Una trappola per cinque

di Geraldina Colotti | da il Manifesto del 7 novembre 2012

cinquecubaDopo un lungo e controverso iter giuridico, il caso degli agenti cubani prigionieri negli Usa potrebbe essere riaperto: «Aiutateci», dicono i familiari. Ma molto dipende da Obama. «I giovani sono il futuro, devono avere a cuore la libertà». Con l’entusiasmo dei suoi 24 anni e l’ausilio di una solida formazione politica, Ailí Labañino Cardoso parla a un’aula gremita di ragazze e ragazzi: quarte e quinte del liceo Morgagni, venute ad ascoltare la figlia di Ramon, uno dei 5 agenti cubani prigionieri nelle carceri nordamericane da 14 anni, condannati all’ergastolo o a pene pesanti. Dopo un lungo e controverso iter giuridico, ora il caso potrebbe essere riaperto, qualora venisse accolto il ricorso della difesa in merito a una pesante irregolarità commessa durante il processo di I grado: in sostanza «il pagamento diretto, da parte delle agenzie governative Usa, di cifre stratosferiche «ai giornalisti di Miami perché diffamassero i Cinque e creassero un clima negativo tra la popolazione e la giuria». In un paese che, sulla carta, sbandiera il mito della libertà di stampa, non è una prova da poco.

Nessuna legge, però, impone limiti di tempo alla eventuale decisione del tribunale. Per questo – dice la figlia di Labañino – «tutto è nelle mani del presidente Barack Obama. Se viene rieletto, avrà altri 4 anni per rimandare a casa i nostri cinque compagni, ponendo rimedio a un’ingiustizia che né Clinton né tantomeno Bush hanno voluto sanare. Altrimenti, avrebbe comunque tempo fino al 20 gennaio per liberarli: un gesto che il popolo americano sosterrebbe, se solo conoscesse davvero i fatti. La grande stampa, però, ci ha chiuso le porte, negli Stati uniti e in Europa. Le notizie filtrano solo grazie alle reti sociali e ai media alternativi». Al punto che, artisti, scrittori, premi Nobel, hanno dovuto comprare una pagina del New York Times per far conoscere il caso. Per questo – aggiunge la ragazza – «sono venuta a chiedervi di aiutarci: scrivete al presidente Obama e a sua moglie Michelle, fate conoscere questa storia ai ragazzi europei e statunitensi. A Cuba come nel resto del mondo, noi giovani siamo il futuro, dobbiamo avere a cuore la libertà».

Ailí è stata invitata dall’Associazione nazionale di amicizia Italia Cuba per un giro di conferenze in 7 regioni italiane dove ha incontrato soprattutto giovani e ha ricevuto il caloroso sostegno di un ampio arco di forze e soggettività. Ha spiegato i risvolti politici e i costi umani di questa vicenda che ha segnato la sua giovane vita: la difficoltà di crescere senza un padre, i mille intoppi e le angherie per andarlo a trovare in un carcere di massima sicurezza Usa, una o due volte l’anno e senza alcuna certezza.

Al Morgagni, i liceali ascoltano con gli occhi lucidi. «Gli Stati uniti – dice la ragazza – concedono un visto di soli 30 giorni e non è facile ottenerlo. Posso visitare solo mio padre, non gli altri quattro compagni. Non essendo considerati prigionieri politici, sono sottoposti al regime di alta sorveglianza dei detenuti pericolosi: trafficanti, assassini, stupratori. Un regime duro: telecamere, controlli, guardie dappertutto, solo la possibilità di abbracciarci, all’inizio e alla fine del colloquio. Quando scoppiano risse nel carcere, anche se i nostri non sono coinvolti, vengono messi in punizione: cibo freddo, docce limitate, sospensione delle visite. Così, nel 2008, nonostante mi fossi recata ogni giorno alla porta della prigione, non ho potuto vedere mio padre. Il mese è trascorso e sono rientrata a Cuba. E ho iniziato le pratiche per il prossimo visto».

