Il Brasile nell’occhio del ciclone

dilma em nova iorque81165di Marcos Aurélio da Silva*da Vermelho

Traduzione di Franco Tomassoni per Marx21.it

Il cambio di marcia a sinistra che, forte di 4 vittorie elettorali del PT con il grande appoggio dei comunisti (più precisamente del PCdoB) e di altre forze di sinistra, ha segnato il Brasile negli ultimi 12 anni, oggi è chiaramente minacciato.

Era chiaro sin dal principio che il programma socialista del PT, ben rappresentato dall’affermazione della “proprietà sociale dei mezzi di produzione” non avrebbe prevalso, fatto che si spiega con la composizione politica e sociale del fronte che ha condotto all’elezione del governo Lula 2002 – 2006. Agli operai delle vecchie regioni industriali, alla funzione pubblica, ai “sem terra” e ad un vasto gruppo di sottoproletariato localizzato nelle regioni più povere (che ha aderito al fronte politico guidato dal PT solo dopo il 2006), si sommano una parte della piccola borghesia urbana, i liberi professionisti di orientamento liberista, e anche una parte dell’imprenditoria nazionale, ceti massacrati dalle politiche neo-liberiste degli anni 90.

È in questo quadro chi si può comprendere la convivenza di politiche progressiste – l’aumento di oltre il 70% del salario minimo reale, politiche progressiste per gli afro discendenti o di appoggio agli studenti più disagiati nel settore dell’istruzione pubblica, o ancora, programmi di protezione del lavoro e della produzione nazionale (al punto di provocare reazioni degli oligopoli dell’UE dentro l’Organizzazione Mondiale del Commercio) – con politiche di altra natura.  Queste sono rappresentate dagli alti tassi d’interesse della Banca Centrale, tra i maggiori al mondo, dai tagli ciclici alla spesa pubblica, dalla riforma della previdenza sociale che ha impattano sui diritti che dovrebbero essere garantiti dal settore pubblico o la corrosione delle pensioni. In sostanza, politiche che interessavano al campo borghese che compone questa coalizione, che è opportuno sottolineare, non controlla solo una importante parte dell’apparato produttivo nazionale, ma ha anche molti interessi nei settori legati alla rendita sviluppati negli anni 90.

Tuttavia è necessario considerare il cambiamento politico che questa composizione cosi articolata di governo ha generato in Brasile. La tesi secondo cui i governi del PT si sono dati mani e piedi al neoliberismo, o come alle volte si preferisce dire, tenendo a mente Gramsci, ai dettami della contro-riforma e della piccola politica, è completamente falsa. Non solo le politiche sociali sopra riferite la smentiscono – la teoria neoliberista non ammette che lo stato interpreti la questione sociale e considera la “fame più disperata” come “fatto privato dell’individuo che la soffre e del suo eventuale benefattore” –  ma anche la politica estera, attuata in piena sovranità, chiaramente occupata dalla “statura dello stato nei confronti reciproci”, come disse Gramsci definendo la grande politica, o dalla lotta di classe nella sua dimensione diplomatica e geopolitica, secondo una tesi recentemente difesa da Losurdo. E questo avviene in un quadro che non riguarda isolatamente il Brasile, ma tutto un congiunto di paesi latino-americani che nel nuovo secolo hanno visto nascere governi di sinistra in molti casi con programmi dichiaratamente socialisti. Basta appena considerare il tentativo di porre fine allo storico isolamento delle economie del sub-continente, ad esempio il ruolo svolto per l’allargamento del Mercosul (con l’integrazione del Venezuela), la creazione di Unasul e gli investimenti dislocati in vari paesi della regione. Ma è anche opportuno riconoscere l’importante ruolo svolto per la definitiva cancellazione dell’ALCA – progetto di integrazione continentale promosso dagli USA – , la permanente difesa della fine dell’embargo a Cuba e l’appoggio alla sua reintegrazione nella comunità americana, così come i legami di amicizia e protezione con molti paesi progressisti latino-americani anche in momenti molto difficili come durante i tentativi di golpe in Honduras e Paraguay. Inoltre, si tratta di un movimento geopolitico che non si limita alle sue frontiere geografiche immediate come si può notare dal riconoscimento dello stato palestinese, dal respingimento del blocco economico contro l’Iran, e più recentemente il forte impulso alla banca dei BRICS, antagonista diretto degli interessi finanziari promossi dalle istituzioni che garantiscono il dominio imperialista (FMI e Banca Mondiale).

Ma cosa è che spiega che il Brasile sia oggi nell’occhio del ciclone di una crisi politica di grandi proporzioni? È opportuno soffermarsi un po’ più a fondo sulle caratteristiche della coalizione di governo che si è formata a partire dal 2002. Data la composizione eterogenea di questo fronte politico il cammino in direzione di politiche democratiche e popolari non è mai stato tranquillo. Questo è dimostrato non solo dai limiti nell’ambito delle politiche sociali ed economiche a cui si è già accennato, ma esistono anche forti esitazioni nell’ambito della politica estera, come si può vedere dall’adesione di alcuni ministri del governo Dilma, legati alla borghesia agro-industriale, all’ALCA, respinto solo grazie alla decisiva azione del corpo diplomatico. Queste contraddizioni, figlie di questa composizione eterogenea affiorano con tutta la loro forza nel governo Dilma.

