La frattura geopolitica in America Latina comincia in Brasile

rousseff10di Rafael Bautista S.*
da www.alainet.org 

Traduzione di Marx21.it

Pubblichiamo, come stimolante contributo alla comprensione del momento di crisi attraversato dai processi progressisti in America Latina, la riflessione di uno studioso boliviano alla vigilia della destituzione della presidente del Brasile.

Se la diplomazia aperta è concepita per il consumo informativo (dal momento che su qualcosa si deve pur informare), la politica esibita mediaticamente è concepita per plasmare l’opinione pubblica. Non ha, come missione, quella di orientare e, almeno generare una relazione critica con i fatti politici (il nuovo circo romano è virtuale); ciò su cui si informa non contiene nulla che non sia permesso per la funzione assegnata, vale a dire, ciò che si sa è solo ciò che l’amministrazione selettiva dell’informazione permette di sapere (tale controllo, certamente, non è del tutto perfetto; il suo successo è proporzionale al grado di addomesticamento prodotto). L’interpretazione dei fatti politici è, in tal modo, circoscritta entro i margini consentiti che stabilisce un potere strategico che conosce l’importanza della manipolazione dell’informazione.

La diplomazia aperta è un concetto che sintetizza la concezione aristocratica della democrazia moderna: il popolo non deve sapere ciò che è realmente in gioco. Il popolo obbedisce, non decide. Quelli che decidono sono i protagonisti della diplomazia profonda e sono gli artefici della politica reale. Ciò che si vede è solo il teatro mediatico, la tragicommedia politica; ma la trama, l’argomento,  il nocciolo della questione, non si possono esibire, se non a proprio vantaggio. Perché scoprirlo è rivelare i propositi al livello più profondo e ciò significa smascherare il potere dietro al trono.

Attualmente, la mediocrazia ha monopolizzato ogni mediazione tra l’individuo e la realtà, facendo dell’opinione pubblica il proprio patrimonio privato. L’informazione si è trasformata in una risorsa strategica di controllo politico, trasformandola nel marchio registrato di ogni fenomeno della comunicazione; però non è l’informazione, in sé, che produce conoscenza, ma la riflessione che tematizza il significato che contiene l’informazione; e neppure è il contatto diretto con i fatti ciò che permette la comprensione, ma il possedere una prospettiva, come pure l’obiettività non si misura per la neutralità ma per i criteri etici che si assumono. Allora, per avere una visione chiara degli avvenimenti, occorre superare il cerchio mediatico e smascherare i contenuti informativi che propaga la stampa, e dei quali nemmeno essa è consapevole.

Ciò che succede in Brasile non può essere soppesato a partire da ciò che viene esibito mediaticamente; tale informazione produce solo confusione e non permette di intravedere ciò che realmente è in gioco. Le denunce della corruzione governativa sono un teatro montato ad arte per gli ingenui in geopolitica, che è il modo con cui si sta definendo la nuova riconfigurazione globale. In tal senso, la possibile destituzione della presidente Dilma non è distante da tutto ciò che è venuto accadendo dal golpe in Honduras e Paraguay.

Sotto la nuova nomenclatura impiantata dalle guerre di quarta generazione, un colpo di Stato può ora prescindere dall’uso della forza militare. L’ “impeachment” rappresenta una nuova modalità del concetto di “golpe morbido”, con cui si impone lo “smart power” come una forma di riduzione delle aspettative democratiche dei popoli, senza che sia alterato l’ordine costituzionale e promuovendolo attraverso le stesse procedure istituzionali democratiche. Ciò che sembrerebbe un controsenso non è altro che la constatazione di una capitolazione giuridica di cui la sinistra continentale non ha saputo tenere conto.

Ciò che la visione economicista della sinistra latinoamericana non comprende è che il neoliberalismo non è semplicemente un modello economico. Non è politicamente che il neoliberalismo penetra nei nostri Stati ma giuridicamente. La dottrina dello shock ci dimostra come il dogma neoliberale penetra nelle nostre società ma non ci insegna come arrivi a incarnare la struttura stessa dello Stato. Ciò che accade in Brasile è la dimostrazione del modo come il regime normativo degli Stati sia catturato dal concetto di diritto che presiede l’attuale egemonia finanziaria del dollaro-centrismo.