Una storia di diritti negati, dicono con diversi accenti Marco Papacci, della segreteria nazionale Italia Cuba e l’avvocata Tecla Faranda, dei Giuristi democratici, venuta apposta da Milano. Una vicenda per cui si mobilitano reti sociali e media alternativi – ha spiegato il giorno prima Franco Forconi, illustrando ai giovani comunisti di Rifondazione e dei Comunisti italiani la campagna del Comitato italiano giustizia per i Cinque. Come altri 300, sorti in questi anni in più di 190 paesi, il Comitato cerca di informare, amplificando le voci autorevoli – intellettuali, artisti, politici e premi Nobel – che sostengono questa causa, e provano a spezzare «il muro di silenzio e menzogne, eretto dai grandi media, organizzando iniziative il 5 di ogni mese».

Quella dei 5 è sì una matassa giuridica ormai difficile da districare, ma è soprattutto una partita politica e simbolica tra la piccola isola e la superpotenza nordamericana, che non le perdona di aver scelto il proprio cammino. Una faccenda che ci riguarda – ha detto Simone Oggionni, portavoce dei Giovani comunisti alla platea attenta della Sala Libertini -: perché, mentre in Italia si continua a morire di lavoro, in Sudamerica si va configurando un’alternativa. Perché, «mentre gli Usa aumentano l’esportazione di armi al resto del mondo, Cuba esporta medici e cultura». Perché quell’esempio rivoluzionario, figlio del grande Novecento, «interroga un certo pacifismo imbelle che disconosce il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione, spiana la strada alle aggressioni imperialiste e priva il conflitto dei suoi riferimenti forti».

Ailí Labañino spiega ai ragazzi in quale contesto storico si è resa necessaria un’azione di intelligence da parte di Cuba: «Gli Stati uniti – dice – non hanno mai digerito la nostra indipendenza e per questo hanno continuato a finanziare gli attentati dei gruppi anticubani basati a Miami. Dopo il crollo dell’Unione sovietica e del campo socialista, hanno moltiplicato gli sforzi, sperando che anche il socialismo da noi potesse cadere. Il terrorismo ha provocato nel paese 3.478 vittime, 2099 feriti, danni materiali per 54.000 milioni di dollari. Cuba ha il diritto di difendersi: non con le guerre, che non abbiamo mai mosso a nessuno, ma con l’intelligenza».

Per chiarire il discorso, prende poi ad esempio quel che accadde nel cielo dell’iusola il 6 ottobre del 1976. Allora, una bomba fece esplodere in volo l’aereo che riportava in patria la squadra cubana di scherma, di ritorno da un incontro vittorioso in Venezuela. Morirono 73 persone: «Anzi – precisa Ailí Labañino – 74, perché una delle ragazze era incinta. E non c’erano solo cubani sull’aereo». Persone che si trovavano «al posto sbagliato nel momento sbagliato, secondo Posada Carriles, responsabile di quel fatto e di altri 11 attentati contro Cuba: tutti rivendicati impunemente da Miami, dove vive libero».

Tra il ’94 e il ’97, aumentano gli attentati contro Cuba, specialmente nel settore turistico. Il 4 settembre del ’97, una bomba nella hall dell’Hotel Copacabana uccide anche un giovane imprenditore italiano, Fabio di Celmo. In quel contesto di escalation si sviluppa l’attività degli agenti cubani. «Durante la presidenza Clinton – racconta Ailí – mio padre e gli altri quattro compagni che avevano infiltrato i gruppi anticubani a Miami, vennero a conoscenza di sanguinosi piani, diretti non solo contro il nostro paese, ma anche contro l’allora capo di stato degli Stati uniti. Tramite lo scrittore Gabriel Garcia Marquez, il presidente Fidel Castro fece arrivare l’informazione a Clinton. Una delegazione dell’Fbi venne per questo all’Avana manifestando la volontà di adottare misure preventive comuni. Invece, il 12 settembre del ’98 furono arrestati mio padre e i suoi compagni».