Conosciuta come una convinta sviluppista, ferma oppositrice dell’eredità degli interessi sulla rendita, “rentisti”, ricevuti in dote dai lasciti del neo-liberismo, Dilma ha raccolto la sfida di portare avanti, nel primo anno del suo secondo mandato, una forte riduzione dei tassi d’interesse. L’operazione, appoggiata dai sindacati e si presume dagli impresari, tuttavia non è riuscita a concretizzarsi. In poco tempo ricatti inflazionistici alimentati da una struttura industriale in cui permane un alto grado di monopolio, hanno condotto alla ripresa degli alti tassi d’interesse. Allo stesso tempo il progetto di recupero di investimenti in differenti settori come quello infrastrutturale urbano e regionale, molto carenti, non sono d’interesse per la borghesia industriale, che si associa alla critica dei regolamenti amministrativi richiesti dal governo relativamente alle tariffe, e quindi ai tassi d’interesse. Sicuramente, per capire questa esitazione da parte del padronato si deve prendere in considerazione i ritardi da parte del governo nel lanciare un piano di investimento che facesse spostare il modello di accumulazione dell’economia nazionale, dal consumo popolare – già esaurito dopo anni di crescita – verso il settore infrastrutturale a livello urbano e regionale. Ma ancora più importante da sottolineare è che una parte sostanziale della borghesia brasiliana, oggi con i caratteri cosmopoliti che da sempre la caratterizzano ancora più marcati, è distante, come già detto, dagli interessi produttivi.

Ed ecco che il 2013 si presenta come un anno decisivo. È l’anno in cui si sviluppano grandi conflitti sociali che pongono in causa i successi elettorali. I fatti che conducono a questo cambiamento di scenario sembrano essere: 1) le forze produttive nazionali associate alle infrastrutture urbane e regionali – le quali non possono essere viste, come farebbe l’economicismo già criticato da Gramsci, senza porre attenzione ai rapporti di produzione – mostrano una carenza già da anni e non hanno investimenti; 2.) il mercato del lavoro delle grandi metropoli, in forte crescita e marcato da un aumento dello sfruttamento, è segnato da una grande presenza di proletariato con bassa esperienza politica e sindacale; 3) il partito di governo, tradizionalmente radicato nel proletariato industriale e nella funzione pubblica, e che oggi paga le sue tendenze trasformiste, conduce la propria politica con accordi sottobanco con alcuni settori che compongono la coalizione di governo, senza il sostegno della lotte di massa all’interno della società civile, che hanno marcato la sua traiettoria sin dall’inizio; 4) come effetto di questo trasformismo, questa società civile si trova sotto l’egemonia di movimenti di natura libertaria e spontaneista, con una grande presenza nel movimento studentesco e nelle università statali; 5) nel luglio del 2013 questi movimenti iniziano una grande protesta sul tema del trasporto pubblico a San Paolo, città governata da una coalizione PT – PCdoB; 6) così divisi, i movimenti di protesta e le organizzazioni politiche di sinistra, conoscono un grande attivismo di una destra apertamente fascista, organizzata tramite le reti sociali e supportata dai grandi mezzi di comunicazione, che riesce ad organizzare in tutto il paese ampli strati della popolazione contro il governo, con la partecipazione di larghi settori della classe media e del nuovo proletariato urbano; 7) a partire da questo momento iniziano, in strada e nelle piazze, le manifestazioni di ira contro le organizzazioni di sinistra, vengono pubblicamente strappate ed incendiate le loro bandiere, e vengono aggrediti i loro militanti – è in questo momento che vengono ostentatamente alla luce le richieste di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff, accusata frequentemente di corruzione da una forte campagna mediatica tutta orientata contro il governo.

Questo è il quadro prevalente che si sviluppa nella sfera politica brasiliana durante l’anno dei mondiali di calcio – e anche durante la campagna elettorale che portò ad una nuova vittoria del PT, questa volta con un margine stretto del 3% -quando compaiono nuove proteste, anche fortemente anticapitaliste, ma guidate da quello spirito di “pandistruzione” che Gramsci critica in Bakunin.