Ciò che il marxismo dogmatico non ha ancora chiarito è che il capitalismo è impossibile senza un  carattere giuridico che renda possibile lo sviluppo della logica del capitale. Marx stesso segnalava che, in realtà, non vediamo relazioni economiche, ma vediamo queste relazioni nello specchio delle relazioni giuridiche. Senza un diritto che legittimi e giustifichi la rapina e la spogliazione (dell’essere umano e della natura) che sono, in ultima istanza, il contenuto del concetto di ricchezza moderna, il capitalismo sarebbe impossibile.

Il regime normativo che inaugura il diritto moderno-liberale è ciò che è contenuto nella soggettività moderna che promuove il capitalismo. Da Hegel, il diritto esprime la proprietà, come determinazione della libertà dell’individuo moderno; ciò significa che il diritto moderno è concepito per la difesa dell’appropriazione di ciò che era comune, e per questo il “privato” della “proprietà privata” è la privazione a cui si costringono i più per i quali era comune. E’ un diritto pensato per i ricchi. Se tale diritto struttura il regime normativo di uno Stato, allora si intende che questo Stato sviluppi unicamente una politica antipopolare.

Per questo il neoliberalismo realizza lo smantellamento dei nostri Stati e riconfigura le nostre costituzioni alla mercé del nuovo soggetto del diritto attuale: il capitale transnazionale. I nuovi trattati commerciali, come l’Alleanza del Pacifico (estensione della Trans Pacific Partnership o TPP, e del Trade In Services Agreement o TISA), sono la chiara dimostrazione di ciò, stabilendo la subordinazione degli Stati stessi a una legislazione globale che protegge da ogni reclamo di sovranità.

I nostri governi avevano originato un recupero del carattere nazionale dei nostri Stati, ma senza alterare il regime normativo che era stato impiantato in precedenza dal neoliberalismo. Ora, quando si fosse raggiunta, sebbene minimamente, la stabilità richiesta per dare impulso alle economie, è dal sistema costituzionale che si produce la ricattura del potere. Ancora una volta, la sinistra consegna in un piatto d’argento un paese alla mercé del nuovo assalto conservatore.

Qualcosa che già sarebbe dovuta essere argomento di valutazione politologica è la denuncia ostinata del presidenzialismo che è stata promossa dalla destra continentale. Una delle premesse della democrazia neoliberale, inventata dai think tanks “gringos”, è la distribuzione del potere politico, delineando attribuzioni costituzionali che potrebbero avere una guida – non disciplinata – governativa, per sviarle soprattutto sul legislativo, dove sia possibile stabilire la logica delle lobbies e, in tal modo, controllare sempre l’esecutivo. E’ la democrazia “gringa”, dove il presidente non esercita il potere, ma semplicemente lo amministra; per questo il voto è irreale, perché il presidente, sebbene prometta tutto, non può fare nulla, e il potere che sta dietro il trono agisce comodamente  dalle camere. Per questo, a tale tipo di democrazia sta scomodo che un presidente pretenda di recuperare attribuzioni costituzionali, attraverso le quali possa promuovere una radicale trasformazione dello Stato.

E’ curioso come le accuse di corruzione governativa siano sempre apparse nel momento in cui appariva la predisposizione a realizzare una “pulizia” statale. Ciò succede in Brasile ed è persino il New York Times del 15 aprile a titolare: “lei non ha rubato nulla, ma è giudicata da una banda di ladri”. Questa situazione ha preso avvio da quando Dilma, nel 2011, aveva effettuato “pulizie” negli  organismi pubblici.

Ciò che è fondamentale nell’instaurazione del neoliberalismo è il generarsi di una cultura della corruzione politica, poiché solo in questo modo gli stessi connazionali possono contribuire allo smantellamento del carattere nazionale dello Stato. In tal modo la politica si trasforma in sussidiaria dell’economia: le imprese finanziano campagne politiche per influenzare lo stesso potere politico (il potere di Eduardo Cunha al Congresso brasiliano – il principale promotore dell’ “impeachment” contro Dilma – è precisamente il potere che gli concedono i politici favoriti dal montare della corruzione che ha avuto origine da accordi con imprese legate al finanziamento delle campagne e dell’acquisto di politici, in cambio di favori e influenza legislativa per ottenere contratti pubblici e statali). Il neoliberalismo non promuove solo la deregolazione bancaria ma anche l’immoralità politica. La politica si trasforma in amministratrice del potere economico. Lo Stato medesimo si trova, una volta smantellato, alla mercé delle entrate che possono essere garantite dai settori imprenditoriali.

