Accuse di “LAVORO FORZATO” in Xinjiang (I parte)

di Maria Morigi

In altri articoli ho trattato le infamanti accuse di genocidio, sterilizzazione forzata, discriminazione etnica, educativa e religiosa praticate da parte della Cina sulla popolazione dello Xinjiang. In questo articolo tratterò il tema di lavoro, reddito e previdenza così come un semplice osservatore percepisce dalla realtà o evince dalla lettura di misure governative e disposizioni legislative. Sono, infatti, incredibili i pregiudizi che affiorano sul tema, proprio perché stiamo parlando di uno Stato dove il Socialismo punta alla piena occupazione quale strumento di riscatto dalla povertà e dove le politiche sul Lavoro sono continuamente implementate e migliorate. D’altronde già nei miei primi incontri con la Cina e con lo Xinjiang, molti anni fa avevo osservato come in lavori pubblici -dalla cura delle aiuole spartitraffico, raccolta dei rifiuti, semplici lavori di mantenimento di siti storici e moschee, fino ai cuochi nei ristoranti della catena “Socialismo reale”- il numero degli addetti/occupati fosse incredibilmente più alto rispetto a quello che succedeva da noi, almeno 80% in più. Cioè se il direttore di progetto chiedeva 2 imbianchini per ridipingere il muro… l’amministrazione ne mandava 10, anche se il muro era di pochi metri. Alla faccia del lavoro forzato!

Uno sguardo storico alle motivazioni delle accuse

La diffidenza occidentale che traspare nelle accuse di lavoro forzato, è alimentata da alcuni fatti storici e oggettivi che, compresi in modo distorto, sono diventati pregiudizi: 1) politica demografica di immigrazione Han; 2) politica nei confronti delle minoranze etniche; 3) esistenza in Cina di un Diritto del Lavoro e di una normativa continuamente aggiornata. Argomenti su cui si sono accavallate informazioni parziali, critiche pesanti e soprattutto tanta malafede. 

1) Alla fondazione della RPC nel 1949, la politica migratoria governativa fu la strategia utilizzata da Pechino col fine di creare sviluppo e rendere più solida l’unità statale. Nel periodo 1949-’85, gli immigrati Han nello Xinjiang erano per lo più cittadini-soldato dei Corpi di Produzione e Costruzione dello Xinjiang (XPCC o Bingtuan)[1], ex soldati smobilitati ed insediati nelle zone di confine sino-sovietiche. Dopo essere stati aboliti nel 1975, a partire dagli anni Ottanta, i Corpi ebbero nuovo impulso e ricevettero incoraggiamento nel 1999, sotto la presidenza di Jiang Zemin, con la campagna Xibu da kaifa (“Sviluppare le regioni occidentali”). Attualmente i Corpi in Xinjiang hanno una struttura amministrativa di tipo cooperativo (14 divisioni) e 10 insediamenti di medie dimensioni, sono integrati nella piena trasparenza sulle politiche in ogni settore e partecipano ad attività economiche (industria alimentare, agricoltura, commercio, distribuzione, settore immobiliare e turismo) assicurando un quarto della produzione industriale e controllando un terzo della superficie coltivabile. Sotto la sigla China Xinjiang Group hanno filiali quotate in borsa e sono sovvenzionati per l’80% direttamente dal governo.

2) Relativamente alla politica etnica, dopo la svolta promossa da Deng Xiaoping nel 1978, la politica cinese si basa sulla volontà di preservare e favorire lo sviluppo delle etnie (56 in totale e 13 riconosciute nel solo Xinjiang), permettendo a ciascun gruppo di progredire verso la “modernità socialista” con il proprio passo. Questa politica applica misure di ‘facilitazione’ nei confronti delle minoranze: accesso preferenziale al lavoro, educazione, uffici politici, esenzioni graduate dalle tasse, diritto a preservare e praticare lingua, cultura e religione. Il programma di promozione della coabitazione interetnica e dell’unità nazionale, rafforzato a partire dal 1982 (Costituzione, Art. 4 dei Principi Generali), ha generato risultati di sviluppo e ha convinto il Popolo cinese della validità degli “Inseparabili Legami” tra etnie. Seguendo l’eredità culturale della tradizione cinese, si è cercato di rafforzare le vocazioni lavorative in un quadro di coesistenza pacifica. 

3) Il salario minimo è stato introdotto in Cina nel 1993, all’interno della riforma del lavoro che abolì il sistema della “ciotola di riso di ferro” (contratti a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento, ovvero il sostegno a vita che lo Stato socialista offriva ai lavoratori e alle loro famiglie). Una nuova Legge sul Lavoro della Repubblica Popolare Cinese (VIII Sessione del Comitato Permanente dell’VIII Congresso Nazionale del Popolo del 5 luglio 1994) fu il risultato dell’introduzione dell’economia di mercato nel Paese, mirata a soddisfare l’esigenza di offrire regole paritarie e principi comuni. Dal 2004, con il Regolamento sul salario minimo, motivato dal minore flusso di forza lavoro proveniente dalle campagne e dalla scarsità di manodopera, il Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale ha dato il via al sistema del salario minimo garantito. Negli ultimi dieci anni gli aumenti dello stipendio minimo si sono fatti sempre più consistenti. Nello Xinjiang, ad esempio, nel 2014 il salario minimo ha avuto un incremento pari al 15%. 