Ramon Labañino, René e Fernando Gonzales, Gerardo Hernandez vengono fermati dall’Fbi nel Sud della Florida e tenuti in celle di isolamento in diverse carceri di massima sicurezza per 17 giorni, prima che il loro caso arrivi al Tribunale di Miami. Le accuse sono pesantissime: spionaggio, associazione a delinquere, più altre imputazioni minori. «René – racconta Ailí – aveva doppia nazionalità e famiglia in America. Fecero pressione su di lui perché si arrendesse, minacciando di arrestare sua moglie. Volevano che firmasse una confessione, ma lui al posto della firma fece un gesto eloquente: disegnò il dito medio. E quando gli portarono la moglie in manette e con la divisa arancione delle detenute, le disse: “Guarda come ti sta bene l’arancione”. Dopo tre mesi di carcere, la moglie venne espulsa a Cuba. Secondo la legge nordamericana, dopo 5 anni avrebbe avuto diritto a un visto, invece niente. All’epoca, la loro figlia più piccola aveva 4 mesi, ha dovuto aspettare 7 anni che gli psicologi le dessero il permesso di vedere il padre, accompagnata dalla sorella».

Sette mesi dopo l’inizio del processo, viene aggiunta un’altra accusa a carico di Gerardo Hernandez: per l’omicidio di 4 anticastristi, appartenenti all’organizzazione Hermanos al rescate, abbattuti mentre stavano violando lo spazio aereo cubano a bordo di due piccoli aerei. Hernandez avrebbe avvertito l’Avana del loro arrivo, il 24 febbraio del ’96.

«Per Cuba come per tutti gli altri paesi valgono le norme internazionali – dice Tecla Faranda -, la difesa ha prodotto le registrazioni di quell’episodio, le risate dei piloti incuranti dei ripetuti inviti a fermarsi». L’avvocata ricapitola i passaggi di quel processo lunghissimo, viziato all’origine e in un contesto ostile: «Alla fine – racconta – c’era una stanza piena di carte: oltre 119 volumi di testimonianze e 20.000 pagine di prove e documenti. Agli atti, anche la testimonianza di tre generali dell’esercito in pensione, di un ammiraglio e dell’ex consigliere per gli affari cubani di Clinton e di alti ufficiali. I loro racconti hanno evidenziato l’innocenza degli imputati, eppure il tribunale li ha riconosciuti colpevoli di tutte le accuse. Per tutta la durata delle udienze, c’è stato un clima di intimidazione, pressioni fortissime dei media locali, che inseguivano i giurati con le telecamere per riprendere il numero di targa delle loro macchine ed esporli alle minacce degli anticastristi, i quali manifestavano davanti al tribunale». Risultato: cinque ergastoli a tre dei cinque agenti e altre lunghissime pene.

Dopo la condanna, i Cinque vengono rinchiusi in altrettante carceri di massima sicurezza, molto distanti uno dall’altro. «La mia sorellina – racconta adesso Ailí – ha compiuto sei anni durante un colloquio con mio padre. In carcere non può entrare niente, solo il denaro per comprare cibo all’interno, pagandolo cinque volte più caro di quel che costa fuori. Così abbiamo acquistato una piccola torta per festeggiarla e lei ci ha chiesto: “dov’è la pentolaccia?” pretendendo di festeggiare con tanti doni come facciamo a Cuba. Mio padre ha cercato di consolarla, promettendole che l’anno prossimo sarebbe stato con noi, ma lo stiamo ancora aspettando. Alla mia festa dei 15 anni – una scandenza importante per le ragazze a Cuba – lui non c’era, quando mi sono laureata ha potuto solo inviarmi un biglietto. Quando vado a trovarlo mi dice: “non pensare alle telecamere, fai come se fossimo nel soggiorno di casa nostra. Salutami con un sorriso, voglio ricordarti così per il prossimo anno qui dentro”».