Questi settori, con il neoliberalismo, sono troppo compromessi con il dollaro. Di modo che i loro interessi non coincidono con il recupero del carattere nazionale dello Stato. Che Eduardo Cunha sia l’alleato principale del vice-presidente Temer è il segnale dell’orchestrazione congressuale alla ricerca  della destituzione costituzionale. Si tratta di qualcosa che può essere spiegato solo con ragioni politiche profonde e che esula da considerazioni di carattere meramente locale. Ciò che è in gioco in Brasile è il destino stesso del Sud America; non perché quanto avviene in Brasile sia dovuto alla fatalità, ma perché ciò che scaturirà dall’ “impeachment” determinerà, in futuro, il corso geopolitico di tutto il Sud America nel nuovo scacchiere geopolitico multipolare.

La destituzione di Dilma provocherebbe la successione costituzionale, vale a dire l’assunzione della presidenza da parte del suo vice-presidente Temer, che è il favorito, in questa contesa, degli interessi  statunitensi. Temer è la versione brasiliana di Macri, la cui missione immediata è, come sta dimostrando, ricollocare in Argentina un’economia allineata all’egemonia del dollaro. Non si tratta solo di destituire Dilma ma anche di liquidare Lula, allo scopo di riconvertire l’economia del gigante sud americano. Dietro tutto il teatro mediatico si trova la restaurazione neoliberale che spiega l’urgenza che gli Stati Uniti hanno di isolare il Sud America dall’influenza della Cina e della Russia e da ogni scelta che significhi, per i nostri paesi, sottrarsi all’egemonia USA.

E’ questo il fattore geopolitico. Tanto gli USA quanto la Russia hanno dichiarato il loro più che sicuro abbandono, non solo della Siria ma anche del Medio Oriente. Ciò supporrebbe non solo il dispiegarsi dei conflitti in corso in quella regione, ma il passaggio del teatro stesso della conflagrazione geopolitica globale in un’altra parte del mondo. Gli USA concentrano il loro potere bellico in Estremo Oriente, ma stanno anche concentrando i loro sforzi nel recuperare tutta l’influenza in quello che considerano il loro continente. Con la dottrina Bush, gli USA sono andati perdendo presenza in quasi tutto il mondo; l’ostinazione manifestata in Iraq e Afghanistan è costata loro la perdita del controllo sul Sud America.

Tanto l’Ucraina quanto la Siria hanno dimostrato la frattura del mondo unipolare che sta favorendo una nuova guerra fredda. Due blocchi antagonisti si affrontano in ogni conflitto che persegue la riproposizione di un mondo unipolare: da un lato gli USA, il loro braccio armato (la NATO), il loro braccio politico (l’Unione Europea) e il loro braccio finanziario (la Banca israeliana- anglosassone); dall’altro i BRICS, oltre al Gruppo di Shanghai, ma soprattutto Russia e Cina. Il Brasile è parte dei BRICS, e una unione più stretta tra Brasile e Cina rappresenterebbe la fine dell’egemonia USA in Sud America. La restaurazione neoliberale in Brasile persegue la disconnessione tra questi due giganti. Se il Brasile rischia la stessa sorte dell’Argentina, allora il futuro di MERCOSUR, UNASUR e ALBA sarà seriamente compromesso e i nostri paesi, che non possono vivere ai margini di un’integrazione economica, sarebbero alla mercé dei trattati commerciali promossi dal capitale transnazionale. L’Alleanza del Pacifico è stata concepita proprio per questo, dal momento che dentro la dottrina Obama, il punto essenziale è il contenimento della Cina. Se gli USA promuovono il contenimento nella stessa area di influenza della Cina, a maggior ragione così si comportano in quello che gli statunitensi considerano il loro cortile di casa.

A questo scopo il Council for Foreign Relations o CFR ha elaborato il concetto strategico di “North America”, in ragione del quale questa si estenderebbe fino al Venezuela, come parte dei Caraibi ampliati (che gli USA hanno sempre considerato come il loro Mar Mediterraneo). Tale concetto stabilisce la priorità del poter contare sulle risorse naturali ed energetiche che provengono dai giacimenti dell’Orinoco e dell’Amazzonia, come base materiale per garantire la riproposizione della supremazia statunitense nel continente. L’annullamento geopolitico del Sud America è essenziale per questa operazione. Ciò era chiaro al presidente Chavez (per questo era urgente che scomparisse dalla scena). Nessun altro presidente, neppure Lula, ha dimostrato simile consapevolezza di tale prospettiva geopolitica, necessaria al momento di partecipare in modo sovrano alla riconfigurazione dello scacchiere geopolitico globale.