La previdenza sociale già nel 2008 copriva praticamente tutta la popolazione: circa un milione di residenti aderiva ad almeno uno dei cinque principali piani assicurativi: pensionistico, di disoccupazione, medico, di maternità, di assistenza e infortunistica nel luogo di lavoro. Lo Stato ha anche garantito sussidi alle imprese agricole in difficoltà. Relativamente a reddito e politica salariale, nel 2017, stando alle cifre governative, l’economia dello Xinjiang è cresciuta del 7,6% con un reddito disponibile pro-capite in aumento dell’8,5% . Nel 2017 il reddito disponibile pro-capite ha avuto un incremento del 10,1% e del 9,9% in termini reali[2].

Tra le tipologie di lavoratori e nell’ambito di coloro che aspirano ad un’occupazione stabile ma spesso non hanno un’ appartenenza etnica precisa, esiste la figura del migrante rurale, che in Xinjiang si chiama Musapir o “viaggiatore”. Nella società tradizionale il Musapir era una specie di nomade senzatetto, di solito aderente all’Islam che fa capo al Sufismo; oggi è un migrante urbano-rurale a basso reddito, che poco o nulla conosce la lingua cinese, privo di hukou (cioè il permesso di residenza), per lo più giovane, maschio e religioso, tanto da affiliarsi alla comunità di una moschea per essere assistito e trovare lavori provvisori. Una categoria che sembra sfuggire a rilevazioni ufficiali e che lo Stato, preoccupato per il terrorismo, tenta di tenere sotto controllo anche con l’offerta di sistemazioni lavorative.

Con l’avvento dell’economia di mercato gli Uiguri non ottengono sempre in loco i migliori posti (per salari e status) benché abbiano un’istruzione o una formazione comparabili a quelle degli Han, ma vengono piuttosto premiati se si trasferiscono a Pechino o in altre grandi città fuori dallo Xinjiang. L’irruzione dell’economia di mercato, insieme al riconoscimento della componente privata nell’iniziativa aziendale, hanno determinato conseguenze sociali che il governo cerca di monitorare e correggere con interventi che fanno proprie le istanze provenienti dalle Assemblee di base. Con frequenza significativa inoltre si tengono seminari e convegni per mettere a punto o migliorare progetti relativi al tema del Lavoro e della Formazione, proporre esperienze di interscambio e di mobilità premiante per lavoratori ed imprenditori.

Pechino ribatte alle accuse

La X Conferenza stampa della Regione autonoma dello Xinjiang Uygur a Pechino 06/06/2021 ha affrontato il tema del “lavoro forzato” davanti ad una platea di media internazionali e ai rappresentanti di sindacati e settori industriali[3]. Va notato che gli interventi sono incentrati nell’affermare che i diritti del lavoro (retribuzione, riposo, ferie, sicurezza sul lavoro, tutela della salute, prestazioni di assicurazione sociale) e gli interessi delle persone di tutti i gruppi etnici (credo religioso, cultura, lingua) nello Xinjiang sono garantiti in conformità con la Costituzione della RPC e le leggi sul Lavoro. Va sottolineato anche che da noi in Occidente non giunge eco di queste iniziative in quanto la nostra luminosa Democrazia non ha tempo da perdere e le etichetta come NON necessarie per l’informazione!.

Introduce i lavori Xu Guixiang, portavoce del Governo popolare della regione autonoma di Xinjiang Uygur, affermando che Il cosiddetto lavoro forzato non è altro che una ipotesi falsa fabbricata negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali da organizzazioni e individui anti-cinesi. “In precedenti conferenze e in altre occasioni abbiamo fatto dichiarazioni solenni ed esposto le loro bugie, ma le ostinate forze anticinesi in Occidente insistono nel diffondere voci e provocare intenzionalmente conflitti su palcoscenici internazionali.” Il relatore sottolinea che all’inizio del 20°secolo, il colonialismo promosso dalle potenze capitaliste ha portato con sé lavoro forzato su larga scala e schiavitù. In questo contesto, l’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro delle N.U.) ha sollecitato i suoi Stati membri a formulare una serie di convenzioni, di conseguenza la RPC ha preso come esempio la Convenzione sul lavoro forzato, 1930 (n. 29), dove si definisce il lavoro forzato come “ognilavoro o servizio che viene estorto a qualsiasi persona sotto la minaccia di una punizione e per il quale detta persona non si è offerta volontariamente”.

