti politici negati. Il corpo del singolo diventa vassallo, si pone come barricata, per fare un lungo commento sul tipo di vita che non si è disposti ad accettare di vivere. Si vuole mettere il proprio corpo, la propria vita al servizio delle parti più vulnerabili di una popolazione costantemente sotto attacco con azioni violente. 

Sembra sofisticato e complicato l’aspetto metafisico, ma è solo una vita a cui si vuole dare un significato, dove dietro c’è una vita politica da difendere per l’ottenimento di giustizia. La cosa più importante ricordata dal popolo irlandese di Bobby Sands non è come è morto in sciopero della fame, ma è come ha vissuto. Attraverso la sua energia, ha costruito un movimento e una comunità all’interno dei blocchi H che il mondo non poteva ignorare. Allo stesso modo tutti ricorderemo Helin Bölek, cantante di Grup Yorum, per la sua vivacità umana e la tenacia nella lotta di resistenza contro i soprusi del sultano. 

Per fare un excursus storico parziale, possiamo iniziare dalle origini celtiche.

Gli antichi Celti praticavano una forma di sciopero della fame chiamato Troscadh o Cealachan, in cui qualcuno a cui era stato fatto un torto digiunava davanti alla porta di chi era stato colpevole dell’ingiustizia, fino a morirci davanti per farlo sentire perennemente in uno stato di vergogna. Altri sostengono che è stato un atto simbolico, mai stato compiuto fino alla morte, ma semplicemente per svergognare pubblicamente il colpevole del torto.

Da allora in Irlanda sono stati usati gli scioperi della fame regolarmente come arma politica, e poi si sono diffusi in tutto il mondo, tra i popoli oppressi e in lotta.

In Irlanda tra il 1980 e il 1981, dieci prigionieri sono morti nello sciopero della fame, guidato da Bobby Sands. Hanno vinto una chiara battaglia morale e conquistato diritti. I media di tutto il mondo li hanno supportati in modo schiacciante. I parlamenti nazionali hanno onorato gli scioperanti con risoluzioni e momenti di silenzio. 

I prigionieri politici in Chiapas in Messico, che in seguito avrebbero formato il movimento zapatista, hanno iniziato lo sciopero della fame seguendo l’esempio irlandese nell’estate del 1981.

In Sud Africa Nelson Mandela e i giovani prigionieri dell’ANC hanno fatto lo sciopero della fame con gli stessi intenti di carattere politico.

Nello stato americano dell’Ohio nel 2011, tre prigionieri condannati a morte erano stati tenuti in totale isolamento per quasi venti anni. Hanno letto di Bobby Sands e degli scioperanti della fame irlandesi e sono stati incoraggiati a organizzare il proprio sciopero della fame per il diritto di avere visite. Hanno vinto la loro lotta dopo 12 giorni. 

In California, più tardi nello stesso anno, 6000 prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame. Ancora, hanno letto di Bobby Sands e dei suoi compagni in Irlanda, e si sono convinti che anche loro potevano fare qualcosa per le orribili condizioni di isolamento in cui erano tenuti. Vinsero anche loro.

Fidel Castro si avvicinò all’espressione dell’enormità dell’atto di sciopero della fame, quando lodò Bobby Sands e i suoi compagni con queste parole:

«I tiranni si scuotono in presenza di uomini che hanno la forza di morire per i loro ideali attraverso sessanta giorni di sciopero della fame!»

È infatti proprio questo che spaventa il sultano Erdoğan: sono gli scioperi della fame, i death fast, che mobilitano popoli e paesi in tutto il mondo, fanno conoscere gli atti criminali e sanguinari di cui si macchia ogni giorno. 

Tutti coloro che sono stati in sciopero della fame (perdendo o no la vita) hanno mobilitato una campagna pubblica al di fuori del carcere o del loro ambiente, che li ha sempre supportati emotivamente e ha esercitato pressioni sul governo affinché ascoltasse le loro giuste richieste.

Morire di fame è una cosa orribile. È un modo lento e doloroso di morire. Coloro che scelgono di farlo, lo fanno perché le loro condizioni sono diventate così intollerabili che continuare a viverci è peggio che attraversare il digiuno fino alla morte. È il loro ultimo passo di resistenza. Sono commossi da sentimenti di solidarietà e amore per i loro compagni, a un livello che per noi non può essere immaginato.

Ed ora lo sciopero della fame è tornato di nuovo in Turchia. Dopo lo sciopero della fame del 2000 che vide coinvolti più di 800 militanti, collegati a tre differenti organizzazioni di sinistra, contro l’introduzione delle celle di isolamento di Tipo-F.

Oggi è importante presentare a tutti la situazione dei resistenti in Turchia poiché significa:

 contestare le politiche fasciste dello Stato turco che vuole distruggere la resistenza; 

 rafforzare la coscienza solidale internazionalista;

 sostenere la lotta di resistenza dei prigionieri politici rivoluzionari turchi.

Il bassista di Grup Yorum, Ibrahim Gökcek, in sciopero della fame da 297 giorni (9 aprile 2020) spiega le ragioni che lo hanno portato ad iniziarlo:

«Non è stato difficile prendere questa decisione, visto quello che passiamo ogni giorno. I nostri strumenti e la nostra musica vengono sistematicamente distrutti. I nostri concerti sono vietati. I nostri nomi sono sulle liste dei terroristi, e siamo in prigione. Sono successe così tante cose. Grandi ingiustizie. Naturalmente vogliamo vivere. Ma a volte, in Turchia, per alzarsi bisogna essere pronti a morire».

L’esperienza mostra che c’è solo una cosa che può aiutarli a vincere la loro lotta: conoscenza pubblica e sostegno pubblico. Senza di essa, sono soli.