A vent’anni dallo scoppio della guerra contro l’Iraq

di Fabio Massimo Parenti

da https://italian.cri.cn

Il 19 marzo 2003 cominciava l’invasione statunitense dell’Iraq, un’operazione militare massiccia e devastante, chiamata grottescamente Iraqi Freedom, che avrebbe aperto un conflitto durato oltre otto anni, sino al completamento del ritiro delle truppe il 18 dicembre 2011, provocando – direttamente o indirettamente – centinaia di migliaia di vittime civili: le cifre sono tutt’ora incerte ma vanno dal range di 112.017 – 122.438 stimato dall’ONG Iraq Body Count, alle 461.000 stimate da uno studio accademico congiunto tra atenei di Stati Uniti, Canada e Iraq. Ancora oggi il Paese mediorientale sta subendo le conseguenze catastrofiche di questa invasione, che ha portato, oltre alla morte di innumerevoli civili (alcune fonti parlano di 1 milione di persone), alla continua destabilizzazione e alla nascita di nuove organizzazioni terroristiche.

Si è trattato di un’invasione illegale, che gli Usa hanno preteso di giustificare basandosi su informazioni false, secondo le quali l’Iraq avrebbe nascosto armi di distruzione di massa e avrebbe collaborato con i terroristi di Al-Qaeda. Dall’invasione dell’Afghanistan a quella dell’Iraq il passaggio è stato veloce e completamente scollegato, nei fatti, dagli eventi drammatici dell’11 settembre 2001. L’invasione dell’Iraq svelava, invero, l’agenda politica statunitense: conquistare il cosiddetto “grande Medioriente” attraverso guerre finalizzate al cambio di regime sotto la “falsa bandiera” della “guerra al terrorismo”. 

L’Amministrazione guidata da George W. Bush, pur contestata da più parti, prese la decisione senza tentennamenti. Malgrado i pareri discordi di molti capi di stato o di governo stranieri, tra cui gli allora leader di Francia e Germania, Jacques Chirac e Gerhard Schroder, la potente lobby neoconservatrice, rappresentata in quell’amministrazione da personaggi di spicco quali Paul Wolfowitz, Elliot Abrams, Richard Perle e Paul Bremer, convinse lo stesso Bush e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld della necessità di invadere l’Iraq per detronizzare Saddam Hussein nel quadro della guerra al terrorismo internazionale lanciata all’indomani degli attentati dell’Undici Settembre.

L’opera di convincimento dell’opinione pubblica internazionale era cominciata almeno un mese e mezzo prima, cioè il 5 febbraio 2003, quando l’allora segretario di Stato americano Colin Powell mostrò alle Nazioni Unite una provetta contenente non meglio precisate sostanze chimiche, di cui il governo iracheno sarebbe stato in possesso: “Non ci può essere alcun dubbio che Saddam Hussein abbia armi biologiche e la capacità di produrne altre rapidamente. Abbiamo inoltre la certezza che Saddam stia lavorando per produrre delle armi di distruzione di massa nucleari”. Tutto falso. Qualche anno dopo, i dubbi, già molto forti, espressi da gran parte della comunità internazionale divennero certezze: delle presunte armi di distruzione di massa in Iraq non c’era mai stata traccia.

A dirla tutta, dopo la prima Guerra del Golfo (1990-1991) e dodici anni di pesanti sanzioni economiche e tecnologiche imposte dalle amministrazioni di George H.W. Bush e di Bill Clinton, le forze armate di Saddam Hussein erano praticamente ridotte all’osso anche per quel che riguarda gli armamenti convenzionali. Per avere dell’incommensurabile sproporzione tecnologica militare tra i due Paesi, basti considerare che la campagna Shock and Awe (cioè Colpisci e Intimidisci), pensata dal Pentagono per fiaccare la resistenza del governo di Saddam Hussein ha causato direttamente la morte di 7.186 civili iracheni nei soli primi due mesi di guerra, mentre negli oltre otto anni di conflitto sono deceduti poco più di 4.500 militari statunitensi.

Significativi sono anche i dati relativi all’intero impegno bellico americano successivo all’Undici Settembre: tra Afghanistan, Iraq, Pakistan ed altri teatri di conflitto sono caduti sul terreno oltre 7.000 soldati, molti meno dei 30.177 che si sono tolti la vita in servizio o in congedo.

E non finisce qui. Perché la destabilizzazione vissuta dal Paese tra il marzo 2003 e il dicembre 2006, quando Saddam Hussein fu condannato a morte dal governo ad interim di Al-Maliki, creò le condizioni per l’emersione di nuove formazioni insorgenti paramilitari, sia sunnite che sciite, che gettarono l’Iraq nel caos dei conflitti etnico-religiosi, favorendo la proliferazione del terrorismo e del settarismo: fenomeni che hanno continuato ad insanguinare per anni buona parte del Medio Oriente. Tra i numerosi gruppi armati, sorse anche, dalla costola irachena di Al-Qaeda (AQI), l’embrione di quel sedicente Stato Islamico (IS) che a partire dal 2013 avrebbe terrorizzato non solo l’Iraq ma anche la Siria ed altri Paesi a maggioranza musulmana.

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