Nel processo di secondo grado, durato altri 27 mesi, il 9 agosto del 2005 la Corte d’Appello di Atlanta annulla la sentenza di primo grado, riconoscendo che il contesto di Miami non ha garantito una sentenza imparziale. «Il governo, però, con un’attitudine inusuale, ha insistito perché la decisione fosse rivista in seduta plenaria dalla Corte con un procedimento chiamato ‘en banc’», spiega ancora l’avvocata Faranda. Un anno dopo, il 9 agosto del 2006, nonostante l’esplicito dissenso di due dei dodici giudici della Corte, viene così revocata a maggioranza quella decisione e la palla torna ai tre giudici, che devono deliberarte non più sulla legittimità del tribunale di Miami, ma su altri punti dell’appello.

Nel frattempo, interviene un fatto rilevante. Il 27 maggio del 2005, il Gruppo di lavoro delle Nazioni unite sulle detenzioni arbitrarie, dopo aver esaminato i documenti forniti sia dal governo Usa che dalle famiglie dei detenuti, invita gli Stati uniti a liberare i Cinque, ritenendo arbitraria la loro carcerazione, che dura da 7 anni: in violazione all’articolo 14 della Convenzione internazionale sulle libertà civili e politiche, di cui gli Usa sono firmatari. «In base alla legge statunitense – dice ora Faranda – i Cinque avrebbero dovuto tornare liberi fino a sentenza definitiva. Quello, peraltro, fu un pronunciamento storico, l’unico emesso dal Gruppo di lavoro su un caso giudicato dagli Stati uniti, un pronunciamento rimasto però inascoltato». L’undicesima sezione della Corte d’Appello di Atlanta, nell’udienza pubblica del 20 agosto del 2007, «mostra la palese inconsistenza delle prove. Eppure, il 4 giugno del 2008 vengono riconfermate le pene. Nella sentenza, si invita però la Corte di primo grado a riconsiderare alcune delle condanne inflitte».

Alla fine del 2009 – spiega la figlia di Labañino – «la stessa giudice che aveva presieduto il primo processo a Miami ha così ridotto la condanna di mio padre: dall’ergastolo più 18 anni, a 30 anni. Quella di Antonio Guerrero, dall’ergastolo più 10 anni è stata portata a 21 anni e 10 mesi più 5 anni di libertà vigilata. La pubblica accusa aveva proposto 20, ma la giudice di Miami, Joan Lenard ha ritenuto di dover aumentare. Fernando Gonzalez, anziché 19 anni deve scontarne 17 e 9 mesi. La condanna di Gerardo Hernandez è rimasta la stessa: due ergastoli più 15 anni, gli ci vorrebbero tre vite per scontarli. Ma intanto, in questa vita gli è stato vietato di vedere la moglie, nel 2005 la madre è morta senza riabbracciarlo, e quest’anno è morto anche il fratello, che era anche il suo avvocato. Gerardo e la moglie hanno superato i quarant’anni, la possibilità di avere un figlio si allontana».

Phyllis Kravitch, una dei giudici, non ha condiviso la sentenza, e lo motiva in oltre 14 pagine, nelle quali evidenzia anche l’infondatezza delle accuse di aver concorso all’abbattimento degli aerei anticastristi, imputate a Hernandez. René Gonzalez, invece, da un anno è in libertà condizionale a Miami: «I suoi avvocati – dice Ailí – hanno chiesto che potesse risiedere altrove, ma la giudice Lenard ha risposto di no. E per René vivere a Miami è ancora più pericoloso di stare in prigione: ogni giorno riceve minacce pubbliche da parte dei gruppi anticubani. Quest’anno, prima che il fratello morisse, ha avuto il permesso di venire a Cuba per 15 giorni, con il divieto assoluto di parlare con la stampa e di incontrare altre persone che non fossero i familiari. Sono riuscita a vederlo per qualche minuto. Ho cercato di non piangere. Non è tempo di lacrime, ho pensato, ma di parole forti e generose, quelle che il Che ci ha insegnato».