Cancellare l’integrazione regionale sudamericana, di carattere sovrano, è fondamentale per indebolire i BRICS, soprattutto la Russia e la Cina (da Washington sono orchestrate le proteste studentesche ad Hong Kong, la destabilizzazione del Sud Africa, come pure le proteste contro la rielezione di Putin, e gli intrighi con la famiglia Saud per abbassare il prezzo del petrolio e fare implodere le economie di Russia, Iran e Venezuela); scollegare il Brasile significa isolare il Sudamerica dall’espansione del Pacifico e non permettere, in nessuna circostanza, l’ingresso in migliori condizioni, della nostra regione, nella nuova mappatura tripolare (USA-Cina-Russia) che non conviene assolutamente alla supremazia USA.

La carenza di una lettura globale del mondo in transizione ci ha fatto perdere la grande opportunità di consolidare il progetto regionale, mentre l’Impero era distratto dalle vicende in Medio Oriente. La resistenza dei popoli di Iraq, Afghanistan, Siria, Iran, ecc., ci aveva dato la possibilità di avviare una primavera democratica dalle nostre parti; ma ciò che si è ottenuto, che non è stato solo merito nostro, ora si ritrova in una congiuntura certo non favorevole, in cui le due più grandi economie del Sud America rischiano una deriva ancora maggiore che nel passato.

In questa congiuntura, in cui l’integrazione è più difficile e il procedere isolati cancellerebbe i propositi delle nostre rivoluzioni, è necessario riproporre urgentemente le prerogative dell’integrazione politica ed economica, oltre che finanziaria e regionale. Nessuno si salverà da solo. L’uscita da questa imboscata non potrà che essere comune. Le critiche all’interno dei nostri processi non possono perdere di vista il fatto che ciò che è in gioco è la sopravvivenza stessa dei nostri Stati. Se i governi sapranno dimostrare buon senso a riguardo, saranno i primi a rinunciare al proprio esclusivismo, per promuovere una nuova riconnessione orizzontale con il carattere popolare-democratico che all’inizio avevano impresso i nostri popoli, soprattutto quelli indigeni. Una nuova integrazione non può essere ridotta solo agli aspetti commerciali ma deve proporsi nei termini geopolitici del riposizionamento geostrategico della regione, per consentire in tal modo l’ingresso, nelle migliori condizioni, nel nuovo scacchiere geopolitico globale.

Così come le politiche di Macri sono insostenibili, la stessa cosa succederà con Temer in Brasile. Il nuovo modello di accumulazione finanziaria che prevedono i nuovi trattati commerciali è decisamente più spietato e solo può raggiungere gli indici che si prefigge liquidando tutte le conquiste sociali ottenute in questo periodo. Come in Argentina, ciò che si produrrà in Brasile sarà il caos (le conquiste sociali, e persino culturali, hanno rappresentato il nuovo senso comune che sarà difficile cancellare). Ma tale panorama non frena le aspirazioni del capitale finanziario, poiché le finanze, il caos e la guerra creano sempre opportunità per generare guadagni spettacolari.

Se gli USA desistono nel Medio Oriente, dal momento che non riescono a contrastare la superiorità bellica russa, gli rimarrà di assicurare il controllo sulla loro area più prossima di influenza. E se, a questo scopo, promuovono il concetto geopolitico di offensiva strategica, come quello del “Nord America” allargato, allora la liquidazione del Sud America presupporrebbe la sua balcanizzazione. Ciò rappresenta tristemente la costante di ogni riconfigurazione geopolitica: dove non esiste l’integrazione, non resta che la balcanizzazione. Quando è in gioco la sopravvivenza – persino delle potenze –, i forti non trovano altro modo per farlo se non a scapito dei più deboli. E i deboli sono tali perché, in tale situazione, antepongono le loro particolarità e non scommettono sulla loro complementazione. In un mondo condiviso, nulla è indipendente dal tutto, neanche gli imperi; si è indipendenti nella misura in cui si prende coscienza del proprio grado di dipendenza, in modo da approfittare di questa dipendenza (perché non è unilaterale) e renderla reciproca. L’indipendenza è soggettiva, vale a dire che è il tipo di relazione che instauro ciò che definisce la mia situazione.

