Jorde Giordani: «Gli Usa non possono permettere il nostro modello alternativo»

Intervista a Jorge Giordani , ministro delle finanze del Venezuela e “gramsciano” | da il Manifesto

 

jorge-giordani-abn-grJorge Giordani, ministro della pianificazione e della finanza (foto), è unanimemente considerato l’autorità più importante del governo venezuelano dopo il presidente Chavez. Ci riceve nel suo studio al ministero, tra un quadro del «comandante» e uno di Bolivar, tra un ritratto seppiato di Lenin e una pila di grafici, formule e proiezioni a cui attinge a ogni nostra domanda. Economista, scrittore e saggista, studioso di Gramsci, ha scritto numerosi libri e costruito l’ossatura della politica economica bolivariana. Buon conoscitore dell’Italia, ricorda volentieri il periodo di studi a Bologna e l’impegno politico del padre italiano. «Mio padre – racconta – fu membro della Brigata Garibaldi, nella guerra civile spagnola perse una gamba combattendo contro i fascisti. Mio fratello nacque in Spagna, quando Franco prese Barcellona e i miei scapparono, un soldato lo mise sotto la camicia per fargli passare il confine con l’Italia, dove mio padre partecipò alla resistenza. Durante l’avanzata di Hitler, che stava chiudendo l’Europa, fuggirono di nuovo. Non potevano andare né in Argentina, né in Messico, perché le due frontiere erano chiuse. Così finirono a Santo Domingo, dove sono nato io. Con l’arrivo del dittatore Trujillo, la cui specialità era gettare gli oppositori in pasto ai pescecani, siamo venuti in Venezuela. Nel ’59 noi studenti accogliemmo Fidel che aveva vinto con la rivoluzione cubana e che portava con sé un vento di liberazione. Insieme al capitano Jimenez Moya, che aveva combattuto nella Sierra con lui, organizzammo un’invasione a Santo Domingo partendo da Cuba. L’evasione fallì e così io, che facevo parte del secondo gruppo, non partecipai. Avevo 18 anni. Subito dopo, lasciai una lettera a mio padre e partii per l’Italia con un passaporto falso su cui era scritto “apatride”». Dalle strade di Caracas arrivano gli echi degli imminenti festeggiamenti per il 4 febbraio, che ricorda la ribellione armata dell’allora tenente colonnello Hugo Chavez al governo del socialdemocratico Carlos Andres Perez, nel 1992.

 

Come ha conosciuto il comandante Chavez?
Il 26 marzo ’93 insegnavo all’università. Insieme a un gruppo di persone preoccupate per l’avvenire del paese dopo la rivolta dell’89, il Caracazo, discutevamo sul da farsi e stilammo una proposta. Qualcuno di noi aveva già conosciuto Chavez, che era in prigione dal 4 febbraio dell’anno prima dopo il fallimento dell’operazione Ezequiel Zamora. Chavez ci invitò a discutere. Lo andammo a trovare in carcere. Prima di uscire, lui mi disse che aveva letto alcuni miei libri e che mi stava cercando da tempo. Io risposi: meno male che non mi ha trovato, altrimenti sarei anch’io dietro le sbarre… Dottore in scienze politiche, l’allora tenente colonnello stava per finire il suo corso post-laurea all’università Simon Bolivar. Mi chiese se volevo seguirlo nella tesi. Accettai, e quello fu il mio secondo sbaglio, dopo quello di andarlo a trovare. E da lì, una catena di “sbagli” intenzionali: quando l’anno dopo uscì di prigione, lavorai con lui. Mi propose di coordinare il programma di governo che lo porterà a vincere le elezioni, nel ’98, a cui abbiamo lavorato insieme al professor Hector Navarro.

 

Come si è costruita la politica economica bolivariana?
Il primo documento, a cui abbiamo lavorato insieme al comandante, è stato pubblicato nel luglio 96. S’intitolava “Un’alternativa bolivariana”. Poi è venuto il primo programma di governo per le elezioni, vinte nel dicembre del ’98 e che hanno portato Chavez alla presidenza il 2 febbraio del 99. Sono già 13 anni… Allora ereditammo una situazione economica disastrosa, non avevamo neanche i soldi per il bilancio. Guarda questo grafico. Guarda lo sviluppo che abbiamo realizzato sul piano economico, politico, internazionale. Nonostante il golpe del 2002, il sabotaggio petrolifero e gli effetti della crisi internazionale, per 22 trimestri successivi la crescita dell’economia venezuelana è stata continua. Nei prossimi 6-7 anni prevediamo una crescita tra il 5 e il 6%. Nel 2000 abbiamo presentato un’altra proposta, con la quale Chavez ha rivinto le elezioni. Dopo un primo piano socialista per il 2001-2007, c’è stata una seconda proposta che ha programmato la politica economica fino al 2011. In questa settimana sarà resa pubblico il piano 2013-2019. I punti fondamentali sono sette: una nuova etica socialista, la felicità sociale (un concetto che ci viene da Bolivar), la democrazia «protagonica» rivoluzionaria che è un portato della nostra costituzione, la costruzione di un modello produttivo socialista, una nuova geopolitica nazionale, la consapevolezza di essere una potenza energetica a livello mondiale e una nuova geopolitica internazionale.