È chiaro che per la comprensione di questo quadro non può essere dimenticato il ruolo svolto dagli interessi imperialisti. Non si fa riferimento solo ai ben noti finanziamenti alle organizzazioni di destra da parte delle imprese statunitensi con interessi nel settore petrolifero, ma anche allo spionaggio condotto dalle agenzie americane di intelligence sull’impresa petrolifera statale, e anche quello condotto contro la Presidenza della repubblica. In tempi “normali”, ricorda Gramsci, la divisione internazionale del lavoro deriva fondamentalmente dalle scelte della classe dirigente interna. Di fatto continuando con le categorie elaborate dal comunista sardo, se gli intellettuali di sinistra che formano parte del governo del  PT esercitano una precisa funzione nazionale – il che, anzi, porta dentro questo processo, con tutte le sue contraddizioni, i caratteri di una rivoluzione passiva, forse di natura intermedia e non di una contro-riforma –  chi trae forza dall’impopolarità del governo sono quei partiti di destra che rappresentano gli interessi della borghesia cosmopolita brasiliana, quei settori più legati agli interessi imperialisti. Il programma di questo settore non è nulla di più che quello di abbandonare il Mercosul e l’Unasul per tornare all’ALCA e aprire l’economia brasiliana agli interessi imperialisti, con particolare attenzione al settore petrolifero (come dimostrano le conversazioni di questa élite con le imprese petrolifere nord-americane). Fondamentalmente questo significa la destrutturazione dell’apparato produttivo nazionale e della nuova posizione, successiva al periodo in cui l’economia brasiliana è stata fortemente marcata dal neo-liberismo, ottenuta dal Brasile nella divisione del lavoro internazionale. È stato proprio questo processo riorganizzativo che ha permesso al Brasile di aumentare i posti di lavoro e di ridurre la povertà e le disuguaglianze sociali. Questi avanzamenti sono già posti in causa dal successo della destra nelle passate elezioni parlamentari passate, come possiamo ben notare dai progetti di legge già approvati o in discussione nel Congresso Nazionale: l’aumento del lavoro in appalto e con contratti precari, la sconfitta delle proposte di legge per ampliare la presenza delle donne nella vita politica del paese o il progetto, apertamente fascista e reazionario, chiaramente orientato contro il pensiero marxista, di impedire nelle università discussioni di carattere ideologico, che prevede come pene dalle sanzioni amministrative fino al carcere.

Che sviluppi possiamo immaginare a partire da queste considerazioni? Sono due le ipotesi più evidenti al momento; 1. O l’impeachment di Dilma (di fatto un golpe bianco condotto secondo la ricetta honduregna o paraguaiana), motivato da una ondata di accuse di corruzione diretta contro la Petrobras, favorito dalla disinformazione che marca fortemente la società brasiliana, risultato dell’egemonia dei settori più di destra della borghesia, egemonici nei mezzi di comunicazione e nel settore della giustizia; 2) l’indebolimento del Governo del PT fino alle elezioni del 2018, in cui i settori di sinistra potranno ancora contare sulla candidatura dell’ex presidente Lula (anch’egli già sotto attacco da parte del potere giudiziario).

Vinceranno le forze “cosmopolite” e inizierà un ciclo di diretta sottomissione agli interessi dell’imperialismo con conseguenze nefaste per l’ordine geopolitico regionale e per il blocco mondiale in via di definizione dei BRICS? Dilma Rousseff, che ha commesso nel 2015 lo stesso errore del 2011 (ampli tagli alla spesa, con conseguenze perverse sui contratti e sulla creazione di nuovi posti di lavoro), manterrà la base sociale di appoggio che le ha garantito la vittoria elettorale e l’appoggio dei movimenti di massa  In altre parole, saranno capaci, il governo ed il PT, di abbandonare le politiche equivoche così da mantenere i legami con le classi subalterne che stanno alla base del suo blocco sociale sin dal principio e che lo hanno reso un grande partito di massa e democratico? Potrà questo processo rilanciare in avanti il progetto nazional–popolare fino ad oggi  attuato con profonde contraddizioni? Cioè, le forze del PT saranno in grado di superare la rivoluzione passiva fino ad oggi predominante, per fare un salto verso l’affermazione degli elementi di programma socialista difesi dallo stesso PT e dai suoi alleati della sinistra e comunisti? Sapranno, i vari settori della sinistra brasiliana in virtù di una unità oggi più che mai necessaria, sviluppare un programma socialista per il Brasile di oggi che implichi, dentro una comprensione profonda delle tendenze di fondo del blocco nazionale, una visione prossima a quanto elaborato da G. Lukacs nelle tesi su Blum, in cui sottolinea che “la rivoluzione proletaria e la rivoluzione democratico-borghese, nella misura in cui si tratti di rivoluzioni reali, non possono essere separate da una muraglia cinese”? Sarà possibile, come condizione per avviare questo programma, egemonizzare la borghesia brasiliana che ancora difende interessi nel settore produttivo esercitando cosi una funzione nazionale?

Mai come oggi sembra che abbiano tanto valore, per la sinistra brasiliana, le parole con cui Gramsci criticava il “non impegnarsi fino in fondo” delle attitudini riformiste: unire un “pessimismo della ragione” con un chiaro “ottimismo della volontà”.

*Marcos Aurélio da Silva è professore della UFSC, Florianópolis

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