Tale panorama è quello che si sta profilando nelle elezioni previste negli Stati Uniti. La favorita del potere finanziario e delle lobby è Hillary Clinton (quella che chiamano “Killary”) e, se l’amministrazione statunitense dovesse essere controllata dalla parte più conservatrice, che non è solo repubblicana, allora la terza guerra mondiale diventerebbe un’opzione non inevitabile. La visione provinciale “euro-gringo centrica” della diplomazia e della politica estera del primo mondo non concepisce un mondo condiviso e ammette solo la possibilità della guerra.

Tutta la propaganda attuale è concepita per legittimare una situazione limite. Le rivelazioni dei “panama papers” sono una delle tante strategie della guerra finanziaria contro i nemici del dollaro. Non è un caso che il consorzio che investiga su tali conti off-shore sia curiosamente patrocinato dalla CIA, dalla Fondazione Ford e dalla Fondazione Soros. La curiosa selezione delle informazioni  rende evidente l’interessata ricerca di personaggi dell’ “asse del male”, per rendere più scottante l’evento. Un’ulteriore funzione del circo mediatico che, pretendendo di difendere la libertà e la legalità, non trova nulla di diverso che operare un altro taglio alla libertà globale; perché questa operazione non colpisce il sistema finanziario, che ha bisogno dei paradisi fiscali proprio per evadere le leggi statali; questa operazione si propone solo di eliminare la competenza e di decretare come unici paradisi fiscali quelli che si trovano sotto la giurisdizione di USA, Gran Bretagna, Israele e Olanda e, in tal modo, di esercitare il controllo totale di tutti i movimenti finanziari globali, legali o no.

L’importanza geo-economica del Sud America è evidente nelle pretese del concetto di “Nord America”. Per una incorporazione della nostra regione, in condizioni promettenti, nel mondo multipolare, è richiesta un’apertura al Pacifico e una connessione strategica – sovrana – con il gigante asiatico. Isolatamente ciò non è possibile e i “gringos” sanno che annientando il Brasile si annienta una scommessa comune. Solo regionalmente ci si troverebbe in condizione di negoziare favorevolmente con qualche potenza, e che, al contrario, qualsiasi potenza ci assorbirebbe nel suo progetto espansivo.

Il concetto di “Nord America” presuppone l’allineamento dei Caraibi, iniziato con il golpe in Honduras, l’incorporazione del Messico neoliberale quale garante energetico di tale restaurazione espansiva, la destabilizzazione del Venezuela, il golpe in Brasile, la defenestrazione di Cristina Kirchner (dopo che aveva manifestato entusiasmo per la possibilità che l’Argentina facesse parte dei BRICS) ed anche, si può dire: cadono a proposito la sconfitta della sinistra in Perù e il terremoto in Ecuador. L’attuale guerra fredda finanziaria ha fini geostrategici contro i BRICS; e l’interesse a ridurre il Sud America al concetto “Nord America”, facendo implodere le sue tre più grandi geo-economie (Brasile, Argentina e Venezuela), rende preoccupante la nostra situazione in questa fase.

Il Sud America si trova polarizzata tra ciò che resta di ALBA e le aspettative imperiali dell’Alleanza del Pacifico. Se il Brasile è assorbito dalla restaurazione neoliberale, la sua importanza come promotore dell’integrazione regionale (cosa che, occorre dirlo, non si è mai proposto in modo deciso) si ridurrà al punto di trascinare tutti alla capitolazione. MERCOSUR sarebbe escluso dall’Alleanza del Pacifico e gli USA controllerebbero nuovamente tutto a proprio esclusivo beneficio (il CAFTA è già sotto il loro controllo). La frattura geopolitica provocherebbe una situazione di caos e destabilizzazione regionale e la possibile balcanizzazione.

Il Sud America sarebbe il luogo della definizione geopolitica globale, dove la supremazia statunitense fonderebbe le sue pretese di restaurare la propria egemonia unica e di riproporre un mondo unipolare. A tal scopo conta sulla complicità delle borghesie locali e di tutto il sistema finanziario mondiale, che è in grado di far collassare qualsiasi economia vulnerabile al padrone dollaro. Ora si comprenderà perché erano urgenti e necessari il funzionamento della Banca del Sud e il consolidamento di una moneta regionale. Solo con il recupero delle nostre riserve internazionali si potrebbe imprimere un impulso deciso alla nostra indipendenza economico-finanziaria regionale;  ciò comprenderebbe la trasformazione di tutto l’ambito giuridico imperante (mercato-centrico e dollaro-centrico), ma questo non è stato possibile proprio per la prospettiva coloniale dei nostri governi. Possono anche essere anti-neoliberali, ma la loro prospettiva non è post-capitalista. Per questa ragione tutto ciò che hanno conquistato si trova ora alla mercé della restaurazione neoliberale.