 

Quali sono i motori del “proceso bolivariano”?
Per prima cosa il petrolio, il nostro continua a essere un paese rentier. Per quest’anno, si prevede una forte rendita del petrolio, anche con una tecnologia al 20% com’è la nostra. In secondo luogo, la costruzione di case che – oltre alla soddisfazione di avere un tetto sulla testa – ha consentito una crescita del 10%. Il terzo punto, e per noi il più importante, è la crescita qualitativa in termini di investimento totale sulla salute, l’educazione, la casa. Il totale dell’investimento sociale nei dieci anni precedenti il governo Chavez era di circa il 37%, il nostro è il 62%. Questo si riflette nella realizzazione dei cosiddetti obbiettivi per il millennio, in primo luogo la diminuzione della povertà estrema e nell’indice di Gini, che misura le disuguaglianze sociali: il Venezuela è il paese dell’America latina in cui la distribuzione del reddito è la meno diseguale. Lo zoccolo di povertà estrema, al 7%, è comunque difficile da intaccare, per questo sono state recentemente create altre grandi missioni sociali, come Amor mayor, rivolta a fornire assistenza pensionistica a tutti gli anziani, anche a quelli a cui non erano stati versati i contributi, e corrispondente al salario minimo. Per favorire tutto questo, dopo la crisi finanziaria del 2009, abbiamo varato nuove leggi per il mercato della valuta, dell’assicurazione, della banca, una riforma finanziaria per consentire al flusso di valuta esterna di essere reinvestito nell’infrastruttura e nei progetti sociali. Abbiamo riconvertito una banca privata in un fondo per lo sviluppo. Aprendo un credito speciale con la Cina, in gran parte pagato, abbiamo incrementato lo sviluppo industriale, le infrastrutture, foraggiato il settore privato che non ripaga in termini di investimento e produttività. Se l’opposizione tornasse al potere, tutto questo verrebbe spazzato via. Gli Usa non possono permettersi di vederci crescere con un modello alternativo. Oggi abbiamo finito di riportare in patria tutto il nostro oro. Questo forma la nostra base sociale, i fondamenti della nostra società e ci permette di pensare a un secondo gradino, allo sviluppo delle infrastrutture, alla modernizzazione del paese, allo sviluppo della sovranità e dell’indipendenza nazionale e continentale. Sabato (oggi per chi legge, ndr) si inaugura il vertice dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America.

 

Un paese con un tasso di inflazione altissimo.
Anche l’inflazione è un fatto strutturale, dipende da molti fattori. Noi la definiamo inerziale, nel senso che è un portato degli anni precedenti in cui nessun governo – dagli anni ’80 a oggi – ha potuto fare niente. Guarda questo grafico, che fotografa bene la situazione in termini di tendenze economiche nell’arco di sessant’anni. All’inizio degli anni ’80 s’è prodotto un punto di frattura determinante per via della partenza dal paese dei grandi capitali finanziari, che non è iniziata con il governo Chavez. Questi capitali non torneranno più, si sono integrati a quelli internazionali. E’ quello che possiamo definire il collasso del capitalismo rentier, uno smottamento sismico che ha ridotto l’investimento del settore privato, la rendita petrolifera ne ha subito gli effetti. Noi abbiamo subito gli effetti del “venerdì nero” venezuelano, dell’economia neoliberista nelle due decadi perdute degli anni ’80-90. Eppure negli ultimi 22 mesi, la nostra economia ha continuato a crescere. Mentre il capitalismo licenzia e taglia le pensioni, dagli Stati uniti all’Europa, noi abbiamo anteposto gli interessi dell’essere umano a quelli del profitto. E non torniamo indietro. Malgrado lo sforzo del governo per sviluppare le nostre vaste aree agricole, purtroppo non siamo ancora autonomi nel settore alimentare, sono 40 gli alimenti che producono l’inflazione a livello nazionale. Da noi si dice “sembrar petrolio”: si è preferito comprare all’estero e spostarsi nelle città piuttosto che rendere produttive le campagne. Ora cerchiamo di invertire la tendenza, anche sviluppando un’economia, tendenzialmente alternativa al petrolio, che favorisca la produzione di beni intermedi.

 

Che cos’è il socialismo bolivariano che tanto spaventa i poteri forti internazionali?
Un sistema misto. Nel nostro ultimo piano abbiamo previsto uno spazio per l’economia privata: per quella produttiva, non speculativa. Da noi il settore privato è un settore parassitario, che negli ultimi trent’anni ha mantenuto un livello produttivo che non supera il 10%. Per questa fase di transizione al socialismo, vorremmo mantenere un certo equilibrio fra l’investimento privato – nella piccola e media impresa e nelle cooperative -, la proprietà di stato e quella comunale. Vorremmo che quest’ultima, in tendenza, crescesse fino a ridurre e sostituire le altre due. Nel frattempo, cerchiamo di favorire un’alleanza virtuosa fra lo stato e i piccoli imprenditori che intendono investire nel paese. In una prospettiva gramsciana.