Segue l’intervento di Rahmanjan Dawut, direttore del Dipartimento delle Risorse Umane e Sicurezza Sociale dello Xinjiang Uygur: “Il Governo cinese attribuisce grande importanza alla protezione dei diritti dei lavoratori e costantemente si oppone al lavoro forzato. Questo può essere trovato nelle leggi e nei regolamenti Dal 18 ° Congresso Nazionale, lo Xinjiang ha compiuto gesti proattivi in progetti di occupazione a beneficio delle persone. Grazie a tali misure, l’occupazione ha raggiunto una crescita sostenuta, accompagnata da una vita di qualità, un maggiore senso di appagamento e sicurezza”. 

Il 17 settembre 2020 -rende noto Rahmanjan Dawut- l’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato ha pubblicato il libro bianco “Sicurezza dell’occupazione nello Xinjiang”, che ha preso in esame le condizioni di base, l’attuazione di politiche attive per l’occupazione, il pieno rispetto della volontà dei lavoratori e la garanzia dei diritti fondamentali. Lo Xinjiang, impegnato in un concetto orientato alle persone, risponde alla chiamata dell’ILO, essendo determinato a favorire giustizia sociale partecipazione, sviluppo e condivisione dei benefici dei lavoratori. Non risparmia sforzi per rispettare la volontà dei lavoratori, migliorare l’ambiente di lavoro, perfezionare i sistemi occupazionali e imprenditoriali, trasferire i lavoratori in eccedenza, aiutare i laureati a trovare lavoro, sostenere le persone svantaggiate. La voce e la volontà dei lavoratori sono la base per formulare politiche pertinenti, aprire nuovi canali, condurre attività di formazione e servizi. Saranno in futuro condotti sondaggi regolari per cogliere preferenze e richieste su: posti disponibili, pacchetto retributivo e prospettive di promozione. E già le politiche attive di occupazione hanno reso possibile stabilità e durata a lungo termine di occupazione per le persone di tutti i gruppi etnici. Statisticamente i lavoratori dello Xinjiang trasferiti in altre regioni realizzano un reddito annuo pro capite di 40.000 yuan (lo stesso dei residenti urbani locali), mentre i lavoratori trasferiti internamente nello Xinjiang godono di  30.000 yuan pro capite, molto più del reddito agricolo originario. 

La strategia delle priorità occupazionali prevede : 1- adottare sussidi all’occupazione e all’ imprenditorialità, sia per la formazione professionale che per le assicurazioni sociali, inoltre incentivi fiscali e prestiti di garanzia, misure per incoraggiare le imprese ad assorbire e sostenere i lavoratori urbani e rurali nella ricerca del lavoro autonomo. Nel 2020, la sola area di Hotan ha emesso un prestito garantito di 1,708 miliardi di yuan, con un aumento di 798 milioni di yuan rispetto al 2019, aiutando 26.200 laureati, braccianti rurali e persone con difficoltà ad avviare un’attività. 2-rafforzare l’occupazione pubblica , fornire servizi pubblici per l’impiego di manodopera proveniente da famiglie povere, laureati disoccupati e residenti urbani senza lavoro. Dal 2014 al 2020, un totale di 376.400 persone con difficoltà nelle aree urbane sono state aiutate a trovare lavoro ed è stata assicurata assistenza 24 ore su 24 alle loro famiglie. 3-promuovere l’occupazione delle minoranze etniche per cui il governo locale sviluppa industrie ad alta intensità di manodopera per creare posti di lavoro adeguati nei settori tessile e abbigliamento, lavorazione di prodotti agricoli e industrie terziarie come ristorazione, turismo , commercio.

Note:

  1. Organizzazione  fondata da Wang Zhen nel 1954 su iniziativa di Mao Zedong, con gli obiettivi dichiarati di promuovere sviluppo economico nelle regioni di frontiera, stabilità sociale e difesa dei confini. I Bingtuan godevano di autonomia amministrativa, disponevano di un sistema giuridico interno, avevano il compito di costruire insediamenti, fattorie e impianti di irrigazione, ricoprivano funzioni di assistenza sanitaria e istruzione per le aree sottoposte alla loro giurisdizione. I Corpi erano ispirati al tradizionale antico “sistema tuntano” di colonizzazione agricola interna tramite insediamento di unità militari nelle aree di frontiera, promosso dall’Impero Cinese della Dinastia Han e praticato ampiamente dalla Dinastia T’ang  e dalla Dinastia Qing.
  2. https://www.ispionline.it/it/focuscina/salario-minimo-nuovi-aumenti-10-province; https://www.ispionline.it/it/focuscina/il-tessile-promuovere-lo-sviluppo-delle-province-occidentali
  3. Partecipanti: Elijan Anayat, portavoce del governo popolare della regione autonoma dello Xinjiang Uygur,  Rahmanjan Dawut direttore del Dipartimento delle risorse umane e della sicurezza sociale, Ildos Murat, vicepresidente della Federazione dei sindacati, Nurai Yunus vicepresidente della Federazione dell’industria e del commercio, Liu Qingjiang vicepresidente dell’Associazione dell’industria tessile del cotone; Pan Cunxiang segretario generale dell’Associazione dell’industria dei metalli non ferrosi; Arkin Shamshaq vice preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Xinjiang; Akbar Turahun, dipendente di Aksu Huafu Mélange Co., Ltd. e altri testimoni