La tecnocrazia neoliberale, presente nei ministeri del settore economico e finanziario, è il cavallo di Troia che non si è saputo smascherare a tempo debito. Mentre Dilma era defenestrata, attraverso il gigante mediatico “Globo”, per avere osato pronunciarsi a favore dell’indipendenza cibernetica del Brasile, commetteva l’imprudenza di affidare a Joaquim Levy – un funzionario del FMI – le casse delle finanze brasiliane, non facendo altro che facilitargli il lavoro di sabotaggio (il che gli è valsa in seguito la nomina a capo finanziario della Banca Mondiale). Come si era reso conto il presidente Chavez – nel caso della Libia -: i nostri stessi governi venivano avvertiti che sarebbe stata imposta nuovamente la dipendenza al sistema finanziario, a causa dell’imminente collasso economico globale. Per questo, il primo mondo, grazie alla nostra dipendenza, continua a mantenere la stabilità, nonostante l’acuta crisi finanziaria. Delle guerre multidimensionali che gli USA conducono contro i BRICS, le guerre geo-finanziarie sono quelle che hanno avuto maggior successo; non diverso è il significato dello spionaggio cibernetico della National Security Agency alla PETROBRAS e che ha messo il Brasile in ginocchio quando rivelò i suoi conti segreti. Anche le sanzioni economiche contro paesi determinati sono state più efficaci del potere militare.

Come uscirono dalla recessione quelli che in seguito furono i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, vale a dire gli Stati Uniti? La guerra è stata sempre, nel mondo moderno, il campo delle opportunità più appetibile dell’ambito finanziario. Ciò che è grave nel nostro presente è che  una conflagrazione globale tra potenze, passa per l’uso delle armi nucleari. Anche ciò entra nei calcoli imperiali nel momento in cui promuovono lo sviluppo di bombe atomiche tattiche, che sono munizioni nucleari di piccola dimensione, che si crede diminuiscano i rischi dell’utilizzo dell’arsenale nucleare di maggiori dimensioni, senza tenere in considerazione la pericolosità che deriverebbe dall’uso massiccio delle armi di carattere tattico.

Il concetto di “Nord America” è la chiara risposta alla nuova visione strategica nata nella Scuola Geostrategica del Brasile, nel 2008, e che si è manifestata nella cosiddetta “Strategia Nazionale di Difesa”, con in considerazione gli ambiti nucleare, spaziale e cibernetico e della configurazione di due aree strategiche: l’Atlantico del Sud e l’Amazzonia. Tale strategia richiama, doverosamente, gli interessi legati alle questioni della sicurezza nazionale e della difesa. Ciò che avrebbe dovuto promuovere UNASUR, nei suoi migliori momenti, ora pare costituire solo un aneddoto. Quest’anno, il Brasile ha annunciato, per mezzo del suo ministro del Commercio, l’accettazione di pagamenti, da parte dell’Iran, in divise che non siano il dollaro, allo scopo di eludere le sanzioni economiche degli USA. Il sistema finanziario globale può accettare il commercio sud-sud, ma se ciò comporta farlo ai margini del dollaro, allora la reazione non si fa aspettare.

La corruzione, l’ “impeachment”, la destituzione di Dilma, ecc., sono parte del circo montato per il grande pubblico. Ma ciò che è in gioco in questo circo è altra cosa. Il destino di tutto il Sud America è in gioco, mentre si incentiva, anche mediaticamente, la disillusione e il disincanto per i nostri processi (che vanno ben al di là delle vicissitudini dei governi del momento). Il risultato di ciò che accadrà in Brasile segnerà la posizione geo-strategica, sia di ripiegamento che di espansione, del BRICS. Se il Brasile cade, la supremazia statunitense avrà la possibilità strategica di affrontare le potenze emergenti e potrà contare, nuovamente, sulle nostre risorse, per la riconquista del mondo.

*Rafael Bautista S. è autore di “la Descolonización de la Política. Introducción a una Política Comunitaria”. Dirige il “taller de la descolonización” a La Paz, Bolivia
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